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WALTER IN GIRO PER L'ITALIA AD ACCOMPAGNARE LA MUSICA di Marco Bartesaghi

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Walter Riva, anni settanta








“Maledetto il giorno che ho conosciuto i PHOLAS DACTYLUS”.
 

Walter lo dice ma non lo pensa, perché la collaborazione con il complesso dei Pholas - avvenuta intorno al 1974 - , per i quali si occupava degli strumenti e degli impianti in occasione dei concerti, diede inizio per lui a un periodo di vita piuttosto entusiasmante. Lo si intuisce da come, più di quarant’anni dopo, ne parla.
Per più di due anni infatti ha girato l’Italia in lungo e in largo, al seguito di alcuni dei gruppi musicali più in voga allora e di alcuni artisti celebri ancora oggi.



Walter Riva, nato a Verderio Superiore alla “Chiesa Vecchia”, figlio di Carlo, montatore di ponteggi, e di Maria Spada, oggi ha 62 anni. Ne aveva venti nel ’74 e lavorava a Robbiate da Bosisio, una ditta di ferro battuto, quando Rinaldo Linati, un coetaneo di Trezzo d’Adda, che oggi vive in Ucraina, gli propose di fare il tecnico di palco, per il complesso in cui suonava, i Pholas Dactylus appunto, dove Rinaldo era bassista; Paolo Carelli, di Sulbiate, voce e autore dei testi; Lello, di Vimercate, chitarrista, Valentino, organista.
Batterista era Giampiero Nava, detto Peo, che in seguito ha suonato per due gruppi di Verderio, “Gli Evasi” e “I Cleptomani”(1). Scomparso recentemente, è stato ricordato su questo blog da un amico, Doriano Riva, il 29 novembre 2015.


Immagine scaricata dal Web




I Pholas hanno avuto una vita piuttosto breve ma il loro unico album, intitolato “Il concerto delle menti”, caratteristico per il testo non cantato ma recitato, è considerato uno dei più interessanti momenti del rock progressivo italiano “minore”(2).

Lasciati loro, Walter inizia a collaborare con le “Equipe 84”, grazie a Sandro Fumagalli, di Calusco d’Adda, che delle Equipe è il fonico.


Le Equipe 84. Immagine scaricata dal Web
Fu così che, nella primavera del 1974, per l’interessamento di Walter, le Equipe per una settimana fecero le prove per un concerto nel teatro dell’oratorio di Verderio Superiore. In cambio il parroco, don Giampiero Brazzelli, ottenne in regalo un concerto, che attirò un pubblico numeroso ed entusiasta.

Walter a Genova con le Equipe 84 (foto scattata da uno di loro: bravo musicista , ma come fotografo...)
 
Ingaggiato, con Sandro Fumagalli, da un paio di ditte di noleggio strumenti, la Davoli di Parma prima e la Montarbo poi, Walter lavora per numerosi musicisti. Oltre alle Equipe 84, ricorda i Dik Dik, i Camaleonti, Claudio Rocchi – che accompagna a un paio di serate a “incasso zero”, di quelle che non ti lasciano neanche i soldi della benzina per il ritorno – Marcella.

Mia Martini e Franco Battiato, di quelli che ha conosciuto,  erano i professionisti più seri, che non smettevano le prove se tutto non era in perfetto ordine.

 
Immagine scaricata dal Web


Con Battiato, che allora abitava a Milano, Walter ha lavorato in una tournée in Sicilia, nella quale  il cantante era  accompagnato dal complesso lombardo dei “Perdio”(3). Nella sua terra Battiato era già piuttosto conosciuto e quindi alle serate c’era sempre parecchia gente.


In un'altra occasione le cose non andarono altrettanto bene. Il concerto si doveva svolgere in un teatro vicino a Verona; vi si recarono con la macchina di Battiato – “una NSU Prinz arancione con tetto nero” – su cui caricarono la strumentazione: 2 minimoog (4). Risultato: pubblico meno numeroso degli organizzatori e solito problema dei soldi della benzina per il ritorno.


Come per le Equipe 84, anche nella vita di Battiato, c’è un episodio che riguarda Verderio. Egli infatti, per circa una settimana, fu ospite di Walter, che gli mise a disposizione lo spazio della sua stalla per fare le prove. Chissà se se ne ricorda. Ho provato a chiederglielo, ma non mi ha risposto.


 
Walter in Calabria
Per Walter, che in seguito ha fatto il corriere e oggi è pensionato,  questa esperienza è durata circa due anni e mezzo: “Era una vita frenetica, dove si guadagnavano dei “bei soldi” ma che non dava tregua. Dovevi preparare gli impianti e gli strumenti prima che arrivassero i musicisti, poi seguire le prove, il concerto e, alla fine, smontare caricare e, se l’appuntamento successivo era la sera dopo, magari a qualche centinaio di chilometri di distanza, partire subito, dormire in furgone a turno , arrivare e ricominciare. D’estate ci si fermava solo due o tre giorni al mese per riparare le apparecchiature guaste. A vent’anni, per un po’ di tempo lo puoi fare, ma solo per un po’di tempo.”
 

Poi ti rimangono i bei ricordi.

NOTE
(1)  Questa è la composizione della band secondo i ricordi di Walter e di Fritz, Fabrizio Oggioni. Questo è quanto ho invece trovato su Wikipedia: Paolo Carelli – voce recitante, Valentino Galbusera – tastiere, Maurizio Pancotti – pianoforte, Eleino Colledet – chitarra, Rinaldo Linati – basso, Giampiero Nava – batteria
 

(2)  Lo potete ascoltare su You Tube al seguente indirizzo:
https://www.youtube.com/watch?v=srynIegLvec&list=RDsrynIegLvec#t=18
. Sui Pholas Dactylus e su “Il concerto delle menti”, un articolo di Paolo palma sul sito onda rock: http://www.ondarock.it/italia/pholasdactylus.htm
 

(3) Sui “perdio” ho trovato notizie al seguente indirizzo: http://xoomer.virgilio.it/tbellell/perdio/history.html e un’interessante intervista a un loro componente, Titta Colleoni, a questo indirizzo: https://www.bebeap.it/7870-la-musica-e-una-cosa-seria-intervista-a-titta-colleoni.html
 

(4)    Il minimoog è un sintetizzatore monofonico analogico inventato da Robert Moog. Fu messo in commercio nel 1970 dalla Moog Music, e fu uno dei primi sintetizzatori di prezzo accessibile, leggeri, relativamente semplici da programmare e largamente disponibili sul mercato

 Marco Bartesaghi


 

Article 1

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La Commissione Biblioteca di Verderio
per il ciclo "Incontri con l'autore" presenta


Gabriele Coltortiautore del libro:
Via Filodrammatici prima di Mediobanca


Il quartiere scaligero di Milano assunse diverse identità nel corso del tempo. In tale processo di lungo periodo si pone la storia del palazzo di Mediobanca. Le sue trasformazioni edilizie riflettono  le diverse funzioni di rappresentanza cui lo destinarono gli illustri proprietari. Residenza in età moderna di potenti casati della nobiltà milanese, l'edificio divenne a fine '800 la lussuosa casa della famiglia Gnecchi Ruscone. Il palazzo assunse un nuovo ruolo, quando la Mediobanca di Enrico Cuccia lo rese il "salotto buono" del capitalismo italiano.









Silvia A. Conca Messina  autrice del saggio:
Reti e strategie nel setificio:la famiglia-impresaGnecchi Ruscone (1773 - 1900)

Saggio inserito in Franco Amatori e Andrea Colli (a cura di) Imprenditorialità e sviluppo economico. Il caso italiano (secc. XIII-XX), Milano Egea, 2009, pp.1209-1249










Introduce la serata Claudio Besana
ricercatore presso la facoltà di Economia della Università Cattolica di Milano



Venerdì 4 marzo 2016
ore 21,00
Sala Consigliare di villa Gallavresi
via dei Municipi 20
Verderio   

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VERDERIO E LA CHIESA DI WAYAPACHA IN BOLIVIA di Marco Bartesaghi

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Maria, a destra nella fotografia









Maria, 34 anni, è una nostra concittadina (e mia figlia) che vive in Bolivia dal 2006, come volontaria dell’OMG, Operazione Mato Grosso.







Il villaggio in cui vive si chiama Phuyuwasi, che in quechua, la lingua dei nativi di ampie zone della Bolivia, del Perù e dell’Ecuador, significa “paese delle nuvole”

 
Una veduta di Phuyuwasi


È situato ad un’altitudine di poco più di 3000 metri; fa parte della zona pastorale di Wayapacha, un villaggio di poco più grande, e della parrocchia di Pocona.

Una veduta di Wayapacha
A Wayapacha l’OMG ha costruito e gestisce una scuola di falegnameria e ha dato vita a una cooperativa di falegnami , dove lavorano ex alunni della scuola.
Wayapacha ha una chiesa abbastanza grande poiché ad essa fanno riferimento, per le funzioni religiose, 11 o 12 villaggi circostanti. Fu fatta costruire negli anni cinquanta/sessanta del secolo scorso da padre Mario, un francescano originario del Trentino Alto Adige.



La chiesa di Wayapacha prima dei lavori di "restauro". Sotto, alcuni particolari







L’edificio, costruito probabilmente “al risparmio”, aveva accumulato negli anni diversi acciacchi, a cui era urgente porre rimedio.
Così, Maria ha scritto una lettera al gruppo missionario di Verderio Superiore per chiedere un sostegno finanziario. Eccola:


“Wayapacha
8 dicembre 2012
Festa dell'Immacolata
Cari del gruppo missionario,
non faccio nessun nome per non scordare nessuno, inizio questa lettera per due motivi. Uno mi viene facile e naturale, ringraziare ancora una volta per l'affetto e la disponibilità che mi avete dimostrato nel mio passaggio in Italia … la cena del povero, la curiosità, le tante domande.
L'altro mi viene sempre più difficile, ed è quello di chiedere.
Sono in chiesa a scrivervi, è la festa dell'Immacolata, la festa patronale qui a Wayapacha. Piove, finalmente, è una pioggia aspettata, chiesta, supplicata dalla gente … una pioggia che si è fatta aspettare … le patate iniziano a soffrire, come anche gli animali per cui iniziava a mancare l'erba …
Così sono venuta in chiesa questa mattina con nel cuore solo la parola “Grazie” … grazie perché si salverà il raccolto … grazie perché non inizieranno le liti, le divisioni per l'irrigazione.
“E allora cosa ci devi chiedere?”
Il problema è che entrata in chiesa, ha continuato a piovere, anche dentro … sul presbiterio, su parte delle panche. Il tetto, fatto ormai trent'anni fa dai francescani, sta iniziando a cedere … una parte si è staccata con il vento di agosto e iniziano ad esserci buchi in varie parti. Noi abbiamo sempre rimandato … per usare i soldi per le case della gente, per l'acqua potabile, per il lavoro con i ragazzi, ma adesso è difficile pensare di rimandare ancora … Ma non possiamo iniziare nessun lavoro se non troviamo i soldi apposta per questo. E così eccomi con la richiesta per voi. Ci aiutereste? Anche con poco, magari con un'altra cena del povero o con qualche piccola iniziativa … Non abbiamo fatto ancora nessun progetto … tutto dipenderà da quanto riusciremo a racimolare … solo il tetto? Tutta la chiesa? È fatta di mattoni di paglia e fango e troppo piccola nei giorni in cui viene tanta gente … come sarà oggi. Il Padre Valentino, il parroco di qua originario di Brescia, già da qualche tempo ha scritto per chiedere aiuto, oggi mi sono sentita di dover fare qualcosa anch'io, ed eccomi qui.
Vi ringrazio ancora per quanto avete già fatto e anticipatamente per quanto potrete fare e se non potrete fare nulla vi ringrazio perché so che ci penserete.
Insomma, GRAZIE
Un abbraccio a tutti
Maria”.


Il gruppo missionario, accolto l’invito di Maria, si è mobilitato organizzando alcune iniziative per raccogliere i fondi: è stata dedicata a questo scopo una giornata missionaria, alla quale ha presenziato Padre Valentino, il sacerdote citato nella lettera, e il gruppo teatrale “Sem semper quei” (che, allora, era di Verderio Inferiore) ha recitato una sua commedia dialettale, devolvendo l'incasso a Maria. 

Grazie alla cifra proveniente da Verderio e ad altre offerte raccolte altrove, il restauro della chiesa ha potuto essere realizzato.

La chiesa durante i lavori di restauro
È stato rifatto il tetto, sostituendo la copertura in lamiera con una nuova in tegole. All'interno, sono state rifatte le capriate in legno ed è stato costruito un arco a tutto tondo all'altezza del presbiterio,
La posa del nuovo pavimento in cotto. Si notino anche le nuove capriate, l'arco del presbiterio e le nuove finestre alle pareti.


che è stato dotato di un nuovo altare, di un leggio e un tabernacolo in legno, provenienti dai laboratori dell'Operazione Mato Grosso.

La posa del nuovo altare
Le pareti laterali sono state dotate di nuove finestre,  la facciata di un nuovo portone d'entrata e di un rosone in cotto. È stato realizzato un nuovo pavimento in cotto.


Il rosone
La benedizione del nuovo portone d'entrata

Il campanile, pericolante, è stato messo in sicurezza, e le sue pareti dotate di finestre.

Il progetto per il rstauro è stato redatto da Simone Rinaldi, un giovane architetto nato a Grosio, in Valtellina, ma residente in Bolivia fin da bambino (anche i suoi genitori sono “emigrati” in Bolivia come volontari dell'OMG).



Alla direzione dei lavori e alla loro esecuzione hanno contribuito  volontari italiani dell'OMG e giovani boliviani.



L'obiettivo di dotare Wayapacha e i villaggi vicini di una chiesa dignitosa è quindi stato raggiunto e il contributo della comunità di Verderio a questa realizzazione è stato essenziale.

Di Maria e della sua vita in Bolivia ho già parlato su questo blog il 17 maggio 2009, con un articolo intitolato "Chiedo scusa se parlo di Maria" . Lo trovate a questo indirizzo:

http://bartesaghiverderiostoria.blogspot.it/search?q=chiedo+scusa+se



IL GIARDINO DELLA VILLA GNECCHI IN UNA CARTOLINA E IN UN DISEGNO D'INIZIO NOVECENTO di Marco Bartesaghi

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Molte sono le cartoline che ritraggono il lato anteriore della villa Gnecchi di Verderio, quella che in precedenza era stata della famiglia Confalonieri. Più rare quelle che la ritraggono dal dietro, dalla parte del giardino.
L'unica che conosco è quella che vi sto presentando e che vedete nella prima immagine.




Questo esemplare ha viaggiato nel novembre del 1925, quando il Maestro Vittorio Gnecchi Ruscone lo indirizzò alla signorina Anna Rossi, villa Belvedere, "vialone" di  Monza.
L'immagine però è più antica, poiché un altro esemplare che possiedo ha viaggiato nel gennaio del 1912 , inviato da una certa Sandra, probabilmente una componente della famiglia Gnecchi, alla contessa Lupi di Moirano a Villa Borghi di Legnano.

Questo era quindi l'aspetto del giardino e della facciata posteriore della villa nei primi anni del secolo scorso.

Cosa è cambiato?

LA FACCIATA POSTERIORE




La scalinata d'accesso al giardino sembra essere rimasta uguale, salvo l'aggiunta di vasi per fiori sui pilastrini alle estremità dei vari tratti di balaustra.



Sul terrazzo sono state chiuse le porte finestra laterali: quella di destra sostituita da una porta cieca; quella di sinistra da una nicchia decorata a stucchi occupata una fontana con il getto d'acqua sgorgante da un mostro marino retto da due putti.




 .

Sopra la porta finestra centrale è ora presente un bassorilievo - sembrerebbe un doppio stemma - prima inesistente.

Salvo una finestrella aggiunta a destra delle tre finestre dell'ultimo piano, mi sembra che il resto della facciata sia uguale a com'era nella cartolina d'inizio novecento.


IL GIARDINO 

Del giardino, nella cartolina, si vede solo la prima aiuola a destra, guardando dalla villa. A parte il suo arredamento, che senz'altro è cambiato innumerevoli volte, per le sue dimensioni e la sua forma è rimasta uguale fino ad oggi. 

Eccola ad esempio in una fotografia degli anni quaranta del secolo scorso:







  e in un'altra scattata pochi giorni fa:




 
Diverso da come appare oggi è ciò che si vede nella parte destra della cartolina:




Qui sono ancora presenti le statue che, fino agli anni cinquanta del novecento, avevano  addobbato  l'intero lato sinistro del giardino:







Manca invece la ghirlanda di edera che le legava in un'unica architettura, unico elemento ora rimasto:





Di quello che c'era nella cartolina sono scomparse anche le palme, mentre non vi vede ancora la doppia fila di carpini che oggi costeggia il muro di cinta.


***
Riguarda il giardino della villa anche un documento che dovrebbe risalire ai primi due/tre decenni del ventesimo secolo.

È un disegno in pianta, realizzato a china. Nel disegno  sono annotati a matita i nomi delle piante con cui si sarebbero dovuti realizzare i bordi e  le parti le superfici centrali delle varie aiuole, annotazioni che qui di seguito ho trascritto.

Il disegno del giardino di villa Gnecchi. Ho aggiunto i numeri per indicare le annotazioni a matita


1 Aiuola della fontana e successiva
   Centro: geranio edera
   Bordo: Alternanthera rossa

2 - 3 Centro: begoniette
         Bordo: begonia bulbosa
        
4 - Centro: verbena
      Bordo: alternanthera gialla


5 - Centro: verbena
      Bordo: alternanthera gialla

6 - Centro: lantana
      Bordo: violette (cassato a matita)

7 - Centro: bocca di leone gialla
      bordo: ageratum (cassato a matita)

8 - Centro: vaniglia
      Bordo: ageratum (cassato a matita)

9 - Centro: verbena
      Bordo: ageratum (cassato a matita)

Marco Bartesaghi



LE CARPINATE DEI GIARDINI DI VILLA GNECCHI A VERDERIO di Marco Bartesaghi

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È negli anni venti del novecento che la villa Gnecchi di Verderio, quella che in precedenza era stata  dei Confalonieri, assume l'aspetto esterno attuale ed entrano a far parte della sua scenografia due aree che fino ad allora le erano state estranee: una a nord, inglobata nel perimetro della villa; l'altra a sud esterna e separata da essa dalla presenza della strada provinciale.

Questa e le successive due fotografie risalgono agli anni quaranta del novecento e sono state scattate, presumibilmente, da Franco Greppi, genero di Vittorio Gnecchi Ruscone. In questa immagine il giardino "storico" divilla Gnecchi

Nella prima sorgerà, sul confine di Paderno d'Adda e al termine di un viale di cipressi, la fontana denominata, recentemente, di Meleagro; nell'altra, al centro, la fontana di Nettuno.


Il parco detto di Meleagro




In entrambe le aree, ma anche nel giardino storico della villa, che, presumibilmente, negli stessi anni aveva assunto un nuovo aspetto, il carpino, disposto a carpinata e a bosco, sarà la presenza arborea preponderante e, anzi, l' unica per decenni, salvo quattro cipressi sul lato adiacente alla strada, nel parco di Nettuno.


Il parco di Nettuno.



Che fine hanno fatto questi carpini?
Questo articolo è il frutto di un sopralluogo per verificare le condizioni in cui attualmente si trovano.
 


 IL GIARDINO "STORICO" DELLA VILLA

Prima tappa il giardino "storico" della villa
Sul lato orientale, adiacente al campo da tennis, il “bosco”: un’area rettangolare, piantumata a carpini, capace di produrre una zona d’ombra, ottimo refrigerio nelle caldane estive.


Il "bosco" di carpini del giardino di villa Gnecchi



Da quando è presente il bosco? Difficile stabilirlo. Come prima si accennava, potrebbe essere stato realizzato durante la ristrutturazione degli anni venti. C’era negli anni quaranta del novecento, periodo a cui risale la fotografia n 5, scattata probabilmente dal signor Franco Greppi, dove appaiono sua moglie, Isabella Gnecchi, le figlie, Maria Vittoria e Maria Cristina , e una signora, a sinistra,  che non so individuare.


Il "bosco" di carpini negli anni quaranta e , sotto, oggi





 ***
Lungo tutto il lato occidentale del giardino corre, ancora oggi, una doppia fila di carpini, ben visibile dalla strada che porta a Paderno (via dei Contadini Verderesi).

La doppia carpinata di villa Gnecchi vista dalla strada

Ben curata, regolata in altezza e e sui lati esterni, sia quello rivolto al giardino che quello rivolto alla strada, mantiene il suo aspetto di viale ombreggiato perfettamente percorribile, perché tenuto libero dai rami bassi.

Il doppio filare di carpini nel giardino di villa Gnecchi

IL PARCO DI NETTUNO
 
Fino alla seconda metà degli anni ottanta, il parco di Nettuno è rimasto come era stato realizzato negli anni venti dal proprietario della villa, Vittorio Gnecchi Ruscone: un grande prato (“Campogrande” era anche la sua denominazione ottocentesca) con in mezzo una fontana;  delimitato a nord, verso la strada, da una bassa cancellata in ferro battuto e pilastrini di ceppo, sugli altri tre lati da altrettante carpinate.

La carpinata del lato ovest del parco di Nettuno
Le due laterali (est e ovest), a filare singolo, dopo essere state per un certo numero di anni abbandonate alla loro sorte, più recentemente hanno ricominciato ad essere lavorate in modo da formare una parete arborea  abbastanza compatta (manca qualche pianta, soprattutto sul lato est).

 
La carpinata del lato est del parco di Nettuno


Sul fondo del parco (lato meridionale), adiacente alla cascina Prati, una doppia fila di carpini dava vita a un passaggio pedonale ombreggiato. Tale aspetto era stato probabilmente riconosciuto nella ristrutturazione del parco avvenuta negli anni ottanta del secolo scorso, tanto che il viottolo fu pavimentato con mattoni in ghiaia, tuttora esistenti sotto uno strato di terra.

 
La doppia carpinata sul fondo del parco di Nettuno



La scarsa manutenzione successiva, ha fatto sì che non  sia stato mantenuto libero il passaggio pedonale e la morte di alcune piante, non sostituite, ha reso incompleti i filari. 


IL PARCO DI MELEAGRO
 

La doppia fila di carpini del giardino della villa aveva una continuazione ideale nel parco detto di Meleagro, lungo il basso muro di confine con la strada carrozzabile. Abbandonata a sé stessa per tanti anni questa carpinata aveva  già da tempo perso, in un intrico di rami, il passaggio pedonale al suo interno.

Ciò che resta della doppia carpinata del parco di Meleagro
Pochi anni fa, forse per evitare le frequenti manutenzioni necessarie per tener la strada libera dai rami sporgenti, la fila di carpini più esterna è stata tagliata. Peccato, forse si sarebbe potuto adottare una soluzione meno drastica  e recuperare , almeno in parte il suo aspetto originario.

I tronchi tagliati della seconda fila di carpini
 
 ***

Ben più elaborata , quando l'area faceva parte del corpo della villa, la carpinata a monte del parco, quella sul lato est. Essa era lavorata in modo da formare  semicirconferenze concave, contigue una all'altra, al centro della quali, su piedistalli in pietra, erano poste statue di stile classico.
 
 
La carpinata del parco di Meleagro, negli anni quaranta del novecento. In primo piano i fratelli Greppi, Carlo, Maria Vittoria e Maria Cristina


Un disegno che richiama la ghirlanda di edera che, nel giardino delle villa, accompagnava un'altra serie di statue

La ghirlanda d'edera nel giardino della villa
 

L'area del parco fu venduta, se non sbaglio negli anni cinquanta dello scorso secolo. Le statue, rimaste di proprietà dei venditori, gli eredi di Vittorio Gnecchi Ruscone, furono rimosse. Rimasero, e sono tuttora presenti i  sei piedistalli, distanti fra loro di 25 o 26 passi (mi scuso per l'unità di misura usata , ma, nel sopralluogo ero senza bindella).

Uno dei piedistalli delle statue
 
I carpini (21 piante nello spazio fra due piedistalli), non più curati e sviluppatisi liberamente hanno cancellato il disegno geometrico, trasformando del tutto la carpinata preesistente. 




Sulla destra la carpinata est del parco di Meleagro, come si presenta oggi

Marco Bartesaghi


 

CARPINI E CARPINATE di Giorgio Buizza

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LAVORI IN CORSO:

ARTICOLO IN PREPARAZIONE

UN GIRO ATTORNO AL PLATANO di Giorgio Buizza

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Giorgio Buizza è il dottore agronomo che, in occasione della realizzazione della rotonda del platano, era stato incaricato dal comune di Verderio Superiore di stendere una relazione sullo stato del Platano  e di seguire lo sviluppo della realizzazione della rotonda, per rimediare all’impostazione originariamente data dalla Provincia.
Buizza ha recentemente "visitato" i platano e mi ha mandato questo articolo  sulle sue condizioni di salute. Lo ringrazio.

Avendo già collaborato in passato con questo blog, Giorgio Buizza ha una sua etichetta,sotto la quale potete trovare i seguenti articoli:
- CONSIDERAZIONI SULLA POTATURA DEGLI ALBERI;
- PLATANI IN UNGHERIA E CROAZIA
- IL PLATANO DI VERDERIO

Una serie di fotografie di platani di Verderio, pubblicata sul blog,  la potete invece trovare cliccando su:
http://bartesaghiverderiostoria.blogspot.it/2009/07/platani-verderio.html 
 M.B.

UN GIRO ATTORNO AL PLATANO

Il platano di Verderio è incluso nell’elenco degli alberi monumentali della Provincia di Lecco con il n° 301 e, molto probabilmente, sarà inserito nel censimento nazionale degli alberi monumentali, previsto dalla Legge n° 10/2013.
Dopo la realizzazione della rotatoria, inaugurata nella primavera del 2004, il platano ha potuto disporre di una superficie permeabile più estesa di quella di cui disponeva in precedenza. La rotonda è stata costruita attorno all’albero in modo da garantirne la salvaguardia sia per la parte ipogea, - le radici – sia per la parte epigea - il fusto e i rami.
L’aiuola è stata dotata di impianto di irrigazione a goccia e l’area occupata dalle radici, è stata tappezzata di piantine di rose che rendono ulteriormente difficoltoso l’eventuale calpestio di chi intende avvicinarsi troppo al tronco. Alla base è stato installato un punto luce per arricchire la scenografia notturna. Allo stesso modo con cui vengono illuminati i campanili anche gli alberi possono diventare punti di riferimento per la comunità in transito.
Avere isolato l’albero in uno spazio di difficile accesso è stato, alla fine, un gran beneficio per l’integrità dell’albero. 




ALCUNI PARAMETRI
 

L’altezza misurata con un ipsometro forestale è stimata di circa 34,5 metri; con riferimento ai parametri edilizi corrisponde ad un edificio di oltre 10 piani.
Per questo grattacielo naturale non sono state montate gru, non sono state preparate fondamenta, non sono stati necessari ponteggi. Il platano ha fatto tutto da sé, trovando nel terreno le sostanze nutritive e l’acqua necessarie per il suo sviluppo. Quanta energia e quanta tecnologia sono necessarie, in una casa, per spingere l’acqua al decimo piano? Il platano fa tutto da sé,  senza impiego di pompe, semplicemente utilizzando la depressione creata dalla traspirazione delle foglie che richiama acqua dal terreno.
Abbiamo provato a misurare anche il diametro della chioma: dall’estremità di un ramo all’estremità opposta siamo attorno ai 30 metri. Quanta tecnologia sarebbe necessaria per realizzare una mensola con uno sbraccio di circa 15 metri? Ci vorrebbero ferri e cemento, tiranti e puntelli. Il platano ha fatto tutto da sé formando rami che si protendono verso l’esterno formando arcate successive, sempre più sottili.
La circonferenza del fusto (misurata a circa m 1,30 da terra) è oggi di 550 cm. La precedente misura risale al 1996 quando la circonferenza era di 508 cm. L’incremento annuale può quindi essere valutato di circa 2 cm. Il diametro del fusto (161,8 nel 1996 – 175,2 nel 2016) è aumentato mediamente di 0,67 cm/anno. Una cerchia legnosa di oltre 3 millimetri di spessore, per un albero d queste dimensioni rappresenta un incremento notevole e conferma l’ottimo stato di salute dell’albero.
Si può ipotizzare l’età del platano, anche se con molta approssimazione, in un arco di 150-180 anni. L’albero è certamente più longevo degli attuali abitanti di Verderio, alcuni dei quali sicuramente ricorderanno di aver visto il platano già adulto quando erano ragazzi.
Altri elementi per una datazione certa (cartoline, fotografie, documenti) finora non sono stati trovati. Trattandosi di un albero tra i più comuni e consueti del territorio padano nessuno ha forse pensato di annotare e documentare la sua presenza che ora, viste le dimensioni raggiunte, è diventata un’attrattiva del paesaggio circostante ed un richiamo di grande interesse botanico, paesaggistico e culturale.








CONFRONTO TRA PLATANI GIGANTI.
 

In base ai rilievi effettuati dalla Provincia di Lecco per la redazione del censimento degli alberi monumentali, pubblicato nel 2005, il platano di Verderio risulterebbe, quanto a circonferenza del fusto (a quella data di cm 525) il terzo nella graduatoria della specie platano, superato da quello di Villa Sommi Picenardi a Olgiate Molgora (cm 995 – vedere immagine) e dal platano di Villa Taverna Riccardi a Bulciago (cm 640). Seguono, nella ideale classifica dei platani della provincia altri platani, comunque meritevoli di attenzione con circonferenza di poco inferiore (Molteno, Villa Rosa, cm 517; Merate, Villa Cornaggia, cm 515; Imbersago, Villa Castelbarco, cm 498; Sirtori, Villa Besana, cm 485; Casatenovo, Villa Facchi, cm 465).
Mentre tutti gli altri grandi platani della provincia sono all’interno di giardini di ville appartenenti o appartenute a famiglie nobili, il platano di Verderio è cresciuto ad un crocicchio di strade pubbliche anche se in adiacenza alla Villa Gnecchi Ruscone ora adibita ad abitazioni private dopo le trasformazioni della fine del 900. E’ probabile che qualche nesso tra il platano e la famiglia nobile locale ci possa essere: sarebbe interessante scoprirlo.



Platano della Villa Sommi Picenardi a Olgiate Molgora – circonferenza (nel 2005) di 995 cm
Un primato difficilmente raggiungibile.





Contrariamente a quanto accade normalmente ai platani delle città, il platano di Verderio è diventato bello, grande e sano per una serie di motivi che è opportuno elencare nella speranza che servano a guidare le azioni future.

1. Ha avuto uno spazio adeguato per crescere: non ha dovuto subire la concorrenza di linee elettriche o telefoniche, è stato piantato sufficientemente lontano dalle case, perciò non sono state praticate potature per il contenimento della chioma. La struttura dell’albero lascia trasparire che, oltre alle probabili leggere potature di formazione nell’età giovanile, l’albero non è più stato potato in età matura. Qualche segno di taglio di rami di un tempo lontano è riconoscibile lungo il fusto, ma la vigoria della pianta ha rimediato alle ferite prodotte dai tagli sviluppando nuovo legno e nuova corteccia fino a ricoprire completamente le ferite con una nuova “pelle” viva.

2. Ha avuto a disposizione acqua in abbondanza.
I platani prosperano in vicinanza dei fossi, delle scoline, dei corsi d’acqua; il terreno non deve essere costantemente sommerso, ma le radici devono poter attingere dagli strati profondi l’acqua necessaria a mantenere una dotazione fogliare molto estesa. Si può stimare che in piena vegetazione un platano di queste dimensioni attinga e trasporti verso le foglie qualche metro cubo di acqua al giorno. Solitamente le radici di un albero adulto si affondano nel terreno per 1-2 metri o poco più ma beneficiano della risalita dell’acqua dagli strati profondi e della umidità persistente, anche se la falda è più profonda. In condizioni di buona permeabilità le radici possono spingersi anche a profondità maggiore di 2 metri, ma raramente arrivano a tre metri, molto dipende dalle condizioni del terreno e dalla sua permeabilità. In ambiente urbano, in carenza d’acqua nel terreno, non è infrequente lo sviluppo delle radici che riescono ad insinuarsi nei tubi di fognatura fino ad ostruirli completamente a seguito dello sviluppo di radici fascicolate molto fitte che beneficiano della presenza dell’acqua.

A Verderio esisteva probabilmente un fosso lungo la strada dal quale le radici hanno attinto in gioventù, oppure la falda sotterranea era molto superficiale e le radici potevano attingervi facilmente.



 
3. Si è salvato dagli assalti dei giardinieri e dei potatori più o meno agguerriti il cui operato provoca solitamente la fine anticipata degli alberi. L’occasione si presta per ricordare che il migliore risultato sugli alberi ornamentali si ottiene lasciando crescere la pianta indisturbata, senza intervenire con modifiche forzate e traumatiche della chioma, ma semplicemente assecondando il compito della natura. Qualche potatura può essere necessaria nella fase giovanile per “educare” lo sviluppo dell’albero nella sua struttura fondamentale; una volta che questa è stata impostata, disponendo di ampi spazi per lo sviluppo della chioma, è opportuno lasciar fare alla natura limitandosi eventualmente ad eliminare qualche ramo secco, nel caso ce ne siano, come azione di prevenzione nei confronti di chi transita sotto la chioma.
Solitamente i rami secchi vengono selezionati dal vento e dalla neve quando sono ancora molto sottili (1 o 2 anni) mentre i grossi rami secchi sono quasi sempre il frutto di potatura sbagliata e di tagli di dimensioni eccessive, insopportabili dall’organismo vegetale a cui viene praticata una amputazione senza poter effettuare le successive medicazioni.

4. Quando è stata realizzata la nuova rotonda è stata usata la dovuta precauzione per non lesionare più del necessario le radici nel terreno. Rispetto al modesto triangolo di verde che contornava l’albero prima della realizzazione della rotonda, oggi l’albero, pur trovandosi in una zona ampiamente asfaltata e molto trafficata, gode di un’isola di terreno non calpestabile circondata da un basso muretto che protegge il fusto da eventuali urti di veicoli in movimento e consente alle radici una adeguata superficie permeabile per lo scambio di arie e acqua con gli strati di terreno in cui si affondano. Se la rotonda fosse più grande anche il platano starebbe meglio, ma, a giudicare dai risultati, pare che si sia giunti ad un sufficiente stato di equilibrio, tale per cui la sua crescita prosegue indisturbata.

5. L’assenza di tagli e di lesioni alla corteccia è la migliore garanzia contro gli attacchi dei parassiti fungini che si diffondono facilmente quando trovano la via aperta a seguito dei tagli o delle lesioni della corteccia. Il patrimonio platanicolo italiano negli ultimi decenni è stato fortemente ridotto dalla diffusione del fungo parassita Ceratocystis platani, tipico fungo “da ferita” che invade l’organismo vegetale attraverso i varchi prodotti nelle radici, nel fusto nei rami da interventi di disturbo e traumatici come gli scavi per l’interramento dei servizi, la potatura, la rottura di rami. A volte anche il picchio, con la sua azione di percussione e con gli spostamenti da un albero infetto a un altro albero sano, può contribuire alla diffusione del parassita.
L’esito dell’infezione è sempre letale in una arco di tempo di 2 o 3 anni.
Questo è il motivo per cui le potature sui platani sono vivamente sconsigliate e da limitare allo stretto necessario. La regione Lombardia, attraverso il servizio fitosanitario, ha il compito del monitoraggio della patologia e deve essere preventivamente informata, mediante specifiche richieste, prima di effettuare tagli o potature su alberi di platano, sia radicati in bosco, lungo le strade o in proprietà private.

Fino a quando continuerà la crescita? Difficile fare previsioni: viste le condizioni attuali e lo stato di salute, si può ipotizzare che possa arrivare anche a 300 anni. Dipenderà dalla persistenza di condizioni favorevoli e dalla assenza di disturbi provocati dall’attività antropica. Due sono le azioni da evitare assolutamente : gli scavi in prossimità dell’albero cioè nell’area sotto la proiezione della chioma e le potature inutili. Poi, come tutti i viventi l’albero completerà il suo ciclo biologico che potrà concludersi a causa di un uragano, a causa di un microscopico parassita, per il mutamento delle condizioni climatiche.
Il compito della comunità locale è di fare il possibile per tenerlo in vita. Fino ad oggi questo impegno non è costato molto alla comunità. L’albero si è procurato da solo, a costo zero, la sua fama e la sua bellezza.

***
IL PLATANO DAVANTI A "LA CHIESA VECCHIA" 
Si è osservato come recentemente sia mutato invece il paesaggio alla ex chiesa di S. Floriano dove un bellissimo platano, è stato pesantemente potato.
 

Il platana davanti a "la chiesa vecchia" prima della potatura ...

Oltre che uno spreco di risorse una potatura siffatta, con tagli di rami di 10/15 cm di diametro e una apertura generalizzata di ferite su tutta la chioma, rappresenta un depauperamento delle riserve dell’albero, che vegeterà molto più tardi rispetto a un suo simile non potato, ma soprattutto corre il rischio di essere infettato dal fungo parassita.
Quali saranno state le motivazioni che hanno indotto ad imbracciare la motosega: paura? incompetenza? illusione di migliorare la condizione dell’albero? tradizione? Desiderio di dominio?
Il servizio fitosanitario è stato informato?


... e dopo la potatura.

Il platano di S. Floriano potrebbe essere un giovane e ben quotato erede del grande platano comunale, pronto a prenderne il posto  il giorno che questo dovesse, per qualche strana ragione, venire a mancare.
In quella malaugurata circostanza la rotonda del platano manterrà probabilmente il nome, ma dovranno passare numerose generazioni prima di poter godere di un nuovo spettacolo rappresentato da un nuovo platano e dalla sua voluminosa chioma.
Beati coloro che hanno potuto godere della sua ombra e della sua presenza imponente e che lo hanno lasciato, in buone condizioni, in eredità alla comunità.

Verderio, 15 marzo 2016

Giorgio Buizza


 

QUEI QUATTORDICI MESI CHE CAMBIARONO IL DESTINO DI VERDERIO SUPERIORE di Beniamino Colnaghi - prima parte

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"Ma, quando io avrò durata l'eroica fatica
di trascriver questa storia da questo dilavato
e graffiato autografo, e l'avrò data,
come si suol dire, alla luce, si troverà poi
chi duri la fatica di leggerla?"...
Alessandro Manzoni
 
 
Nove aprile 1950, Pasqua. Quel giorno, verso le prime ore dell’alba, quasi tutti i coscritti della classe 1930 e una manciata di residenti di Verderio Superiore vennero arrestati e condotti in prigione. Furono portati a Pescarenico, un gruppetto di case, tra le quali il carcere, adagiate sulla riva sinistra del fiume Adda. Gli arresti causarono clamore e tensione nella popolazione, la quale non riuscì a spiegarsi il motivo per cui un “contatto” tra un giovane carabiniere e un iscritto alla leva, accompagnato dalla successiva protesta di alcuni suoi amici, poté scatenare una risposta così forte da parte delle forze dell’ordine. Il panico e la paura presero il sopravvento. Il paese rimase sgomento di fronte a tanto accanimento contro alcuni dei suoi figli.
Il periodo che intercorse tra il 9 aprile 1950 e il 27 maggio 1951 segnò uno spartiacque che cambiò radicalmente le sorti politiche di Verderio Superiore. In quei quattordici mesi, in un piccolo borgo contadino e operaio brianzolo, che contava poco più di mille abitanti, attraversato, a soli cinque anni dalla fine di una terribile guerra, da una situazione economica e sociale carica di difficoltà e incertezze, avvennero alcuni fatti significativi che generarono paura ed introdussero un clima di “caccia alle streghe”.
 
 
   

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In occasione del Fuorisalone 2016, lo Studio Museo Francesco Messina ospita Bertoldo opera di design di Francesco Gnecchi Ruscone.
 

Il passato ispira il presente: il novantenne architetto Francesco Gnecchi Ruscone, rifacendosi a un proprio progetto del 1971 per illuminare le passeggiate notturne a Porto Cervo, crea una lampada da tavolo dalle fattezze antropomorfe che combina la tecnologia del LED con la manualità millenaria della ceramica
Tra il 1971 ed il 1973, Francesco Gnecchi Ruscone, colto architetto Milanese, con la collaborazione degli architetti di Boston Sasaki, Dawson e Demay, intraprende un progetto per l’illuminazione pubblica delle strade, dei giardini, delle piazze della Costa Smeralda. Ne derivano una serie di soluzioni progettuali di lampade, ognuna con la propria peculiarità e finalità.
Una di queste è un oggetto di cemento, a superficie granigliata con lo stesso granito di Porto Cervo, dalla forma cilindrica con un ’ apertura da cui esce la luce per illuminare i giardini di Porto Cervo.
Per il giardino tra il porto e la piazza Francesco Gnecchi Ruscone voleva una fonte che illuminasse il sentiero senza ostacolare la vista del cielo stellato.
Siamo nel 2014 quando l’Architetto riscopre questo progetto e lo reinterpreta in una nuova accezione: il pesante oggetto di cemento per l’illuminazione esterna diventa una colorata lampada da tavolo. Nasce così Bertoldo, una lampada in ceramica dalle linee lisce e dai colori accesi, un oggetto di design che ammicca al proprio alter ego urbano.


(Comunicato stampa dello Studio Francesco Messina)


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QUEI QUATTORDICI MESI CHE CAMBIARONO IL DESTINO DI VERDERIO SUPERIORE di Beniamino Colnaghi - seconda parte

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La Brianza è sempre stata una terra contadina, un polmone verde, un territorio ricco di boschi, cascine e campanili, vissuta da genti laboriose e produttive. In questa plaga lombarda i borghesi e le più affermate famiglie aristocratiche milanesi costruirono le loro sontuose dimore di villeggiatura e svilupparono alcune loro attività industriali.
Già a partire dalla metà del 1500 Verderio Superiore registrò la presenza di una famiglia di antica nobiltà lombarda, gli Ajroldi, la quale possedeva ingenti proprietà terriere e immobiliari. Nei secoli successivi, a seguito di divisioni di proprietà tra gli eredi e cattive gestioni immobiliari, gli Ajroldi lasciarono spazio ad altre famiglie, quali i Confalonieri, gli Arrigoni, i Ruscone e, ultima in ordine temporale, la famiglia Gnecchi(1). Questo casato, a partire da metà Ottocento, divenne proprietario della quasi totalità delle terre e degli immobili di Verderio Superiore, con propaggini a Verderio Inferiore, Paderno d’Adda e in altri comuni. Gli Gnecchi, almeno fino ai primi anni Venti del Novecento, assegnavano le loro proprietà disponibili ai coloni attraverso contratti di mezzadria, che vennero trasformati successivamente nei cosiddetti contratti misti. I coloni erano oltremodo gravati delle spese di coltivazione, da obblighi accessori consistenti in regalie (pollame, alcune parti degli animali d’allevamento e uova da fornire gratuitamente al padrone) e prestazioni manuali che il colono parziario doveva al padrone del fondo. Per molti anni, inoltre, il potente agente e fattore della casa padronale ebbe l’autorità e la facoltà di sfrattare, dalla casa e dai poderi, quei coloni che avessero commesso furti o compiuto azioni contro le proprietà. Ma non solo: sarebbero stati colpiti anche coloro che avessero assunto comportamenti indecorosi e lesivi dei principi morali.    
  





Villa Gnecchi ripresa dal parco e dalla fontana di Nettuno (cliccare sulle foto per ingrandirle)       
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TRE INCONTRI SULLA MONTAGNA ORGANIZZATI DALLA BIBLIOTECA DI VERDERIO

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La biblioteca di Verderio invita a partecipare a tre incontri sul tema della montagna, che si terranno fra aprile e maggio, presso la sala civica di Villa Gallavresi.

***

 Nel primo incontro Alessio Pezzotta, autore ed editore di di diversi libri dedicati alla montagna, in particolare alle Prealpi Orobiche, presenta il libro

MIRACOLO 
DI 
NATALE



L'autore racconta di come sia sopravvissuto per 10 lunghe ore sotto una slavina  e di come sia stato salvato dai suoi soccorritori.


" .. Sono morto ...
sono sepolto sotto una slavina ...
sono matematicamente morto:
questo è stato il mio primo tremendo 
ma lucidissimo pensiero"


L'incontro si terrà giovedì 28 aprile, alle ore 21,00 presso la Biblioteca di Verderio


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Nel secondo incontro verrà presentato dagli autori, Ruggero Meles, Pietro Buzzoni e Giacomo Camuzzini,  il libro 

ALPINISMO PIONIERISTICO
TRA LECCO E LA VALSASSINA




Di seguito verrà proiettato il film documentario di Ruggero Meles


 GRIGNA 2177



L'incontro si terrà giovedì 5 maggio, alle ore 21,00, presso la sala civica di Villa Gallavresi

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Nel terzo incontro verranno proiettati due film documentariodi Sabrina Bonaiti e Marco Ongania.  Il primo si intitola


CON LE SPALLE NEL VUOTO

dedicato all'alpinista Mary Varale (1895/1963).




 Seguirà la proiezione di 

IL CIELO IN ME
VITA IRRIMEDIABILE DI UNA POETESSA
ANTONIA POZZI (1912 - 1938) 
 

sulla vita della poetessa milanese Antonia Pozzi, che amò la montagna e ne trasse ispirazione per la sua poesia.




L'incontro si terrà giovedì 12 maggio, alle ore 21,00, presso la sala civica di Villa Gallavresi



25 APRILE 2016 - CELEBRAZIONE DELLA LOTTA DI LIBERAZIONE OMAGGIO A TUTTI COLORO CHE NELLE VARIE EPOCHE LOTTARONO E MORIRONO PER LA LIBERTA’, LA GIUSTIZIA E LA PACE di Alessandro Origo

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Questo è il discorso che il sindaco di Verderio, Alessandro Origo, ha pronunciato presso il monumento ai caduti di piazza Annoni, il 25 aprile 2016, anniversario della Liberazione. M.B.


Siamo qui oggi a ricordare il 73° anniversario dell’inizio e il 71° anniversario della fine della Lotta di Liberazione per un doveroso omaggio a tutti coloro che lottarono per garantire a noi la libertà, evidenziando che la lotta della Resistenza non fu solo lotta contro il regime nazifascista ma una lotta per la libertà, per la legalità e per la democrazia.
Con la festa della Liberazione si celebra la fine del regime fascista, dell’occupazione nazista in Italia e la fine della Seconda guerra mondiale, simbolicamente indicata al 25 aprile 1945 perché fu il giorno della liberazione da parte dei partigiani delle città di Milano e Torino, anche se la guerra continuò per qualche giorno ancora, fino ai primi giorni di maggio.
A guerra conclusa, un decreto legislativo del governo italiano provvisorio, datato 22 aprile 1946, dichiarò “festa nazionale” il 25 aprile, limitatamente all’anno 1946. Fu allora che, per la prima volta, si decise convenzionalmente di fissare la data della Liberazione al 25 aprile.
La scelta venne fissata in modo definitivo con la Legge 27 maggio 1949 n. 260, presentata da Alcide De Gasperi in Senato nel settembre 1948, che stabilì che il 25 aprile sarebbe stato un giorno festivo, in quanto “anniversario della liberazione”.
E’ una data questa che segna il culmine del risveglio della coscienza nazionale e civile, impegnata nella riscossa contro gli invasori e nel riscatto morale dal baratro in cui era sprofondata negli ultimi anni del regime.
Non fu una guerra civile come qualcuno oggi sostiene, fu piuttosto uno scontro tra i sostenitori della libertà e della giustizia sociale contro i seguaci del regime nazifascista, responsabile di quel disastro.
Se di “guerra civile” si vuole parlare, la si deve intendere come guerra “per la civiltà”, una guerra democratica perché democratico era il suo fine ultimo, l’abbattimento di una dittatura e la nascita di una nuova Italia, fondata sulla partecipazione popolare.



Condivido pienamente quanto detto un anno fa dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che di seguito riporto:
 

“Il 25 aprile celebriamo un sentimento di libertà che è diventato pietra angolare della nostra storia e della nostra identità. Dopo gli anni della dittatura, l'Italia è riuscita a riscattarsi, unendosi alle forze che in Europa si sono battute contro il nazifascismo, anticipazione del percorso che avrebbe portato poi all'avvio del progetto europeo e che noi siamo chiamati ancora a sviluppare.
Perché la democrazia, al pari della libertà, non è mai conquistata una volta per tutte. E' un patrimonio che ci è stato consegnato e che, nel volgere di mutamenti epocali, dobbiamo essere capaci di trasmettere alle generazioni future.
La cultura, l'intelligenza, la coscienza civile sono parti essenziali di una società viva, proprio perché sostengono quello spirito critico che è condizione dello sviluppo, della tolleranza, e dunque della tenuta dello stesso ordinamento democratico.
Tante cose sono cambiate da quegli anni. Eppure misurarsi con i valori di libertà, di pace, di solidarietà, di giustizia, che animarono la rivolta morale del nostro popolo contro gli orrori della guerra, contro le violenze disumane del nazifascismo, contro l'oppressione di un sistema autoritario, non è esercizio da affidare saltuariamente alla memoria. Stiamo parlando del fondamento etico della nostra nazione, che deve restare un riferimento costante sia dell'azione dei pubblici poteri sia del necessario confronto nella società per affrontare al meglio le novità che la storia ci pone davanti. Non c'è nulla di retorico nel cercare una sintonia con la felicità e i sentimenti dei nostri padri, o dei nostri nonni, nei giorni in cui conquistavano una libertà costata sangue, sacrifici, paure, eroismi, lutti, laceranti conflitti personali. E' la festa della libertà di tutti.
Una festa di speranza ancor più per i giovani: battersi per un mondo migliore è possibile e giusto, non è vero che siamo imprigionati in un presente irriformabile.
La democrazia è proprio questo: l'opportunità di essere protagonisti, insieme agli altri, del nostro domani.
Per costruire solidamente, le radici devono essere ben piantate in quei principi di rispetto verso le libertà altrui, di rifiuto della sopraffazione e della violenza, di uguaglianza tra le persone, che proprio le donne e gli uomini della Resistenza e della Liberazione indussero a iscrivere nella Costituzione repubblicana.

Ricordando quei giorni, è giusto avere pietà per i morti, rispetto dovuto a quanti hanno combattuto in coerenza con i propri convincimenti: sono sentimenti che, proprio perché nobili, non devono portare a confondere le cause, né a cristallizzare le divisioni di allora tra gli italiani.
Fare memoria in un popolo vuol dire anche crescere insieme. E la nostra storia democratica ci ha aiutato a crescere. Oggi possiamo riconoscere che nella lotta partigiana vi furono, accanto ai tanti eroismi personali e ai tanti straordinari atti di generosità, anche alcuni gravi episodi di violenza e colpevoli reticenze. Questo non muta affatto il giudizio storico sulle forze che consentirono al Paese di riconquistare la sua indipendenza e la sua dignità.
L'antifascismo fu e resta elemento costituivo dell'alleanza popolare per la libertà e quindi dell'Italia repubblicana. L'antifascismo non è stato solo l'esito politico di un conflitto interno, quanto la chiave di apertura della nuova Italia, uscita dalla guerra e dalla dittatura, alla dimensione europea e mondiale”





CONSIDERAZIONI SUL DOPO 25 APRILE 1945
 

Dalla fine della guerra di Liberazione ebbe anche inizio la lunga corsa verso la crescita e lo sviluppo, non solo dell’Italia, ma di tutte le nazioni uscite dagli orrori del secondo conflitto mondiale.
C’era da ricostruire tutto, c’era da consolidare un nuovo ordine politico planetario, c’erano da definire nuove regole per gli scambi tra le nazioni, per lo sfruttamento e la distribuzione delle risorse, per la costruzione di un mondo finalmente orientato a conseguire una pace stabile e duratura.
E questa corsa è stata davvero tumultuosa, densa di avvenimenti, che hanno portato l’intero pianeta molto più avanti, in tutti i sensi.
Oggi il mondo è più ricco di allora: la scienza, la tecnologia e tutto lo scibile umano hanno fatto passi da gigante, realizzando negli ultimi settant’anni più di quanto l’umanità sia stata in grado di fare in tutta la sua storia precedente, disegnando un’iperbole spettacolare di cui tutti noi siamo stati fortunati testimoni. Un progresso senza precedenti, che ha migliorato le nostre vite come mai prima, aumentando le risorse a disposizione in ogni settore.
Per decenni abbiamo vissuto in un mondo che continuava a crescere in un modo che sembrava inevitabile, come fosse una legge di natura, almeno per noi che di questa crescita abbiamo, anche se in misura diversa, beneficiato.
Però, se proviamo a guardare a questo periodo da una prospettiva diversa, vediamo che non tutto è così limpido e positivo. Vediamo che, mentre l’occidente è cresciuto, ampie zone del pianeta sono rimaste indietro, sia socialmente che economicamente. Vediamo che in molte aree la guerra non è mai finita, che le
popolazioni non hanno mai conosciuto momenti di tranquillità e continuano ancora oggi a vivere nel terrore e nella disperazione. Vediamo che le risorse del pianeta non sono state utilizzate nel modo più saggio e non sono state distribuite equamente. Vediamo che una piccola minoranza della popolazione, di cui noi facciamo parte, consuma la maggior parte delle risorse, mentre la stragrande maggioranza continua a vivere con poco o niente.
Inoltre, proprio in questi ultimi tempi, come stiamo imparando anche sulla nostra pelle, la crisi che da ormai otto anni imperversa in tutto il mondo industrializzato ci appare sempre di più come un fatto del tutto nuovo, che non si era mai verificato prima e che quindi nessuno è in grado di interpretare e di affrontare correttamente.
La situazione in cui ci troviamo non è una semplice crisi economica. Quello che è accaduto con il tracollo finanziario del 2008 e tutto ciò che ne è seguito è una vera e propria crisi dell’intero sistema.
E’ entrato in crisi il modello economico e finanziario su cui è stato costruito il mondo che conosciamo; il modello su cui è basato il capitalismo moderno non è più in grado di consentire che una piccola parte di mondo, la nostra, continui a consumare più di quello che produce, mentre il resto del pianeta vive nella povertà.
Oggi noi avvertiamo sempre più forte su di noi il morso di questa crisi, con il lavoro che è sempre di meno mentre aumentano le persone che il lavoro lo hanno perso e non riescono più a ritrovarlo, fino a perdere la stima in sé stessi nel momento in cui non riescono più a provvedere alle esigenze della loro famiglia.
E’ un momento molto difficile, e lo stiamo vivendo senza avere davanti una prospettiva di riscatto, un sogno da coltivare, una speranza in cui credere.
Il governo e la politica tutta sono talmente concentrati sui problemi quotidiani da non riuscire neppure a trasmettere un’immagine di prospettiva, una luce da guardare in lontananza, e questo è forse più difficile da sopportare, oltre ogni difficoltà materiale.

Quel giorno di tanti anni fa, quando la nazione proclamò la Liberazione dall’incubo nazifascista, i nostri padri stavano molto peggio di come stiamo noi oggi. Ma loro avevano in testa la visione di un mondo nuovo, di un mondo più giusto, dove ciascuno potesse esercitare il proprio diritto ad avere una vita serena, a crescere i propri figli e a migliorare con il lavoro la propria condizione sociale.
I nostri padri hanno vissuto sostenuti da questa visione e hanno lavorato per realizzarla. Oggi quella spinta ideale si è perduta, e tocca a noi di trovarne una nuova.
Questo è il compito di chi oggi ha responsabilità di governo: che non è solo quello di riparare i guasti della crisi e riportare in carreggiata l’economia ma, soprattutto, di dare una nuova prospettiva al futuro della nazione, costruire insieme agli altri paesi un nuovo modello di sviluppo equo e solidale, un modello economico che vada oltre la sterilità dei numeri per affermare la centralità dell’uomo.

Un modello a cui tutti possiamo guardare come all’obiettivo comune da raggiungere.
La nostra luce in fondo al tunnel deve essere riconoscibile e condivisa: un mondo dove tutti possono contribuire alla crescita, dove ciascuno può avere secondo i propri meriti, ma anche proporzionalmente ai propri bisogni, e dove tutti contribuiscono alle esigenze della comunità in ragione delle proprie possibilità.
Un mondo che sa utilizzare le risorse disponibili senza sprecarle e che le sa distribuire equamente e con parsimonia.
Un mondo in cui ogni comunità di persone come la nostra, costruisce il proprio futuro traendo insegnamento dal passato, rispettando e salvaguardando l’ambiente in cui vive, valorizzando le cose che ha e costruendo su di esse un futuro sostenibile.
Forse questi sono solo sogni visionari in un mattino di primavera, ma noi oggi non saremmo qui se quel giorno di 71 anni fa i nostri padri non avessero avuto in testa il sogno di un mondo nuovo.
E allora dobbiamo rimboccarci le maniche e affrontare le difficoltà a viso aperto, ma soprattutto costruiamo insieme il sogno per il futuro nostro e delle generazioni che verranno.




 

RIFLESSIONI SU VALORI, SACRIFICIO, LEGAME TRA POLITICA E MORALITA', TRA STATO E INTERESSE DEL POPOLO
 

Per rinnovare il legame, anzi, la simbiosi tra italianità, nazione e unità, dobbiamo allora tornare a promuovere i valori e sostenere le aspirazioni che animarono gli uomini che 71 anni fa contribuirono a rifondare lo spirito democratico del Paese, recuperando il significato morale del fare politica, ripartendo da un nuovo inizio, sulla strada che porta a costruire quello Stato di cittadini liberi ed uguali, desiderato, immaginato ed infine realizzato dai tanti che si impegnarono e si sacrificarono per la Patria.
A loro va dunque oggi il nostro pensiero, carico di ammirazione e riconoscenza.
Possiamo dire che ciò che contraddistingue il sacrificio è la sua gratuità. E’ trascurare le conseguenze personali delle proprie scelte, se queste scelte sono ispirate a valori che si ritengono superiori perché appartengono a tutti ed a tutti devono essere garantiti come diritti.
Basterebbe considerare la grandezza e la nobiltà di questo sacrificio per comprendere il significato fondamentale della Liberazione e affrancare la sua celebrazione dal rischio di ridursi a una circostanza scontata, inespressiva, per alcuni (purtroppo non pochi) persino fastidiosa ed imbarazzante.
Cosa dire, allora, quali parole usare per far comprendere alle persone della mia generazione e di quelle successive perché è importante celebrare il 25 Aprile, perché questa data è viva nel presente e ricordarla non è solo un obbligo da assolvere.
Nella storia dell’umanità, il sacrificio ha uno straordinario valore di rinnovamento ed ogni volta che si compie ha il significato di una rivoluzione morale, perché all’apparenza è contro ogni ragione.
Cesare Beccaria scriveva nella sua celebre opera “Dei delitti e delle pene”.
“Nessun uomo ha fatto il dono gratuito della propria libertà in vista del bene pubblico. Questa chimera non esiste che nei romanzi”.
Invece no! La Resistenza e la guerra di Liberazione sono stati la dimostrazione che uomini e donne possono superare il pessimismo ed il cinismo della ragione che si fa rassegnazione, se si sentono chiamati a battersi per il bene sociale, se partecipano con passione, se credono in una giustizia che regola la convivenza, garantendo dignità della persona, uguaglianza e rispetto della libertà.
La Resistenza non è stata un romanzo. E' stata una straordinaria vicenda di vite dedicate con speranza, coraggio ed altruismo all’affermazione di ideali altissimi ed è per questo che non dovrebbe essere difficile raccontarla a chi non vi ha partecipato e fare sentire i giovani parte di quella vicenda, senza avere timore di ripetere parole che non possono diventare vuote e retoriche se trovano corrispondenza nei nostri comportamenti di ogni giorno.

Il metro con cui si misura il valore e l’importanza di un sacrificio è l’utilità che ne deriva al bene comune, una categoria continuamente evocata ma troppo spesso disattesa, anche nella politica.
Allora, c’è bisogno di ritornare a vivere la politica come il momento in cui si diventa responsabili delle proprie scelte, non solo nei confronti di se stessi, ma soprattutto nei confronti degli altri.
C’è bisogno di nuove e continue dimostrazioni che ciò che nell’impegno nei partiti e nelle istituzioni viene dato alla politica non viene sottratto alla morale, che amministrare la cosa pubblica con senso pratico non significa farlo senza principi, che non si può chiedere il rispetto delle regole ai cittadini senza prima riconoscere la libera dignità delle persone, come sosteneva un personaggio centrale della democrazia repubblicana, Giuseppe Dossetti.
E’ questo il grande lascito nato dalla Resistenza, sfociato nella Liberazione e giunto sino a noi con i principi della Costituzione, a partire da quello dell’uguaglianza tra i cittadini e della ricongiunzione tra cittadino e persona.
Riconoscere questi principi è la condizione per affermare la preminenza assoluta dei diritti inalienabili dell’uomo e allo stesso tempo costruire una società in cui tutti sono partecipi di una speranza collettiva; speranza di cui, oggi più che mai, per i giovani, per i lavoratori, per chi è in difficoltà, sentiamo fortissimo il bisogno.
Oggi come allora la politica è chiamata ad interpretare le grandi questioni e ad affrontare i problemi che in ogni epoca si presentano ad ogni società, ancor più nella dimensione globalizzata della difficile attualità che viviamo: come ricercare e realizzare la giustizia sociale; come associare etica, responsabilità e aspirazioni; come mettere in relazione e far dialogare le diverse identità e culture.
Sino a giungere a quel traguardo, intravisto con coraggio ed inseguito con doloroso sacrificio da tutti quelli che hanno messo in gioco le loro vite per rendere libere le vite di tutti noi: ricomporre il legame indispensabile, drammaticamente negato nell'esperienza della dittatura fascista, tra la politica e la moralità, tra lo Stato e l’interesse del popolo.





CONCLUSIONE
 

Come ho già detto altre volte:
- dobbiamo evitare che questa celebrazione sia vissuta solo come rito ma viverla come momento per farci carico di quei principi e valori fondamentali, per riaffermarli, riproporli seppur in un contesto storico, sociale, morale ed economico diverso.
- dobbiamo custodire la memoria per coltivare il futuro, cioè i Cittadini italiani e tutti coloro che pacificamente vivono e lavorano nel nostro Paese devono riflettere e prestare attenzione alla propria storia ed alla propria identità per ritrovare lo slancio con il quale costruire il presente guardando al futuro.
Le nostre azioni non segnino solo il nostro tempo, ma costruiscano anche il futuro, consapevoli che la speranza per un futuro migliore di pace e di solidarietà va continuamente tenuta viva.
Auguro un buon 25 aprile a tutti con l’impegno a coltivare e rafforzare questa speranza.





 

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UN PICCOLO MUSEO DELL'INDUSTRIA TESSILE IN UN APPARTAMENTO DI VERDERIO a cura di Marco Bartesaghi

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Da sempre impegnato, come tecnico, nell’industria tessile, F.R., un abitante di Verderio che preferisce restare anonimo, ha raccolto negli anni una collezione di strumenti, piccole macchine e documenti del settore, e ha allestito un piccolo personale museo in un locale della sua casa.


Qui vi presenta, descrivendoli brevemente, i pezzi che più gli sembrano interessanti.

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SPRAY TEST: strumento per misurare la “repellenza” di un tessuto, cioè il suo grado di resistenza alle macchie prodotte dai liquidi.
 
Spray test


ASPO e BILANCIA: coppia di strumenti utilizzata per ricavare il “titolo” di un filato, il numero che indica il rapporto fra una data lunghezza del filo, misurata con l’ASPO, e il suo peso, misurato con la BILANCIA.

Aspo

Bilancia

SPESSIMETRO: strumento per la rilevazione dello spessore di un tessuto.

Spessimetro

TAGLIACAMPIONI: attrezzo per il taglio di campioni di stoffa di un decimetro quadrato di superficie.
Tagliacampioni

BILANCIA: strumento di misura in grado di apprezzare il centesimo di grammo.

Bilancia
MICROSCOPIO PORTATILE : utilizzato per ingrandire fino a 100 volte il tessuto per identificare gli eventuali difetti o problemi.

Microscopio portatile

MISURATORE DI PH (PIACCAMETRO) : misuratore del grado di acidità/basicità e temperatura delle soluzioni utilizzate nelle varie fasi di lavorazione.

Piaccametro
LAMPADA DI WOOD: lampada che emette quasi esclusivamente radiazione della gamma degli ultravioletti. In campo tessile viene utilizzata per rilevare la presenza di poliestere o sbiancanti ottici nei tessuti.

 
Lampada di Wood


LENTI CONTAFILI : per contare i fili di ordito e di trama o rilevare l’intreccio degli stessi ossia determinare l’armatura
 

Lenti contafili

QUADRO DI STAMPA: per serigrafare la stoffa.

Quadro di stampa
CLICCA SU "CONTINUA A LEGGERE L'ARTICOLO" PER  VEDERE L'INTERA RASSEGNA.

 
MACCHINA DA CUCIRE: portatile manuale meccanica per punto a catenella (l'oggetto grigio nella fotografia).







ANNODATRICE: macchina per annodare i fili (l'oggetto gisllo nella fotografia).



 
Macchina da cucire e annodatrice


REGOLI: permettono di trasformare il “titolo” di un filo in un altro.

 
Regoli

COMPASSO


Compasso
PETTINI PER TELAI : utilizzato per tenere allineati e a distanza controllata e costante i fili e accostare la trama inserita nella bocca d’ordito al tessuto precedentemente prodotto.

 
Pettine per telaio


DIMA PER CALCOLO RESTRINGIMENTO: strumento che permette di misurare il restringimento i un tessuto dopo il trattamento di lavaggio (std entro 3%)

 
Dima


 DINAMOMETRO: strumento per misurare  la resistenza e l’elasticità dei filati


Bilancia
MARTINDALE : strumento per misurare la resistenza all’abrasione di un tessuto , formazione del pilling .
 

 
Martindale
NAVETTE: servivano nei telai meccanici a inserire la trama nella bocca di ordito.

Navette
 PINZE: nei telai moderni sostituiscono le navette

Pinze

BILANCIA: in grado di rilevare il decimillesimo di grammo

Bilancia

TERMOMETRI, DENSIMETRI E AEROMETRI: per misurare ripettivamente temperature, densità dei liquidi e quantità d’aria inglobata in una soluzione.

Termometro, densimetro e aerometro

STAMPI IN LEGNO E GOMMA: per stampare, a mano, disegni sui tessuti.

Stampi


ARCOLAIO O FUSO: per filare cioè produrre il filo partendo dal fiocco

Arcolaio o fuso

MARCHI PER STOFFE: marchi per stoffe peplos della ditta Olonia, in provicia di Varese, che ha cessato l’attività nel 1958


Marchi per stoffe



REGISTRO COSTI DEI TESSUTI: ditta Cantoni, anni settanta del novecento.

Registro costi


REGISTRO MARCHI: ditta Cantoni. I marchi raccolti nel registro venivano apposti sulle pezze di stoffa per distinguere i vari tipi.



Registro marchi

REGISTRO ETICHETTE: ditta Cantoni di Castellanza.


 
Registro etichette


Questi due ultimi elementi della raccolta di F.R., il registro dei marchi e quello delle etichette, sono così belli e interessanti che meritano, in furturo, una presentazione a parte.


GLI ORECCHINI DI CARTA DI SARA

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Sara realizza orecchini con carta di giornale: rovistando fra le pagine dei quotidiani, seleziona le immagini, le ritaglia in varie forme e le incolla, come ultimo strato, su un supporto dello stesso materiale.

































 



 

LO SCIALLE NUZIALE DI MIA NONNA, TERESA LUDOVICA ARLATI di Giorgio Oggioni

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Nella mia casa conservo uno scialle che ha ben più di cento anni. 
Apparteneva a mia nonna, Teresa Ludovica Arlati che lo aveva indossato il giorno del suo matrimonio con il nonno, Luigi Costantino Airoldi.

 
Nelle due fotografie lo scalle nuziale di Maria Teresa Arlati





Le loro nozze erano avvenute il 23 gennaio 1907.
Maria Teresa era nata in "Curt di Tulet" nel 1877 ed è morta nel 1977.
Dopo le nozze si era trasferita nella corte del nonno, la "curt di Scarsit"(1).

Eccoli, ormai anziani, in alcune fotografie:

 















































NOTA
(1) Sulla "curt di Scarsit" vedi in questo blog l'articolo al seguente indirizzo:
  http://bartesaghiverderiostoria.blogspot.it/2009/08/curt-di-scarsit-di-giorgio-oggioni-e.html



LA SARTORIA PER DONNA DI MARIA TERESA GALBIATI di Giorgio Oggioni e Marco Bartesaghi

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Da quando era diciassettenne, fino a pochi anni prima della morte,  avvenuta il  18 Luglio 2009, Maria Teresa Galbiati ha confezionato abiti da donna, in una propria sartoria, la “Sartoria Maria Teresa”, situata in via Roma a Verderio Inferiore.






Nata il 12 dicembre 1937, era figlia di Angelo Galbiati,  falegname, e di Adele Biffi, ricamatrice; aveva due fratelli Giancarlo, (1933 – 1988), perito meccanico presso la filanda Abbeg di Garlate, e Armando (1947), ragioniere, impiegato di  banca ora in pensione, che, con la moglie Maria Luisa Robbiati e la figlia Valeria, ci ha raccontato le cose di cui vi stiamo parlando.




Per apprendere il mestiere di sarta, Maria Teresa aveva frequentato, per cinque anni, un corso di taglio e cucito a Milano.
All’inizio del suo lavoro, non ancora terminata la scuola, aveva come laboratorio il soggiorno della casa dove abitava con i genitori e dove, in un capannone in fondo al giardino, in seguito abbattuto, il padre aveva la falegnameria.

 
La casa della famiglia Galbiati a Verderio, in via Roma. A destra della fotografia la parte costruita negli anni sessanta da Maria Teresa e dal marito.  




La casa, già di proprietà della famiglia Gallavresi, era stata acquistata negli anni venti dalla nonna materna di Maria Teresa, Tranquilla Villa, insieme ad un ampio appezzamento di terreno sul lato opposto della via Roma, confinante con la via che reca alla chiesa parrocchiale, oggi via Papa Giovanni XXIII,  e la “curt di stalét”. Un investimento impegnativo, che la nonna si era potuta permettere grazie al  lavoro di direttrice dello stabilimento Abbeg di Garlate, paese dove abitava, nella casa ora sede del municipio.


 








 Dopo il matrimonio con Costantino Mandelli, avvenuto nei primi anni sessanta, Maria Teresa si era trasferita  ad Arcore. Verso il 1968 era tornata ad abitare a Verderio, dove non aveva mai smesso di venire a  lavorare, nella nuova casa edificata in sostituzione di una parte di quella antica. Era tornata  insieme al marito, ma da lui, dopo poco,  si era separata.

A soli quarant’anni maria Teresa contrae una grave malattia, una forma di artrite reumatoide deformante, che la costringe a sottoporsi a numerosi interventi e, negli ultimi anni, all’uso della carrozzella. La malattia compromette, via via, anche l’uso del suo strumento  di lavoro più importante, le mani, e, a 65 anni, la costringe ad interrompere l’attività.
Maria Teresa Galbiati, muore il 18 Luglio 2009.


 ***

Sarta da donna, Maria Teresa cuce, per le sue clienti, vestiti di ogni tipo: cappotti, tailleur, camice, soprabiti, abiti da sposa ecc…

 




 
Alcuni capi d'abbigliamento confezionati da Maria Teresa Galbiati, conservati dalla sua famiglia










































La sua non è una sartoria a buon mercato poiché confeziona abiti di buona qualità, sia per i tessuti che usa, sia  per l’attenzione che rivolge alle finiture, molte delle quali vengono realizzate a mano.



Ha una clientela affezionata, che proviene da un buon numero di paesi che gravitano intorno a Verderio.





Con le persone che abitualmente le si rivolgono, instaura un rapporto di conoscenza e di fiducia , che le consente di essere consigliera ascoltata, per i modelli e i colori che meglio si adattano alla loro figura.





Per tenersi aggiornata sull’andamento della moda, si affida ad alcune riviste specializzate, legate ad aziende produttrici di tessuti dalle quali si serve.

Le riviste utilizzate da Maria Teresa per il suo lavoro. Nella foto sotto la nipote Valeria.



 


Il primo aiuto lo trovava in famiglia, come capita sempre quando si lavora in casa. La mamma Adele, provetta ricamatrice, si occupava delle finiture degli abiti. Anche il fratello più giovane, Armando, da ragazzo aveva i suoi compiti da svolgere: le “marche” o imbastiture e la consegna a domicilio degli abiti.

Il fratello Armando con una camicia confezionata dalla sorella.
Oltre ai famigliari, diverse ragazze, soprattutto di Verderio, si sono avvicendate nel suo laboratorio per imparare il lavoro ed aiutare. Fra loro si ricordano i nomi di  Annalisa, Maria Sandra, Renza, Natalina. Di altre al momento non conosciamo il nome.





 
Nelle due fotografie Maria Teresa con alcune amiche, forse collaboratrici

































Per alcuni mesi, per  apprendere il mestiere, aveva frequentato la sartoria di Maria Teresa anche Cressece, una ragazza proveniente da un paese africano, il Burundi, dove un gruppo di abitanti di Verderio Inferiore si era recato più volte, negli anni settanta del novecento, a fare volontariato. A uno di questi viaggi aveva partecipato anche Maria Teresa.
Cressece si è poi trasferita nel cuneense dove, sposandosi con un italiano, ha formato una famiglia  e dove ora, insieme ai figli, è imprenditrice agricola.



 








Una parte consistente del lavoro di Maria Teresa era rivolto alla confezione di abiti da sposa. Nelle immagini seguenti potete vederne alcuni esempi.



 

Maria Teresa con la cognata Maria Luisa Robbiati











































Giorgio Oggioni, Marco Bartesaghi

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VIRTÙ D'AMORE - cronaca della rappresentazione dell'opera, avvenuta a Verderio superiore il 7 ottobre 1896

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Quella che segue è la trascrizione della cronaca della prima  rappresentazione di Virtù d'Amore, opera di Vittorio Gnecchi Ruscone, compositore delle musiche, e di Maria Rossi Bozzotti, autrice del libretto. La cornaca fu redatta da un parente di Vittorio Gnecchi, probabilmente il fratello di Vittorio, Cesare. Il testo è conservato presso l'ArchivioParrocchiale di Verderio (ex Superiore) M.B.


  


VIRTÙ D'AMORE

L’autunno 1896 a Verderio rimarrà caratterizzato dalla rappresentazione della Virtù d’Amore. La solennità che la rappresentazione assunse e il numero grande di persone che vi convennero, diedero alla festa privata l’aspetto quasi di avvenimento pubblico, perciò per tutto quanto riguarda la cronaca della serata possiamo ricorrere anche per il giornale di famiglia alle migliori pubblicazioni date da alcuni giornali essendo anche più corretto che il giudizio venga dato fuori dalla famiglia; e così riporteremo quanto scrissero in proposito Giulio Ricordi nella “Gazzetta Musicale”, Giannino Antona Traversi nella “Vita Italiana”, Sofia Bisi Albini nella “Rivista della Signorina” e G.B. Nappi nella “Perseveranza”.

Rimane la parte cronaca intorno all’operetta. La sua azione, la sua storia, che noi qui ricorderemo accennando alla parte intima e anedottica che altrimenti andrebbe perduta, Sarà questo un semplice ricordo di famiglia, conservato e se mai le prime promesse dovessero essere seguite da un brillante avvenire, queste note potranno fornire i dati per il primo capitolo della vita artistica di Vittorio Gnecchi.

Nell’autunno del 1895 era stato allestito il teatrino nel salone superiore della villa di Verderio e i ragazzi vi avevano recitato qualche commediola. Ora la zia Maria Rossi Bozzotti, che aveva passato una parte dell’autunno a Verderio, animata da quella sua ardente febbre di organizzare cose belle e nuove e artistiche e secondata dalla sua fantasia inesauribile, s’era fissata in mente di combinare per il prossimo anno, qualche originale spettacolo, nel quale ciascuno dei ragazzi potesse spiegare le sue non comuni doti artistiche. Un giorno del seguente inverno discorrendo intorno ai progetti per l’autunno, essa propose al nipote Vittorio di allestire un libretto di operetta , se egli si fosse impegnato a musicarlo, con la magra scorta dei suoi iniziati studi di contrappunto. Poiché egli aveva allora 19 anni e frequentando la terza classe liceale, non aveva ancora dedicato alla musica che esigua parte del suo tempo, e occupava le ore che poteva rubare agli studi classici più alla tecnica del pianoforte che allo studio della composizione.


 
Vittorio Gnecchi Ruscone



L’idea di sua zia gli sorrise : l’accettò con entusiasmo: due giorni dopo zia Maria gli accenna la tela che lo seduce; in una notte è composta la prima scena e così, di fatto, è composto il libretto. Ma ancor prima che esso fosse terminato, le prime arie sono composte: alla primavera il lavoro è compiuto; solo l’ultima scena è terminata durante la stagione balneare a Santa Caterina; cosicché tutto fu pronto e copiato per l’esecuzione quando la nostra famiglia si riunì a Verderio per la vacanza autunnale, invitandovi pure la famiglia Rossi, la quale però per agevolare il ménage prese in affitto la villa Cassina a Paderno d’Adda e vi portò domestici, cavalli, ecc.

L’esecuzione di un’operetta di campagna è cosa tutt’altro che semplice; specialmente volendo ottenere un’esecuzione di prim’ordine, bisognava incominciare presto a pensare alle molteplici esigenze di un teatro. Il locale prima di tutto, poi gli scenari, l’illuminazione, i figurini, il vestiario, l’istruzione delle diverse parti e dei cori, l’orchestra, la stampa del libretto, dei programmi, degli inviti e gli infiniti accessori e dettagli di ogni genere.
 

A tutto il personale occorrente e al personale accessorio, ai parenti che accompagnavano i figli, a parte degli invitati, ai suonatori bisognava preparare l’alloggio. Per la sera della rappresentazione poi occorreva provvedere a riparare buon numero di carrozze e cavalli anche pel caso di pioggia.

Le preoccupazioni dunque erano molte e il tempo stringeva.
S’era alla fine di agosto e la rappresentazione si contava darla in fine di settembre. In un mese bisognava far tutto. – Zia Maria assunse la direzione artistica generale; Vittorio la parte istrumentale, mentre la parte vocale venne affidata alla signora Giulia Oddone Gavirati, la quale tosto si pose al paziente e difficile lavoro di istruire gli artisti-bambini (alcuni erano ignari di qualunque principio musicale) e vi si pose con quell’energia, quella competenza e quell’attività che tutti le riconoscono.



Maria Rossi Bozzotti


Per aiutarla i Rossi avevano condotto da Schio la signora Tolfo, ottima maestra di canto, la quale assunse e disimpegnò benissimo una parte, diciamo così, di “sostituta”. Il prof. Marazzani, che si diceva vecchio topo di palcoscenico, prese la parte del suggeritore. Vittorio Turati venne incaricato della stampa e dell’illustrazione del libretto, la cui edizione di estrema eleganza riuscì un vero gioiello. Il pittore Hohenstein, in quel tempo in gran voga perché incaricato di riformare il gusto artistico della messa in scena alla Scala, fece i bozzetti per le scene e i figurini per i costumi. Questi ultimi furono dapprima eseguiti con un’intonazione preraffaellita di gusto squisito.
 

Ma la semplice arcadica come avrebbe potuto essere intesa da un pittore primitivo esigeva delle figure sottili, slanciate, botticelliane. Sebbene tutte belle le nostre attrici, non rispondevano a quell’ideale, che era tanto facile disegnare su dei figurini. Era dunque meglio rinunciare a un’idea artisticamente deliziosa, se non fosse stato possibile seguirla alla perfezione. Perciò dopo lunghe discussioni, Hohenstein fu incaricato di rifare i 25 figurini, questa volta in stile settecentesco: così si sarebbero adattati meglio alle grazie delle nostre gentili artiste, non solo, ma anche alla musica, che l’autore aveva composto ispirandosi al carattere delle rappresentazioni pastorali che alla fine del ‘600 e nel secolo successivo si davano nelle corti italiane e francesi.

La sartoria Zampironi fu incaricata dell’esecuzione dei figurini con le migliori stoffe, le cui tinte furono scelte sapientemente da Hohenstein e dalle Signore, così da formare dei quadri di intonazione artisticamente indovinatissima. Il costume di Lyda fu fatto dalla sarta Mosca.

Lanfranconi provvide tutti i pastori di lunghe anella bionde e brune. Rancati fornì gli accessori e coprì di diamanti la Virtù d’Amore. Rovescalli fu incaricato dell’esecuzione delle scene…; ma quando si venne a concretare per queste, la faccenda era tanto cresciuta sotto mano che il teatrino del salone superiore veniva dichiarato insufficiente e si decise di fare un nuovo teatro a piano terreno nel locale detto del torchio, assai più ampio e capace, che fino allora aveva servito per giocarvi a tennis nei giorni piovosi. Bisognava costruire il palcoscenico, le scene, decorare il locale, pensare all’illuminazione, ai sedili, a tutto; ma con un po’ di buona volontà si arrivò ad ottenere che fosse curato ogni particolare, persino si provvide ad un’illuminazione elettrica provvisoria a mezzo di una locomobile facente funzionare una vecchia dinamo appartenente alla Società Edison, la quale gentilmente la prestò prima di collocarla nel museo e mandò anzi appositamente l’ingegner Clerici e l’ingegner Ettore Conti a fare l’installazione e a sorvegliare il funzionamento. Il fattore Cav. Carlo Lissoni venne incaricato di preparare gli stallazzi e nei diversi cortili e nell’arsenale vennero apprestate provvisoriamente scuderie per oltre un centinaio di cavalli e rimesse per una sessantina di carrozze. Difatti ne arrivarono effettivamente più di sessanta con 120 cavalli.

L’affare più serio erano gli alloggi per le persone, avendo dovuto ospitare per la sera della rappresentazione oltre gli artisti e i loro parenti, molti parenti nostri e amici che non avevano ville nelle vicinanze, né erano stati invitati da villeggianti della nostra Brianza. Alcuni, come il conte Venosta e la signora Dina Volpi aprirono, per l’occasione, delle ville che da anni non erano abitate.

La nostra casa era ricolma: la mamma-grande aveva gentilmente offerto tutte le sue stanze disponibili, come pure zio Ercole nella sua villa di Paderno. Allo stesso scopo servì la casa Cassina di Paderno dove furono alloggiati un certo numero di giovinotti. Anche a questa bisogna era dunque provveduto. Per i professori d’orchestra (che si fermarono una settimana perché le prime prove si fecero a Milano) coristi, scenografi, ecc. furono preparati aloggi in case di contadini, dove mediante imbiancatura e acquisti di mobili più necessari alla pulizia, si prepararono delle stanzette convenienti. La loro [table-d’hotes] era all’osteria Motta.

Il lavoro di preparazione andava fervendo sempre più di giorno in giorno: le lettere, i telegrammi non si contavano più: messi speciali erano inviati di ora in ora a Milano; incaricati diversi arrivavano ogni giorno: sarti, calzolai, parrucchieri, tappezzieri, artisti, illuminatori, elettricisti, pittori, stampatori ecc. ecc. un pandemonio e frattanto proseguivano attivamente le prove, al piano prima, poi colla piccola orchestra di 14 professori. Fra questi tutti eccellenti sebbene giovanissimi, è notevole ricordare che, sotto la direzione dell’autore, suonavano il M. Tullio Serafin (allora diciottenne) al pianoforte, il M. Russolo all’harmonium, il M. Tannini (ora direttore d’orchestra) 1° violino; Vescovi 2° violino; il Prof. ….. viola (che fu poi prima viola della Scala); il Prof. Galeazzi (che fu poi primo cello alla Scala) cello; Francesco Sessa uno dei contrabbassi, ecc.

Il tenore Cannonieri fu scritturato per cantare nei cori, unico professionista sul palcoscenico.


Ed ecco il programma indicante la distribuzione delle parti:Personaggi
Virtù d’Amore (figura simbolica), S.na Elisabetta Oddone
Lida, pastorella, S.na Sandra Rossi
Dafne, pastorella, S.na Pia Gnecchi
Flora, pastorella, S.na Giuseppina Regalia
Clori, pastorella, S.na Maria Ballerini
Amarilli, pastorella, S.na Valentina Bozzotti
Iª pastorella, Donna Costanza Bagatti Valsecchi
IIªpastorella, Miss Jessie Mason
IIIª pastorella, S.na Anna Maria Bozzotti
Agasto, vecchio pastore cieco, padre di Lida, Sig. Alessandro Rossi
Aminta, pastore, Conte Giuseppe Visconti di Modrone
Elpino, pastore, Cesare Gnecchi
Mirillo, pastore, Carlo Baulini
Tirsi, pastore, S.na Carla Gnecchi
Ciro, pastore, Cesare Rossi
Melibeo, pastore, Francesco Rossi
I° pastore, Giuseppino Baslino
II° pastore, Don Alessandro Casati
III° pastore, Don Pier Fausto Bagatti
Valsecchi
Cori di pastori e pastorelle.

 


Dallo spartito  per pianoforte e canto, edita a Berlino, probabilmente nel 1943, dalla casa editrice Capitol Verlag, è reperibile presso la biblioteca della Fondazione Ugo e Olga Levi di Venezia, collocazione LEVI C.1144.
Fra gli ospiti della nostra casa, oltre alle famiglie Rossi e Bozzotti, la duchessa Ida Visconti con Giuseppe e Guido, Remigia Ponti Spilateri, Maria Ballerini, S.na Gilda Tolfo, la sig.ra Oddone, Prof. Marazzani, Paolo Maesani, Fausto Bagatti Valsecchi, Emilio Silvestri, Gino Durini, Manfredi Olivia.

Una questione lungamente discussa fu quella dell’accesso al teatro, del passaggio cioè dalle sale dove il pubblico sarebbe stato prima radunato, al locale della rappresentazione lontanissimo e parecchi metri più basso. Il passaggio esterno era da escludere per il timore di un tempo cattivo o semplicemente per la temperatura che poteva essere fredda; il passaggio interno si poteva pure fare in più modi, ma erano tutti passaggi per così dire semirustici che occorreva convenientemente decorare per l’occasione. Vittorio ebbe l’idea di aprire una porta nel muro fra il torchio e l’ingresso esterno alla cappella, porta che avrebbe permesso di scendere dalla lunga scalinata che da appunto accesso alla chiesa per chi vi giunge dalla strada. Si adottò definitivamente questo progetto, decidendo di fabbricare un corridoio tutto tappezzato di rosso, sotto al palcoscenico, per giungere alla platea, perché la porta d’accesso si trovava ad essere appunto dietro il palcoscenico.

La scala lunga più di 50 gradini tutta coperta da un tappeto rosso e decorata a guisa di un pergolato da piante di bambù da ambo i lati, fra i cui rami brillavano lampadine elettriche, riuscì di un effetto fantastico. Per giungere dalle sale si dovevano percorrere tre corridoi e scendere da un’altra scaletta: tutti questi passaggi furono coperti di tappeti e le pareti adornate di tende antiche.


Illuminazione a braccioli con candele. L’ambiente del torchio dovette essere trasformato perché eccetto il soffitto esso è rustico. Tutto il pavimento per quasi 30 metri di lunghezza, fu coperto dal tappeto del ridotto della Scala (con grande allarme e molti reclami da parte dei giovani cantanti e della loro direttrice Signora Oddone perché avrebbe assai attutito l’acustica. Ma si ebbe il cattivo gusto di dare più peso ai piedi degli spettatori, - e il tappeto rimase) le pareti furono pure decorate con bambù e altre piante. Dai quattro balconi pendevano quattro magnifiche tende antiche prestate da Fausto Bagatti. Il fondo della sala fu coperto da una grande tenda rossa. Da ciascun lato dei muri due file di poltrone da giardino, nel centro tutte sedie rosse con cuscini rossi.

Tutta la decorazione del palcoscenico (dall’apertura di 7 metri) sollevato un metro e mezzo da terra, fu fatta in damasco rosso. Il velario fu il primo dei velari in velluto rosso a frange d’oro, che vennero poi adottati da tutti i teatri in sostituzione dei vecchi sipari.

Ma l’innovazione più importante fu quella introdotta nella struttura del palcoscenico, da Rovescalli: a Verderio furono per la prima volta eseguite le scene a completo panorama senza quinte, ottenendo tale effetto che l’inverno successivo il medesimo metodo fi adottato dallo stesso Rovescalli per la prima scena del Tristano alla Scala e dopo d’allora non fu più abbandonato nei grandi teatri.

Ciò che invece fu pure eseguito a Verderio con suggestivo effetto di verità, ma che non poté essere ripetuto in teatri di grandi dimensioni per ragioni tecniche, fu il cielo a volta. Tale innovazione consisteva in una enorme cappa celeste (armatura in legno coperta di tela) che si estendeva al di là del panorama dal quale distava circa 50 cm. La illuminavano intensamente lampadine disposte tutt’intorno, dietro al panorama stesso.

Così le piante, i cespugli, le montagne si distaccavano sull’azzurro omogeneo del cielo.


L’effetto poi del tramonto, alla fine del primo atto e al principio del secondo, ottenuto con lampadine di vari colori graduate col grande commutatore a tastiera del Teatro alla Scala, espressamente fatto impiantare, fu straordinario di verità e di poesia.

Non mancarono gli effetti di luce all’apparizione di Virtù d’Amore, all’uscita di Aminta dalla grotta, ecc. Fu l’ingegner Clerici in persona, in cima a una scala, che eseguiva le irradiazioni luminose. Dietro al palcoscenico, allo stesso livello di questo, fu preparato un salotto come foyer per gli artisti.

Sotto a questo e nella sala attigua si improvvisarono con paraventi un gabinetto di toilette e dei camerini, sebbene gli artisti (che erano 22) si sarebbero vestiti nelle loro stanze. Il loro accesso al palcoscenico doveva avvenire dal passaggio interno che conduce alla cantina e prosegue per le scuderie.

Dal 20 al 25 di settembre si diramarono gli inviti in stampa per la rappresentazione fissata per il 7 ottobre.

All’antiprova generale coi costumi assistette il Comm. Giulio Ricordi che rimase incantato dalla buona riuscita dello spettacolo: la prova del suo entusiasmo ci viene dal suo articolo nel giornale la “Gazzetta Musicale”. Alla prova generale furono invitati, oltre alla famiglia , i contadini, il personale di servizio, la Contessa Cecilia Lurani e Franco da Venezia. A quasi tutte le prove assistette il M. Saladino che era venuto a villeggiare a Cernusco.

E finalmente spuntò anche la vigilia di questo giorno, una splendida che faceva bene presagire anche pel domani: e venne anche il domani. La casa era tutta preparata pel ricevimento che doveva precedere e pel ballo che avrebbe seguito la rappresentazione con relativa cena: e siccome ai numerosi inquilini di Verderio (solo la casa principale ospitava 52 persone) non rimaneva più disponibile la sala da pranzo, già disposta per la cena , si supplì riducendo a sala da pranzo lo studio di papà ove il pranzo di 40 coperti (i più intimi erano stati invitati a pranzo dai parenti), riuscì anzi ammiratissimo disposto come fu a tavolini di 4 persone. Per illuminazione, un candelabro su ogni tavolino.

Ecco il menù:


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Distribuzione di alcuni tavolini:


 

Nel salone non vi era ancora parquet. Perciò era stato disteso un tappeto completo di tela bianca con ottimo effetto. Già al mattino le sale erano colme di fiori, quando arrivò un carro da [Tassera] (villa Bozzotti) con casse di splendide rose. Ne furono riempiti tutti gli angoli – e i due grandi cesti di verde appesi al soffitto del salone divennero due immensi mazzi di rose.
Emilio Silvestri ricordando le sue mansioni a S. Siro, si era incaricato di organizzare il corso delle carrozze. Furono disposti fanali e torcie a vento in giardino e sul cancello: una dozzina di uomini con torcie a vento illuminavano la strada e l’entrata del paese e il passaggio all’arsenale.
Il servizio funzionò egregiamente. Alle 9,30 di sera il pubblico già adunato nella sala superiore, scese a teatro. Sola ritardataria fu Ernesta Scheiber che veniva da Castellazzo (Milano), in carrozza! (aveva fatto predisporre un relais a Monza). Del resto questo sistema di viaggio, che oggi sembra tanto primitivo, era forse il più consono al carattere settecentesco e della casa e dello spettacolo avendo esso certa analogia colle chaises de poste. Ma poiché era tempo di rivoluzione…. Pacifica non mancò, in mezzo ai veicoli “ancien régime” una precoce automobile, quella della sig.ra Maria Silvestri Volpi giunta quasi miracolosamente senza “pannes”.


Vogliamo accingerci a ricordare i nomi degli spettatori, pure con la certezza di non ricordarli tutti a tanta distanza di anni?

Certo sarà meglio, per la cronaca, fare anche solo una parte dei nomi, anziché non citarne nessuno e perciò scriviamo l’elenco finché ne soccorra la memoria:

Erminio, Anita Bozzotti, famiglie Gnecchi, Brini Dubini, Rossi (Monza e Schio), Donna Maria Prinettie Carlino, Duca e Duchessa Guido e Ida Visconti con [Guidone] C.te e C.ssa Scheiber-Pullè; C.te e C.ssa Suardi; Carlino e Maria Greppi; Donna Remigia Ponti Spitalleri; Donna Erminia Cittadini; C.te e C.ssa Francesco Lurani; C.ssa Eugenia Borgia; Sig.na Dina Volpi Bassani; sig.ra Silvestri Volpi; sig.ra Carla Volpi Gorè; Ester esengrini e figli; La Contessa Jannet dal Verme; Barone e Baronessa Paolo Airoldi; Sofia Bisi Albini; Pippo e Clementina Lattuada; Gerolamo e Mina Sala; Giacomo e Ninetta Sala; Laura Gropallo; Ieanne Simonetta; Romeo e Paolina Casati; Sig. Robecchi; Contessa Luisa e Antonietta Casati e figli e mariti; C.sse Chiara e Maria Annoni; sig.ra Gabriella Mangili; Barone e Baronessa Giuseppe Bagatti Valsecchi; Don Fausto Bagatti V.; Sig. De Capitani Vimercate e figli; sig.ra Elvira Fochessati; nob. sig.ra De Colzi; nob. Stucchi Prinetti; Antonio e Elena baulini; [M.sa Danese Brivio]; M° Saladino e figlie; M° da Venezia; Giulio Ricordi; G.B. Nappi C.ti Durini di Monza; sig.ra Gargantini; Giulia Oddone Gavirati; Donna Nora di Belgioioso; Donna Carla Arnaboldi; sig.ra De Cozzi; Donna Costanza Borromeo; nob. Signorine Airoldi di Robbiate; sig.ra Gargantini; Principessa Ernestina Ratibor di Corvey; Duchessa di Sartirana; Donna Giovannella castani dei Duchi di [Sermoneta];C.ssa Guendalina (….) C.te Lepoldo Pullè C.te e C.ssa Pietro e Luisa Soriani; C.te Angelo Papadopoli; Comm. Giuseppe Robecchi; Donna [Popette]e S.E. Il Ministro Prinetti; Manfredi Olivi; [M.se Ramiro Rosaley e sig.ra Regalia] Aldo Noseda; C.te e C.ssa Gerolamo Rossi [Martini]; Francesca Bonfanti; Don Lodovico Bossi; Don Gaetano Tranchetti di Ponte; Dott. Favari; Dott. Viscardi; C.te Carlo Guicciardini; S.ra e S.na Badoni; Carlo Fumagalli; nob. Fumagalli; Ulrich; sig.ra Besana; M.sa Bice d’Adda; Si.na Tolfo; Prof. Marazzani; Donna Camilla [Grogallo]; Emilio Silvestri; Paolo Maesani; Famiglia Baulini; ing. Valtolina e padre; C.te e C.ssa Annoni; Famiglia Gallavresi; C.ssa Giulia [Viansoni]; ing. Lonca; ing. Ettore Conti; ing. Clerici; Don Carlo Tensa; Eugenio Restelli; C.te Febo Borromeo; M.se Ferdinando [Stanja]; C.te e C.ssa Tommaso Castelbarco; Famiglia Pizzagalli; Famiglia Albini; M.se Solari; Don Giulio Greppi; Edoardo e Fanny (….); C.te [Oldofredi]; Giannino Antona Traversi; Barone Galbiati; Guido e Costanza Gagnola; Barone Costanzo Cantoni; Famiglia Gavazzi; Hohenstein


Gli interpreti di Virtù d'Amore in posa nel giardino di Villa Gnecchi a Verderio
Il colpo d’occhio del teatro gremito era davvero incantevole: forse nessuno ricordava d’aver veduto in campagna radunate tante signore in toilettes da ballo: si sentiva nel pubblico curioso l’atmosfera della premierei attese.

Lasciamo la critica della serata ai giornali; diciamo solo che il successo fu dei più schietti e più completi che si ricordino, poiché il pubblico non fu indotto ad indulgere, come era sua abitudine per le recite di società, calcolando che gli artisti erano giovani, che i mezzi di una casa privata non sono quelli di un teatro, ecc. Ne il pubblico fu conquiso dall’eleganza della cornice, dalla novità del quadro, dalla inattesa freschezza della musica, tutta pervasa da un sottile profumo di arcaica ingenuità: fu conquiso dal senso aristocraticamente artistico che emanava da ogni dettaglio, dalla perfezione dell’orchestra e sopra tutto dalla spontanea vena lirica e drammatica che animava ognuno degli artisti nelle cui plastiche ma misurate movenze, nelle cui espressioni di parola e di fisionomia era una sincerità di arte innata così sorprendente da dare, in certi momenti, l’impressione di una rivelazione.

La scena, per esempio in cui Agosto ricupera la vista – scena che Sandro Rossi quasi ad ogni prova aveva interpretato in modo diverso, secondo la ispirazione del momento – faceva passare un brivido nell’uditorio. Il pubblico si trovò insomma scosso da sensazioni che è difficile ottenere associate, quella data da un godimento sottilmente artistico e quella che reca agli occhi una raffinata eleganza signorile di buon gusto, Forse ha risieduto in questo la sorpresa che ha creato il trionfo. Ma se pure non è qui il posto di occuparsi del valore dell’opera d’arte, non sappiamo rinunciare a seguir l’esecuzione nei suoi dettagli ricordando le caratteristiche più significative dell’esecuzione e le varie impressioni suscitate negli uditori.

IL preludio eseguito dalla sceltissima orchestrina con delicata sobrietà di sentimento alla quale non mancava una sfumatura di voluta ingenuità, trasportò subito il pensiero e l’attesa del pubblico nell’ambiente pastorale, adeguatamente arcaico, al quale tutta l’azione doveva essere improntata. E piacque schiettamente: Nell’applauso ancora incerto c’era molta sorpresa. S’apre il velario: un mormorio che è una fervida ammirazione all’arte di Rovescalli accoglie lo sbocciare di quella incantevole primavera sul pianoro verdeggiante, dai mandorli in fiore che invece di essere dipinti sul fondo e sulle quinte, come era allora consuetudine scenografica, stendevano i loro rami liberamente nell’aria tersa, dorati dal sole. La gaiezza dell’aprile mista alla dolce poesia della solitudine d’una valle aperta ai piedi dei monti, sgorgava dalle tenue tinte di quella scena semplice ma incredibilmente vera. Al quadro dà vita un gruppo di pastori: mentre Agosto (Sandro Rossi) seduto presso la casa suona la zampogna, Lida (Sandra Rossi) e il fanciullo Tirsi (Carla Gnecchi – 11 anni) inginocchiati giocano cingendo un agnello di ghirlande di rose. Alla prima prova l’agnello era vivo: ciò dava molta verità alla scena, anzi, troppa verità, - poicé la bestiola intimidita si ostinava ogni volta a mancare di rispetto ad attori e pubblico, - tanto che dovette essere sostituita con un agnellino imbalsamato, meno vivace, ma che dava garanzia di buona educazione.

I Sandri recitano deliziosamente: Lida canta l’aria di stile settecentesco con voce morbida e fresca; gaia alle parole:“No, non pensare a guai”. Calda di sentimento nella frase “Amo l’aura soave di Maggio”. Strappa all’uditorio uno scrosciante applauso convinto: il successo si delinea. È applaudito pure con calore il dettino Lida Agosto, cantato con arte fine e delicata. Il pezzo concertato all’arrivo di Aminta (Giuseppe Visconti di Modrone) non è eseguito con la musica (come era scritto) ma recitato, perché la distinta maestra, direttrice dei cori, lo ha stimato di troppo difficile esecuzione per gli inesperti coristi e l’autore, assai a malincuore ha dovuto rinunciare a udirlo come egli l’aveva composto, pur sapendo che è uno dei brani musicalmente migliori del piccolo spartito. Ma nessuna arte forse riserva tante rinunce ai suoi cultori come la composizione, ed è stato questo il primo frutto dell’ispirazione gettato alle ortiche dal giovane compositore, primo di una serie che era destinata a divenire ben lunga e ben dolorosa.

E appare portato in trionfo il bellissimo Aminta in velluto giallo con gran feltro grigio e mantello in velluto marrone. Il quadro è accolto da un mormorio di meraviglia. Le tinte dei velluti e dei rasi armonizzati su toni di pastello si fondono con la tenuità dei boschi verdi lontani in un’armonia che l’occhio non è avvezzo a trovare sui palcoscenici; il movimento dell’azione interessa tenendo viva l’attenzione.

 
L'ala ovest di Villa Gnecchi, che fu adibita a teatro per la rappresentazione di Virtù d'Amore


Sono apprezzati i bei versi che descrivono il Monte Nero, detti efficacemente da Elpino (Cesare Gnecchi in velluto grigio); il magnifico brano – forse il migliore – in cui Cirillo ( Carlo Baulini) narra l’uccisione del lupo è penetrato di tanta verità e di tanta forza drammatica, che impressiona vivamente. Ed eccoci all’ “aria del tenorino”: “Perché sei buona e bella”. Cantata con voce dolcissima e con puro sentimento. Il pubblico è soggiogato: non si stanca di applaudire. Ma ciò che lo commuove è il “finale “ dell’atto. Vien sera: l’ardimentoso Aminta, non appena ha rivelato il suo amore. Si avvia all’impresa irta di pericoli, accompagnato da tutti i pastori e si accomiata da Lida chiedendole il fiore che ha nei capelli e dicendole, con voce velata dall’emozione: “Se non torno ricordami con un po’ di dolore”. La frase è cantata come potrebbe cantarla un piccolo Caruso. Lida è vinta: il cuore fermo e sicuro che sfidava il piccolo cieco amore che

….”non vede”….. e ferisce! Impera….

E tutto ignora

a piegato alla prima parola del Misterioso Fanciullo, ed ama.

L’orchestra ricorda la canzone: “Amo l’aura soave di maggio”– mentre Lida segue sino all’orlo della valle il valoroso pastore; - poi lo accompagna ancora con lo sguardo, - e quando più non lo può scorgere, si riavvicina al Padre, scossa da singhiozzi che inconsapevolmente le sgorgano dal cuore e si inginocchia ai piedi del vecchio cieco, gemendo:


“Padre il pianto io non so più frenare!”

Ed il buon vecchio carezzandole i capelli, con un amaro accento di mesta ironia, sussurra:

“ Bimba, povera bimba che non voleva amare!”– mentre l’orchestra in sordina, in minore e sempre più piano, riprende il tema del dettino nel quale il Padre ammoniva la bimba a non schernire il “Fanciullo”

Alle ultime note sfumate come le ombre della notte che sale dal piano si riavvicina lentamente il velario su quel puro quadretto che racchiude insieme alle gemme non ancora tutte sbocciate della primavera, due gemme spuntate da pochi istanti, una vaga, profonda mestizia e una più profonda speranza.

Scoppia unanime, irrefrenabile, un immenso applauso, che non è più la sorpresa gradevole, l’ammirazione sincera, l’approvazione incondizionata, è il successo vero, pieno, prorompente; è l’emozione di tutto un pubblico che si esprime e si frange in una ovazione festante.

Il pesante velluto si riapre varie volte sulla simbolica Primavera.

Nell’intermezzo fu servito un rinfresco nella sala. Fu questo purtroppo l’unico neo del ricevimento poiché, mentre i nostri domestici (con quelli di casa Bozzotti, di casa Rossi e di zio Ercole) dovevano preparare un buffet anche nello studio di papà dove si aveva pranzato (la sala da pranzo non poteva bastare per tante persone) il servizio in teatro fu fatto dal Cova, con domestici inviati dal Cova stesso.

Per fortuna la pastorale che apre il secondo atto sulle cime rocciose del Monte Nero ci portò subito in più spirabil aere. Fu quello forse il momento pervaso da più intensa poesia.

Le zampogne dei pastori discendenti verso i loro abituri erano imitate da istrumenti sparsi in vari punti dietro la scena, in modo che davano l’effetto di rispondersi l’uno all’altro da lontano. Tali istrumenti erano un armonium, un clarino, un flauto e….una ocarina, suonata da un cocchiere di casa, la cui abilità nel soffiare in quel primitivo istrumento fu sfruttata con molto effetto, e si era già rivelata all’aprirsi del primo atto, ripetendo la prima frase del Preludio (dietro la scena) mentre Agosto fingeva di trarre note dalla sua zampogna.

Ma durante la pastorale viene un altro suonatore molto modesto e molto [rintanato]: Giovanni Baulini, che da un’alta impalcatura lontanissima faceva dondolare di tempo in tempo delle campanelle di mucche, che erano state comperate in Engadina.

I cori dei pastori si perdevano nella valle, mentre il tramonto fiammeggiava all’orizzonte lanciando raggi infuocati sulle creste rocciose. E quando la pastorale si andava allontanando e si cominciò ad udire, sempre dall’interno, la vocina di cristallo di Tirsi (Carlo Gnecchi) (di soli 10 anni) accompagnata dagli archi in sordina fu un intensificarsi di curiosità, un mormorare di approvazione. La vocina si avvicinava, finché il pastorello, in calzoncini di raso grigio e [….] di velluto amaranto, coronato di riccioli biondi, apparve in fondo alla scena, sulla più alta roccia, con un agnellino sulle spalle, cantando con soave sentimento nostalgico la tenue canzone:


Febo scende

Giù nel cielo,

notte stende

nero velo…

E sempre cantando attraversò la scena scendendo verso il piano, poi sparve, si allontanò a poco a poco per finire il suo canto in un la acuto limpido, perfetto, lunghissimo… Scoppiò un tale applauso che non si poté udire la ripresa della pastorale e la chiusa del pezzo. Fu solo dopo aver ottenuto il bis, che il pubblico, la seconda volta, seppe reprimere l’applauso e la Pastorale fu udita fino all’ultimo accordo, caratterizzato da un mi sopracuto di Tirsi sopra una triade di mi maggiore tenuta lungamente dal coro lontano dai pastori. Intanto erano salite le ombre della notte durante la quale dovevano svolgersi le scene più drammatiche.

Piena di ammirazione la scena dell’arrivo di Aminta accompagnato dai pastori, scena che diede per un istante una lieve impressione di Torre di Babele perché visi confusero gli accenti non completamente velati del gaio veneziano (Maria Ballarin) del nostro buon milanese (Pina Regalia), della bionda Albione (Miss Mason), con vari altri caratteristici tratti personali di pronuncia.

Leggera imbles del resto che poteva cogliere soltanto un orecchio sottilmente critico. Il diapason del patos cominciò subito a sollevarsi con l’ “Invocazione” che Aminta vibrante di sentimento cantò ora con profonda espressione, ora con voce dolcissima, rapito nella sua visione, come trascinato dallo slancio del suo sacrificio.

Onde di approvazione sottolineano ogni frase, alle parole: “Virtù d’Amor, t’invocò” uno scroscio di applausi.

Circonfusa di luce appare in mezzo alle tenebre della notte Virtù d’Amore (Elisabetta Oddone). Il valzer, che musicalmente, come ben osserva Sofia Bisi Albini nella sua critica, è una stonatura nello spartito perché si stacca dal carattere degli altri pezzi per seguire una via più [vieta] e meno aristocratica, è stato scritto appositamente per dare campo alla esecutrice incomparabile di far apprezzare la sua naturale straordinaria agilità. Infatti la sua voce pura, fresca, cristallina è paragonabile a una limpida fontana o a una pioggia di perle. Essa non ha studiato ma la sua gola è quella di un usignolo: affronta le difficoltà con una naturalezza e una facilità che sembrano più proprie di un istrumento che di una voce umana. Così il pubblico rimase tanto sorpreso, estasiato da quella rivelazione, che scordò di giudicare il brano musicale, e fece a Elisabetta Oddone una ovazione interminabile, ottenendo naturalmente il bis del valzer.

Il successo è ormai avviato per la strada maestra. L’intermezzo piace, sebbene sia un brano concepito per grande orchestra e si trovi sacrificato nella riduzione per orchestrina. Lida porta la nota passionale della sua angoscia in mezzo al silenzio delle montagne: ha accenti caldi, frementi, che scuotono e conquistano. La squisita eleganza delle sue pose e del suo costumino Watteau (in velluto frappè celeste) in mezzo all’asprezza dei monti forma un contrasto delizioso. Il duetto con Dafne (Pia Gnecchi) seducente di grazia e di brio, commuove, cantata con passionalità intensa. Commuove la “Preghiera” eseguita dal coro con profonda religiosità e con raro slancio, interrotto a metà dall’a-solo di Lida che strappa approvazioni. L’ansia per il ritorno di Aminta è resa insuperabilmente sia dalla fidanzata, che dal coro.

La gran scena di Agosto desta veramente gemiti nella sala; il pubblico asolta con passione il dettino Aminta Lida, le cui voci si accordano in fusione perfetta: e siamo al “Finale”, il pezzo che solleva un veero entusiasmo.

I quattro fanciulli che recano doni cantando [offrono una canzoncina], meritano di essere mangiati di baci! Le danze sono eseguite con un’eleganza e con una sobrietà di movenze alle quali i balli dell’epoca non li avevano certo avvezzi.

Ogni attore è carico di ghirlande di fiori: le trascina, ne cinge gli sposi, le solleva formando […] di rise. Il valzer finale è cantato con un’anima, con uno slancio che conquista tutto il pubblico, che in piedi acclama; il velario deve essere risollevato e l’intera chiusura del lavoro è replicata.

Nuove chiamate, nuove ovazioni ad artisti e autori. Alla fine il palcoscenico era colmo di fiori che facevano gaio contrasto con le aride rocce. L’autrice, vestita di pizzo nero con un enorme nodo color ciliegia in fondo alla sottana e uno sul petto, non finiva di ringraziare, salutando il pubblico con insuperabile eleganza. All’autore gli artisti presentarono una bellissima bacchetta da direttore in ebano e argento cesellato. Ognuno degli esecutori, direttori ecc, ebbe in dono da Maria Rossi Bozzotti una medaglietta d’oro con data e iscrizione in smalto rosso:

- Verderio, Virtù d’Amore -

L’autrice stessa ebbe dal marito uno splendido anello di turchese e brillanti.

 
La lapide posta all'esterno del locale dove si svolse l'opera


Mentre sotto il palcoscenico autori, artisti e parenti esultavano per l’esito che aveva superato ogni aspettativa, il pubblico cominciò a salire verso le sale; al colmo della scalinata Lida (Sandra Rossi) offriva a ciascuna signora ventagli sui quali era annodato, con nastro rosa, un mazzo di fiori. Sul nastro la data in oro e la stessa scritta come sulle medagliette. A ciascuno fu pure offerto un libretto.

In breve le sale furono rigurgitanti di ospiti e subito furono aperti i due buffets. Intanto l’orchestrina era stata trasportata nel piano superiore e, dall’alto di uno dei balconi che guardano sul balcone dal ballo, cominciò a suonare. Animatissime le danze. Alla una furono servite le cene che durarono ininterrottamente fino alle tre, tanti erano gli ospiti che dovettero scambiarsi i posti.

Dopo di essi si sedettero a tavola i Professori d’orchestra, che avevano suonato con foga incomparabile, inframmezzando le solite danze col valzer della Virtù d’amore. Emilio Silvestri disimpegnò pure con grande zelo e abilità la mansione di direttore delle partenze.

Si può forse asserire senza timore di ingannarsi che ciascuno degli ascoltatori si allontanò soddisfatto della sua serata e che a ciascuno degli organizzatori rimase in cuore una profonda soddisfazione per la riuscita dello spettacolo che non avrebbe potuto essere più completa. Aggiungeremo per completare la cronaca che alcuni degli invitati, all’insaputa naturalmente dei padroni di casa, rimasero a dormire sui divani delle sale, altri dormirono nella stazione di Paderno! 


Lo spartito per piano e canto di Virtù d’Amore fu stampato l’inverno successivo da Ricordi


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