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DA LODI A VENEZIA IN BARCA A REMI. UN'IMPRESA DEL 1969 DI SILVIO PUCCIO ED ERSILIO CITTERIO

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Settembre 1969. Due giovani, Silvio Puccio di Lecco e Ersilio Citterio di Cassago, partono da Lodi con una canoa indiana, a remi, e dopo sette giorni arrivano a Venezia.
Nel video che vi presento, il filmato che girarono con una cinepresa Super 8 e i ricordi, oggi, della loro impresa. Marco Bartesaghi

ELENCO DEI NOMI DI UCCELLI CONTENUTI NEL FASCICOLO: “NOTA DEGLI UCCELLI PRESI DA ERCOLE ED ANTONIO GNECCHI ED ANNOTAZIONI”. Considerazioni del dott. Massimo MERATI, direttore del PLIS Rio Vallone.

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Il 29 ottobre scorso, ho pubblicato sul blog un articolo imperniato sul contenuto di un fascicolo compilato da Antonio Gnecchi Ruscone, in cui l'autore riassumeva i risultati di caccia ottenuti insieme al fratello Ercole, tra il 1866 e il 1875. 
Dal fascicolo ho ricavato l'elenco dei nomi degli uccelli citati e, per saperne di più, l'ho sottoposto al dott Massimo Merati, direttore del PLIS Rio Vallone. Molto gentilmente il dott. Merati mi ha inviato una tabella dove, ad ogni specie di uccello citato da Gnecchi, ha affiancato un'essenziale scheda conoscitiva. Lo ringrazio di cuore.
Qualche parola sul PLIS Rio Vallone.
Per prima cosa, cosa significa PLIS?
PLIS è l'acronimo di Parco Locale di Interesse Sovracomunale. Quindi è un parco costituito per volontà dei comuni che desiderano farne parte e che, autonomamente, decidono quali aree del proprio terrritorio destinargli, allo scopo di salvaguardarne le caratteristiche naturali e favorire uno sviluppo agricolo equilibrato.

Cascina Bergamina e Cascina Növa fanno parte del territorio di Verderio inserito nel PLIS Rio Vallone


Il PLIS Rio Vallone nasce nel 1992, con un primo gruppo di comuni. Nel 2005 vi aderisce anche il comune di Verderio Inferiore. Pertanto, dopo la fusione che ha dato vita al comune di Verderio, è ques'ultimo ora a farne parte. 
Per saperne di più ecco l'indirizzo del sito del parco: http://www.parcoriovallone.it/


ELENCO DEI NOMI DI UCCELLI CONTENUTI NEL FASCICOLO: “NOTA DEGLI UCCELLI PRESI DA ERCOLE ED ANTONIO GNECCHI ED ANNOTAZIONI”. Considerazioni del dott. Massimo MERATI, direttore del PLIS Rio Vallone.









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PER UN DOCUMENTARIO SU FAUSTA FINZI E LE SUE COMPAGNE DI PRIGIONIA. Lettera aperta di Jurij Razza

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Mi chiamo Jurij Razza e lavoro come regista e aiuto regista per il cinema, la pubblicità e la televisione.

Tra il 2000 e il 2001 ho svolto il servizio civile presso il Comune di Verderio Superiore.
Durante questo periodo, l'amministrazione comunale, a conoscenza del fatto che mi fossi diplomato nel corso di documentario presso la Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, mi chiese di realizzare un'intervista a Fausta Finzi, una signora di origini ebraiche, abitante a Vimercate, che era stata prigioniera a Ravensbrück e il cui padre, Edgardo, era stato ucciso ad Auschwitz.


 
Fausta Finzi (foto Cavallari)



L'intervista, che rappresentava la prima testimonianza pubblica della signora Fausta, fu proiettata nella palestra delle scuole elementari di Verderio la sera del 27 gennaio 2001, quando per la prima volta in Italia si celebrò la “Giornata della Memoria”, e da allora partecipò a numerose altre iniziative pubbliche.
Nacque in quell'occasione, fra me e la signora Fausta, un rapporto di stima e di amicizia, che si protrasse fino alla sua morte, avvenuta nel 2013, quando aveva da poco compiuto i 93 anni.

Parlando con lei di quel periodo della sua vita, mi convinsi che c'era un aspetto della sua esperienza che, approfondito, avrebbe potuto dare un contributo interessante alla memoria collettiva di quei tragici avvenimenti della storia.
La signora Fausta aveva infatti trascorso l'internamento a Fossoli, la deportazione a Ravensbrück e la marcia della morte (il lungo percorso a piedi seguito all'evacuazione del campo) con altre cinque donne italiane, di diversa provenienza, che per un anno e mezzo, fino al loro rientro in Italia, riuscirono a non separarsi mai.
Era sua radicata convinzione che questo forte legame e il fatto che essere sempre rimaste unite nell'affrontare le difficoltà, fossero due fattori fondamentali della loro salvezza.
In accordo con lei, avevo perciò pensato di realizzare un documentario che cercasse di ricostruire la storia di questo gruppo di donne.

I lunghi colloqui avuti con Fausta negli ultimi due anni della sua vita, insieme alle testimonianze di alcune persone che l'hanno conosciuta, saranno la fonte principale del mio lavoro.
Per quanto riguarda le sue compagne, sono riuscito a rintracciare alcune loro parenti e conoscenti che intervisterò insieme ad alcune persone che si sono occupate, come storici e ricercatori, della loro deportazione.
Per far comprendere la particolarità di Ravensbrück, il campo di concentramento femminile più grande del Terzo Reich, mi potrò avvalere del contributo degli storici e dei ricercatori del “Memoriale di Ravensbrück”.


 




Per la realizzazione delle riprese del documentario ho preventivato una spesa di circa 10.000 euro, che serviranno per i costi di viaggio nei luoghi dove dovrò realizzare le interviste - Germania, Austria, Piemonte, Veneto, Lombardia - per retribuire le persone che dovranno collaborare alla sua realizzazione e per il noleggio o l’acquisto di attrezzature utili alle riprese.

Per il reperimento della somma necessaria ho presentato il progetto su un sito di crowdfunding (raccolta fondi online) attraverso il quale chiunque può contribuire con una libera donazione.
Questo è l'indirizzo del sito, dove potete trovare anche una descrizione più dettagliata del progetto:
 

https://www.produzionidalbasso.com/project/sulla-riva-del-lago/

Ricordandovi che anche il più piccolo contributo può essere un importante aiuto alla riuscita del progetto, vi ringrazio anticipatamente per l'attenzione.

Un cordiale saluto, Jurij Razza


P.S. Potete trovare l'intervista alla signora Fausta Finzi, realizzata per il comune di Verderio Superiore al seguente indirizzo:
https://vimeo.com/35307599

Article 5

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BIBLIOTECA DI VERDERIO

LA SCIENZA NEL 3° MILLENNIO
L’Uomo e l’Ambiente
Ciclo di conferenze 2016







Venerdì 11 novembre
Ore 21,00
Sala Civica di Villa Gallavresi
Viale dei Municipi 20



Nuove tecnologie per un allevamento sostenibile


Relatore Bianca CASTIGLIONI
 
Istituto Biologia e Biotecnologie Agrarie
del CNR, sezione di Lodi

 
"Al pari di altri settori agricoli, l’allevamento dei bovini da latte si trova ad affrontare la sfida di dover produrre di più e meglio dalle stesse risorse (e.g. idriche, energetiche), per soddisfare la crescente domanda mondiale di prodotti lattiero-caseari senza aumentare l'impatto ambientale.
La tecnologia diventa quindi uno strumento imprescindibile per raggiungere quest'obiettivo. L'introduzione della tecnologia in allevamento ha dato luogo alla “zootecnia di precisione”, o “smart farming”, o “allevamento 2.0”: automazione ed informatica sono sempre più presenti in stalla. Questa gran mole di dati si sta rivelando utilissima per la gestione dell'allevamento da latte, aumentandone sensibilmente efficienza e produttività, con ricadute positive  sull'impatto ambientale della zootecnia e sul benessere degli animali. I dati raccolti in maniera così puntuale, dettagliata ed automatica, sono una miniera d'oro anche per la selezione ed il miglioramento genetico dei bovini da latte. Negli ultimi tempi, infatti, grazie alla mole di dati generata in allevamento,  si stanno via via aggiungendo nuovi caratteri che potrebbero essere usati  per la selezione, come ad esempio caratteri legati alla resistenza alle malattie, alla qualità delle produzioni, all'efficienza metabolica degli animali. La zootecnia ha quindi oggi a disposizione straordinari mezzi tecnico-scientifici per affrontare le prossime difficili sfide: un atteggiamento di apertura, e non di diffidenza, verso la tecnologia e l'innovazione è necessario per cogliere queste opportunità".


Ciclo di conferenze promosso dalla Biblioteca Comunale di Verderio, grazie alla collaborazione scientifica gratuita dei professori Gabriella CONSONNI e Giuseppe GAVAZZI, dell’Università degli Studi di Milano.


IL "SENTIERO DELL'ARCADIA RITROVATA". POESIE IN MOSTRA SUL "SENTIERO DEL VIANDANTE" di Marco Bartesaghi

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Il "Sentiero del Viandante"è il nome attuale dell'antica mulattiera che congiungeva Lecco con Colico. Una bellissima camminata, che può essere suddivisa in più giornate, ed è resa agevole dalla presenza della linea ferroviaria. Essa  permette infatti di non dover tornare sui propri passi al termine della "tappa" programmata. 
Penso che ormai il sentiero sia descritto in tante pubblicazioni, anche online, immagino. 
Io però sono affezionato a una in particolare che, forse, è stata la prima ad essere pubblicata. 
In formato davvero tascabile, era distribuita gratuitamente dall'Azienda Promozione Turistica del Lecchese. Il testo, assai dettagliato, era scritto da Angelo Borghi e le semplici ed utili mappe disegnate da Raffaella Mastalli. Un gioiellino.
 *-*
Non ho però intenzione qui di descrivervi il percorso e neanche una sua parte.
Voglio solo mostrarvi una curiosità che ho trovato recentemente, percorrendo il tratto del sentiero che  da Lierna porta a Somana, una frazione di Mandello del Lario.
In località Saioli, sopra Olcio, si incontra il "Sentiero dell'Arcadia Ritrovata": un tratto di mulattiera infatti è costellato di poesie di un poeta che si firma Elio Cantoni da Olcio
Senza alcun commento ve ne presento alcune. Buona lettura

























* Un altro articolo di questo blog è dedicato al Sentiero del Viandante si intitola:

NOTIZIE INTORNO A UNA LAPIDE INCONTRATA A VARENNA SUL "SENTIERO DEL VIANDANTE"

lo trovate al seguente indirizzo: http://bartesaghiverderiostoria.blogspot.it/2010/02/notizie-intorno-una-lapide-incontrata.html

SAN NAZARO E SAN CELSO, PATRONI DI VERDERIO di Marco Bartesaghi

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Dal 13 marzo 2015 i Santi Nazaro (o Nazario) e Celso, già patroni di Verderio Inferiore, hanno assunto l'incarico di patroni del nuovo comune di Verderio, nato dalla fusione di Verderio Inferiore con Verderio Superiore.

La decisione, valida solo ai fini civili, spettava al Consiglio Comunale (1) che, su proposta del sindaco ha proceduto alla scelta attraverso un sorteggio fra la coppia di Santi già patroni di Verderio Inferiore, San Nazaro e San Celso, appunto, e la coppia dei patroni dell'ex comune di Verderio Superiore, San Giuseppe e San Floriano. Sono stati estratti i primi.


Ai Santi Nazaro e Celso è dedicata la chiesa parrocchiale della località Verderio Inferiore, costruita nel 1906 su progetto dell'architetto bergamasco Giovanni Barboglio. La chiesa, a croce greca, ha un'aula centrale quadrata, con tetto a quattro spioventi, sormontato da lanterna ottagonale con tettuccio e croce.

La chiesa parrocchiale dei SS Nazaro e Celso
Il soffitto dell'aula, una cupola ribassata, è decorata con un affresco dedicato ai due santi. 

 
L'affresco dedicato ai SS Nazaro e Celso, nell'omonima chiesa di Verderio


San Nazaro, più anziano, con la barba, tiene nella mano sinistra il ramo di palma, simbolo cristiano del martirio. Alla sua destra San Celso volge lo sguardo verso il basso, verso  i fedeli riuniti nella chiesa, e con la mano destra indica loro il crocifisso sorretto da angeli.

 


Altri angeli, uno dei quali  ha in mano il ramo di palma, circondano i due santi; altri due ancora sorreggono un mantello rosso, forse quello indossato da Gesù prima della crocifissione.





Ai due santi sono dedicate le scritte in latino, inserite sui motivi architettonici dell'affresco: tre  sul contorno esterno del  dipinto,









 quattro sul motivo che circonda l'apertura rotonda della lanterna centrale.





Anche la cappella del braccio destro della chiesa è dedicata ai due patroni. In una tela dipinta ad olio, forse del XVII secolo, i santi sono rappresentati, come a volte avviene, in abiti militari. Entrambi hanno in mano il ramo di palma. Sullo sfondo le mura e gli edifici di una città.




 *-*

Fu il vescovo Ambrogio a rintracciare, nel 396, in un giardino fuori dal perimetro della città di Milano, oggi corso Italia, il luogo di sepoltura, e presumibilmente di martirio,  di San Nazaro e di San Celso.

Milano. San Nazaro Maggiore
Le spoglie di Nazaro furono accolte nella  basilica allora conosciuta come “dei Santi Apostoli” e che in seguito prese il nome, che mantiene ancora,  di "San Nazaro Maggiore", o “in Brolo”, in corso di Porta Romana. 

 
La lapide che ricorda il luogo dove era sepolto il corpo di San Nazaro, nell'abside  di San Nazaro Maggiore


I resti di Nazaro, un tempo sepolti sotto il pavimento dell’abside (una lapide lo ricorda), sono ora conservati sotto l’altare, insieme alle reliquie di altri santi.

 
L'altare di San Nazaro Maggiore dove sono conservati i resti del santo


*-*
San Celso rimase sepolto nel luogo del suo ritrovamento. Lì, in suo nome, Sant' Ambrogio fece  costruire una piccola chiesa e una cappelletta dedicata alla Madonna (2). Negli anni  996 – 997, con l'arcivescovo Landolfo II, la chiesa fu  ricostruita, più grande, e  inglobata in un monastero benedettino.
 


Il santuario di Santa Maria dei Miracoli e, di fianco, la chiesa di San Celso in un'antica stampa
La devozione e il richiamo che suscitava   nei fedeli  la piccola cappella della Madonna convinse, nel 1430, il duca Filippo Maria Visconti a sostituirla con un edificio sacro che si sviluppò nei secoli fino a diventare l'attuale importante santuario conosciuto come “Santa Maria dei Miracoli presso San Celso”.


 
Il santuario di "Santa Maria dei Miracoli"

Nel santuario furono trasportate  le spoglie  del santo, che, dal 1935 per decisione del cardinale  Schuster,  giacciono in un'urna posta sotto l'altare della terza cappella della navata destra, dove è conservato il Crocifisso che San Carlo avrebbe portato in una processione di penitenza, in occasione della peste del 1576.

L'altare che conserva i resti di San Celso
Nella  cappella successiva in un dipinto del 1606, di Giulio Cesare Procaccini, è rappresentato il martirio dei due santi.

 
Il martirio dei SS Nazaro e Celso dipinto dal Procaccini


Proseguendo per la stessa navata, da un a porta si accede alla chiesa di San Celso, attualmente in ristrutturazione .
 

 
Milano, chiesa di San Celso (foto dal web)


La chiesa è quanto rimane dell'edificio ricostruito, come già detto, tra il 996 e il 997,  rifatto in forme romaniche nell'XI secolo, poi in parte abbattuto, nel XIX secolo, per dare più  luce al santuario.   Agli anni cinquanta dell'ottocento risale l'attuale facciata, che incorpora alcuni elementi antichi, come il portale centrale. Nell'architrave di quest'ultimo sono rappresentate scene di vita dei santi Nazaro e Celso e, in una lunetta i due santi sono affrescati a fianco della Madonna.

Tornando nel santuario, nella seconda cappella della navata sinistra, in un affresco della prima metà del XV secolo di autore ignoto, sono rappresentati i  due santi ( a sinistra Nazaro con la barba) ai lati della Madonna con Bambino. La Madonna è venerata come “Madonna delle Lacrime” poiché le è attribuito il miracolo di aver pianto il 13 e 14 luglio 1620.

 
La Madonna con il Bambino, fra San Nazaro, a sinistra, e San Celso


Nell'altare del transetto sinistro è conservato un sarcofago, forse del IV secolo, in cui Sant'Ambrogio avrebbe deposto i resti di San Celso.

Il sarcofago dove si presume che Sant'Ambrogio avesse fatto deporre il corpo di San Celso

(1) La delibera del Consiglio Comunale è pubblicata sul sito del comune di Verderio ed è rintarcciabile al seguente indirizzo: http://www.comune.verderio.lc.it/verderio/zf/index.php/atti-amministrativi/delibere/dettaglio/atto/GTlRFMw--H
(2) Nello stesso luogo venne costruita anche la chiesa, non più esistente , di San Nazaro in Campo, da dove proviene l'affresco della Madonna fra i santi della navata sinistra. 



 Marco Bartesaghi

RICORDO DI GIAN ANTONIO GNECCHI RUSCONE GUARDIAMARINA IMBARCATO SULL’INCROCIATORE ZARA E SCOMPARSO IN MARE DURANTE LA BATTAGLIA DI CAPO MATAPAN (28/29 Marzo 1941) di Carlo Gnecchi Ruscone

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“ ….. Lo ricordo a Verderio: bello, biondo, con un pull-over a trecce e la pipa in bocca ……”

INDICE

- Profilo ufficiale di Gian Antonio Gnecchi Ruscone
- Corrispondenza tra le famiglie Gnecchi Ruscone e Lechi
- Notizie e ricordi di Alessandra Fumagalli Romario Gavazzi
- Notizie e ricordi di Luca Gnecchi Ruscone
- APPENDICI



GIAN ANTONIO GNECCHI RUSCONE – Guardiamarina

Il 25 Gennaio 2016 ho ricevuto dal signor Pierluigi Ciminago, presidente dell’A.N.M.I  (Associazione Nazionale Marinai d’Italia)di Brivio la seguente mail:

Buonasera sig. Carlo, come le dissi al telefono mi servirebbero quante più informazioni possibile sul suo cugino Gian Antonio deceduto il 29 Marzo 1941 nella battaglia di capo Matapan dove era imbarcato sull’incrociatore Zara.
Come le dicevo quest’anno celebriamo il 50° dell’Associazione intitolata a: “G.M. GianAntonio Gnecchi Ruscone”, […], e la sua presenza alle celebrazioni sarebbe graditissima.
La terrò al corrente del nostro programma.
Cordiali saluti,
Pierluigi Ciminago
Presidente A.N.M.I. Brivio

Colgo  così l’occasione per cercare di ricostruire la figura del mio cugino Aspirante Guardia Marina Gian Antonio Gnecchi Ruscone


A tutt’oggi non possediamo alcuna notizia utile, a parte quelle ufficiali, a tracciare il profilo della personalità di Gian Antonio Gnecchi Ruscone, la cui vita fu stroncata a solo 23 anni, nel pieno della giovinezza. Non conosciamo le motivazioni della sua scelta, certamente anomala in una famiglia lombarda di forti tradizioni legate alla montagna, di richiedere, fin da giovanissimo, l’ammissione al Concorso per l’arruolamento nell’Accademia Navale della Marina Militare di Livorno per diventare Ufficiale. Personalmente non avevo alcuna sua notizia se non quella del suo ricordo sulla lapide della Cappella di famiglia del cimitero di Verderio, e quindi ho ritenuto utile fare una ricerca perché la sua figura non cascasse nell’oblio e fosse ricordato almeno negli archivi della famiglia.


Poiché nel 2017 ricorrerà il centenario della sua nascita,
riteniamo doveroso ricordarlo con questa breve ricerca storica
che si prefigge di ricostruire gli avvenimenti da lui vissuti,
sia attraverso alcune testimonianze e ricordi dei suoi famigliari,
sia anche fornendo qualche notizia inedita della quale siamo
venuti recentemente a conoscenza in modo assolutamente casuale.

Gian Antonio, chiamato in famiglia “Giango”, nato il 12.06.1917, dopo l’Accademia in Marina, richiamato nella seconda guerra mondiale, fu Aspirante Guardiamarina, imbarcato sull’Incrociatore Zara, partecipò alla battaglia navale di Capo Matapan (28/29 Marzo 1941) e con l’affondamento della nave, venne dato per “disperso”. Una targa ricorda l’ufficiale di Marina nella cappella della famiglia Gnecchi Ruscone nel cimitero di Verderio Superiore.



NOTIZIE STORICHE
 

E’ stato scritto di tutto e di più sulla battaglia di Capo Matapan, ed anche notizie contraddittorie,
Esiste un’amplissima letteratura al proposito per cui cercherò di farne qui un succinto riassunto:

La battaglia di Capo Matapan (Grecia) venne combattuta tra il 28 ed il 29 marzo 1941 nelle acque a sud del Peloponneso, tra una squadra navale della Regia Marina italiana e la Mediterranean Fleet britannica.
La flotta inglese era dotata di radar che consentiva di localizzare le navi nemiche, gli italiani ne erano privi.
Inoltre la nostra Marina non aveva alcun tempestivo ed efficace appoggio aereo essendo priva di navi portaerei, gli inglesi, fin dal marzo 1941 avevano decrittato il nostro Codice di trasmissione dati ed erano così in grado di conoscere in anticipo i movimenti della nostra Marina.
La battaglia, conclusasi con una netta vittoria britannica, evidenziò l'inadeguatezza della Regia Marina ai combattimenti notturni e consegnò temporaneamente alla Royal Navy il dominio del Mediterraneo, infliggendo gravi perdite, soprattutto materiali, alla Regia Marina e condizionandone le future capacità offensive.
Capo Matapan viene ricordata come la più grande sconfitta di tutta la storia della nostra Marina.



CORRISPONDENZA RELATIVA ALLA RICERCA DEL GUARDIAMARINA GIAN ANTONIO GNECCHI RUSCONE DISPERSO

Dalla documentazione qui sotto riportata risulterebbe che Gian Antonio era l’unico ufficiale che non aveva mai messo piede su una nave prima del suo imbarco sullo Zara, il che è quantomeno anomalo perché tutto l’equipaggio era formato da ufficiali e marinai di lungo corso, così come sempre avviene in caso di guerra. Da alcune voci non documentate venne anche riferito che G.A. Gnecchi fosse partito in sostituzione di altro marinaio che doveva imbarcarsi sullo Zara ma che all’ultimo momento era stato impossibilitato a partire per cause imprecisate.

Durante uno scambio di corrispondenza di carattere storico, intercorsa a fine 2012 tra l’autore della presente ricerca, Carlo Gnecchi Ruscone e il Conte Piero Lechi, in data 27/12/2012 ho ricevuto la seguente lettera che viene qui di seguito riprodotta.


1 -LETTERA DEL CONTE PIERO LECHI A CARLO GNECCHI RUSCONE


Lettera 1 - Riproduzione parziale della lettera del signor Piero Lechi al signor Carlo Gnecchi Ruscone

Trascrizione della lettera 1:

Caro Carlo
grazie per tutto il materiale che mi hai fatto avere, per me molto prezioso.
leggerò con molto piacere le memorie del tempo di guerra.
Spero di poterti mandare fra un po’ di tempo un riassunto di quello che ho scritto io sugli anni 30 e 40 del 900.
Come ti avevo promesso ti invio alcuni documenti che sono sicuro ti faranno molto piacere: fotogopie che sono nel nostro archivio e precisamente:
1 – 27.09.1928 Peppo Gnecchi a mio papà Fausto (prima lettera di una lunga serie)
2 – 6.09.1929 Alessandro Gnecchi
3 – 25.121940 Anita Gnecchi Jacob a mio papà
4 – Natale 1940 – Epifania 1941 lettera di mio padre al capitano di Vascello marchese Luigi Corsi che aveva sposato Teresa Fè d’Ostiani cugina dei miei genitori
5 – 13.01.1941 Luigi Corsi a mio padre
6 – 25.01.1941 Anita Gnecchi Jakob a mio padre
7 – senza data: superstiti dello Zara (in quel periodo mio padre era presidente dell Croce Rossa di Brescia, probabilmente aveva ricevuto il documento attraverso la CRI)
8 – 3.04.1941 Peppo Gnecchi a mio padre
9 – 5.04.1941 Alfredo Fè d’Ostiani (padre di Teresa a mio padre)
10 – 21.05.1941 Alfredo Fè d’Ostiani a mia mamma
11 – 24.05.1941 peppo Gnecchi Ruscone a mio papà 8la cui ultima lettera a mio padre sarà in data 9.9.1965)
Mi sembra molto bella quella del comandante Corsi per i giudizi che da sul vosro cugino.
Inoltre spedisco per te e per tuo cugino Francesco il libretto scritto da mio padre sulla carica di Aquila Cavalleria a Paradiso ol 4 novembre 1918.
[…]
Ti faccio i più cari auguri di Natale e per il nuovo anno
Piero



Il Dott.ing. conte Piero Lechi, appartenente alla nobile famiglia bresciana che nei secoli si è contraddistinta, oltre che per l’impegno civile e militare, anche per la raffinata attitudine al collezionismo d’arte è mancato il 4/9/213 a 83 anni.


Al fine della miglior comprensione del grado di parentela dei vari soggetti della famiglia Gnecchi Ruscone citati nelle seguenti lettere, si ritiene utile unire il seguente Pro-Memoria:
I tre fratelli maschi figli di Giuseppe Gnecchi e Giuseppina Turati sono i seguenti:


FRANCESCO (1° di 10 fratelli) dal quale discende il ramo di Verderio

ERCOLE (4° fratello) dal quale discende il ramo di Paderno d’Adda

ANTONIO (9° fratello) dal quale discende il ramo di Cologne Bresciano

Figli maschi di Antonio:
1) Alessandro (Sandro) padre di GianAntonio
2) Giuseppe (Peppo) zio di GianAntonio.
Peppo Gnecchi e sua moglie Anita non avranno figli
e considereranno il nipote GianAntonio come il proprio erede



2 - LETTERA DI FAUSTO LECHI AL COMANDANTE LUIGI CORSI

Lettera scritta tra il Natale 1940 e l’epifania 1941 dal conte Fausto Lechi (1892 – 1979) di Brescia, indirizzata al Capitano di vascello marchese Luigi Corsi, comandante ell’incrociatore Zara. Fa parte dell’equipaggio il guardiamarina Gian Antonio Gnecchi Ruscone (1917 – 1941), figlio terzogenito di Alessandro Gnecchi Ruscone e di Anita Jacob (1), di cui Lechi chiede notizie.
La moglie del conte Fausto Lechi era la contessa Paolina Bettoni Cazzago (1898 – 1986); vogliamo qui ricordare Sandro Bettoni Cazzago, fratello di Paolina, che comandò il Savoia Cavalleria alla carica di Isbuscenskij il 24.08.1942.
La moglie del Capitano di Vascello Luigi Corsi (1898 – 1941) era Teresa (detta Resy)dei conti Fè d’Ostiani (m. il 06.02.1945). Teresa era figlia del conte Alfredo e di Amalia dei conti Casana. I Fè d’Ostiani sono una famiglia di Brescia residente a Roma. I Corsi sono una nobile famiglia di Savona. Resy Fè d’Ostiani era cugina del conte Fausto Lechi



Carissimo cugino,
noi ci siamo visti purtroppo ben poco nella vita e mi auguro che l’avvenire mi conceda di trovarmi qualche volta insieme, ma di te ho sempre un ottimo ricordo  e spesse volte notizie dac Alfredo Fè che con tanto piacere vediamo di frequente tra noi.
So che tu hai la fortuna e l’onore di comandare in questi momenti una bellissima nave ed è per tale tuo incarico che oggi ti scrivo.
Miei amici milanesi, i signori Gnecchi, hanno il figliolo Antonio guardiamarina imbarcato sullo Zara.
Essi sono ben contenti che egli si trovi ai tuoi ordini tanto più che egli scrive di trovarsi bene e, sapendo della nostra parentela, mi hanno pregato di informarmi presso di te se anche i suoi superiori sono altrettanto soddisfatti di lui, come si comporta e come compie il suo dovere; in poche parole desiderano conoscere tutte quelle notizie che le mamme in questi momenti amano avere dei loro figlioli.
Poiché immagino quali e grandi occupazioni tu avrai in questi giorni non voglio che tu mi risponda subito: fai  pure con tuo

comodo ma sappi che una tua lettera con sue notizie mi farà  molto piacere perché noi siamo orgogliosi dei nostri parenti marinai.
Nello stesso tempo sono lieto di fare un favore ai miei amici Gnecchi.
Quando scrivi a Resi ti prego di ricordarmi a lei insieme a mia moglie Paolina.



3 -LETTERA DEL COMANDANTE LUIGI CORSI A FAUSTO LECHI


 Lettera in due pagine scritta dal comandante Luigi Corsi Fausto Lechi

Trascrizione della lettera 3:

R. Incrociatore Zara
IL COMANDANTE
Bordo, 13 gennaio 1941 – XIX
 

Carissimo cugino,
sono molto contento di poterti dare ottime notizie del giovane Antonio Gnecchi, di cui ti interessi. Per quanto al suo imbarco mancasse di qualsiasi precedente esperienza marinaresca ha saputo rapidamente ambientarsi ed affiatarsi coi compagni. 

È intelligente e volonteroso e quindi riuscirà certamente. tanto io che gli ufficiali da cui dipende direttamente siamo contenti di lui. È destinato alle artiglierie e più precisamente agli apparecchi per la direzione del tiro telemetro e personale relativo, oltre si intende i servizi  di guardia generali.
Ti ringrazio per i buoni auguri per il 1941, che deve essere l’anno della vittoria, e lo sarà – noi siamo tutti molto fieri della fiducia che il Paese ha in noi e molto compresi di quello che da noi aspetta. – Il compito è duro e non sempre appariscente [?], ma abbiamo volontà e fede di essere all’altezza dell’ora e contiamo fermamente che la conclusione lo dimostrerà. – Spero anch’io che a guerra conclusa avremo occasione di vederci più spesso, intanto ricambio di cuore, anche da parte di Resy i più cordiali auguri e saluti, lieto di questa occasione di riprendere i contatti.
Gigi Corsi




4 - LETTERA DI ANITA GNECCHI, MOGLIE DI SANDRO GNECCHI E MAMMA DI GIAN ANTONIO, A FAUSTO LECHI




Lettera di Anita Gnecchi Jacob, mamma di Gian Antonio, a Fausto Lechi

Trascrizione lettera 4:

Milano 25 gennaio 1941
Caro Conte Lechi,
sono stata per alcuni giorni assente da Milano per cui rispondo in ritardo alla sua gentilissima.
Non può credere quanto piacere mi abbia fatto la lettera del comandante suo cugino: a rendere meno dura la lontananza tutto giova e questa è stata una grande consolazione, che devo a lei e alla sua squisita gentilezza e di cui le sono, con mio marito, profondamente grata.
Le ritorno la lettera e le rinnovo i più sentiti ringraziamenti, mentre saluto lei e famiglia ben cordialmente.
Anita Gnecchi Jacob



5 - SUPERSTITI DELLO "ZARA"

Lettera senza data con nomi di alcuni superstiti dello "Zara"

Superstiti dello “Zara” recuperati dalla nave ospedale “Gradisca”
Marò s.v. BOBICCHIO Giuliano matr. 4710 (ricoverato Marinferm Messina)
Marò scelto PERDOLINI Onorato matr88570   Deposito C.R.E.R. Messina
Marò s.v. SEROLI Miscrolavo matr 97202                    “                 ”                  “
Marò s.v. VENUSO Vincenzo matr. 99619                    “                  “                  “
Cann. Art. BANI Ernesto matr. 14381                           “                  “                  “
All. [?] LAZZETTI Stenio matr. 54778                          "                 “                  “
Cann O. BALANZONI Vittorio matr. 55943                  “                  “                  “
Cann. A. PETRAZZUOLO Sabatino matr. 1620            “                  “                  “
 

Purtroppo non posso comunicare nulla alla famiglia dell’aspirante Gnecchi, perché mancano ancora gli elenchi dei prigionieri, e dei morti. ti unisco l’elenco degli otto superstiti, semplici marinai, raccolti dalla nave Gradisca e sbarcati a Messina.
Questi naufraghi furono tutti interrogati a Messina  e lasciarono delle deposizioni che io ho ma purtroppo non è fatto cenno del Gnecchi. In ogni modo la famiglia potrà rivolgersi direttamente a questi marinai chiedendo del loro congiunto, perché avrebbero potuto benissimo vederlo al momento ell’affondamento e anche di poi. I detti marinai sono ora alla loro casa, ma dirigendo le lettere all’indirizzo del deposito C.R.E.R. di Messina e aggiungendo il grado e la specialità, nonché il numero di matricola segnato sull’elenco, la corrispondenza verrà loro inoltrata.
Pare che i prigionieri del “Zara” siano stati trasportati dal nemico ad Atene dove in questo momento regna molto traffico ed è difficile sapere qualche cosa di veramente esatto a tramite nostro. Ma la C.R. e il vaticano potrebbero qualche cosa. Dì alla famiglia che posso accertare che tutti gli uomini della nave Z. si sono comportati da eroi e che non hanno abbandonato la nave che quando questa era perduta.
Piango la grave perdita, ma i nostri marinai hanno scritto una pagina di purissimo valore. Confido molti siano i prigionieri e tra questi spero l’Aspirante Gnecchi.



6 - LETTERA DI PEPPO (GIUSEPPE) GNECCHI A FAUSTO LECHI

Lettera di Peppo (Giuseppe) Gnecchi a Fausto Lechi

Trascrizione lettera 6:

Cologne Bresciano 3 aprile 1941
Carissimo Fausto,
forse lo saprai già, ad ogni modo credo bene di comunicarti con piacere la notizia che circola a Milano e cioè che la persona

che ti interessa è in salvo. Finora non sono che voci ma è già qualche cosa!
Di mio nipote invece niente.
Ricordami con Anna alla tua Signora e credimi tuo aff.mo Peppo Gnecchi



7 - LETTERA DI ALFREDO FÈ D'OSTIANI A FAUSTO LECHI



Lettera di Alfredo Fè d’Ostiani a Fausto Lechi
Trascrizione lettera 7:

Torino 5 -4 –‘41
Caro Fausto,
Ti rispondo a volta di corriere, per ringraziare tutti voi e te, in modo speciale, per l’affettuosa premura che, già dimostratami altra volta, anche in questa hai voluto palesarmi. Grazie di avermi comunicato la notizia che circola a Milano.
Qui pure degli amici dicono di avere udito dalla radio di 2 giorni or sono, che il comandante lo Zara era stato raccolto. Per ora non abbiamo alcuna notizia ufficiale, ed Andrea nostro, che ora si trova al Ministero della Marina, e per di più alla Direzione Movimento Ufficiali, ci ha telefonato che occorreranno (nel migliore dei casi) non meno di 10 giorni ancora per conoscere esattamente il nome dei salvati.
Destino! Molti naufraghi hanno perso la vita, colpiti dall’aviazione che piombò sulle navi […], mentre lavoravano al salvataggio e che dovettero interromperlo.
Resy (che ti è molto riconoscente) era a Pallanza: Amalia ed io andammo a prenderla e la portammo qui per assisterla in questo grave frangente. Speriamo in Dio! Il bravo Gigi, che proprio il 2 compiva 43 anni, avrebbe avuto la promozionem ad Ammiraglio fra 6 mesi. I figli suoi sono a Moncalieri e li sentimmo ieri.
Non posso dirti nulla del giovane Gnecchi; so solo che era adorato dai genitori, che Resy conobbe pochi mesi or sono a Spezia.
Quanti dolori in questa disgraziata guerra! Addio caro Fausto, tante cose a Paolina, a tua Madre a tutti i tuoi fratelli.
Grazie delle tue parole. aff. Alfredo



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8 - LETTERA DI ALFREDO FÈ D'OSTIANI ALLA MOGLIE DI FAUSTO LECHI



Lettera in tre fogli di Alfredo Fé d’Ostiani alla moglie di Fausto Lechi

Trascrizione lettera 8:

Sono e siamo molto riconoscenti a te e a Fausto per l’affettuosa parte che avete preso al nostro dolore, e ve ne ringraziamo tanto anche per gli auguri che fate per Resy e per noi. Di notizie positive, per il momento, nulla; per altro il cuore nostro si apre un poco di più alla speranza, avendoci Andrea comunicato da Roma che il numero dei salvati oltrepassa i 1141, e pare, da comunicati inglesi, che si aggiri sui 2000. Però, come dice lui, l’interpretazione è più lenta, avendo gli inglesi comunicato che, per accelerare le operazioni, d’ora innanzi comunicheranno i nomi frammisti fra di loro, senza specificare il grado e la specialità – Ma le cose, dice Andrea, andranno molto per le lunghe.
Ora vi è un grosso inconveniente, ossia, Andrea col 27 p.v., dovrà lasciare Roma per 42 giorni, essendo stato destinato ad accompagnare per tutta Italia, una missione Giapponese [… … …],. Spero che lui lasci al suo sostituto l’incarico tuo che gli darò: e spero che questi lo surroghi con coscienza e diligenza.
Amalia e Resy t’inviano i più caldi saluti.
I nostri auguri per il vostro Teodoro ed abbracci a tutti i vostri figlioli.
Salutami tutti in casa e la Mamma tua con quanti sono con Lei.
Tante cose affettuose
Tuo Alfredo Fè
21. 5. ‘41



9 - LETTERA DI PEPPO (GIUSEPPE) GNECCHI A FAUSTO LECHI

Lettera di Peppo (Giuseppe) Gnecchi a Fausto Lechi

Trascrizione lettera 9:

Cologne 24 Maggio 1941
Carissimo Fausto,
ti sono molto riconoscente delle notizie che mi hai mandato (e che ho subito fatto proseguire per Milano – a mio fratello).
Dalle stesse – con l’accresciuto numero dei salvati – le probabilità che sia salvo anche mio nipote – sono aumentate. ma purtroppo questa dolorosa incertezza è destinata a prolungarsi ancora per chissà quanto tempo!
Anche da parte di mio fratello e mia cognata, ti mando i più vivi ringraziamenti per il tuo molto gentile interessamento alla nostra triste vicenda – e auguriamo reciprocamente – che sia pure a traverso molto tempo – possiamo un giorno arrivare al lieto e felice fine!
Ricordami  - anche da parte di Anna – alla tua signora – e tu abbiati una riconoscente stratta di mano da
aff. amico Peppo Gnecchi R.




IL RICORDO DELLO ZIO "GIANGO", DI ALESSANDRA FUMAGALLI GAVAZZI

Alessandra Fumagalli Romario Gavazzi è nipote di Gian Antonio, essendo la figlia primogenita di sua sorella Pia Gavazzi Gnecchi Ruscone.

La casa di Verderio del "nonno Alessandro Gnecchi"
 
Anche se ero piccolina, ero affascinata da mio zio Giango, anche perché vivendo io a Schio lo vedevo raramente.
Ho un ricordo vivissimo suo a Verderio, in casa del nonno Alessandro Gnecchi: bello, biondo con un pull-over a trecce e la pipa in bocca.
Avevo in mano il libretto di filastrocche della Lina Schwartz, con delle figurine schizzate: lui, con delle matite colorate si mise a riempirle di colore, facendo la mia felicità: mi sembrava, si direbbe oggi, un supereroe.



Gian Antonio Gnecchi Ruscone, "Giango"
Poi ho vivissimo il ricordo del 29 o 30 marzo 1941: avevamo lasciato Schio per iniziare la scuola a Milano, abitavamo in via Cadamosto, frequentavo la 3° elementare della scuola Antonio Stoppani.
In un angolo dell’aula in alto c’era la radio. a un certo punto si mise a trasmettere il bollettino di guerra che annunciava l’affondamento dell’incrociatore Zara, su cui c’era il guardiamarina Gnecchi, mio zio. Ricordo la mia maestra Elena Majani, rivolgersi alla classe, chiedendo se avevano qualche parente su quella nave: io, con le lacrime agli occhi, risposi, sì lì c’era mio zio. Mi accorsi poi di essere stata e essere pessimista: anche quando poi mi rivolgevo alla nonna e alla mamma (che avevano gli occhi arrossati) dicevo “vedrai che ti consolerò io!”, non pensando alla possibilità che lo zio si fosse salvato.
Gian Antonio è stato dato per disperso: sua madre, mia nonna, ha sempre sperato di rivederlo anche perché aveva saputo che al momento si era salvato con un suo amico compagno , su una scialuppa: era stato visto lì vivo.
L’ipotesi più probabile, che era stata formulata, era che gli stessi alleati tedeschi fossero passati sopra Matapan a mitragliare tutto ciò e tutti coloro che trovavano, senza distinguere se fossero amici o nemici.

 Alessandra Fumagalli Gavazzi        Monza 10.02.2016



Foto di gruppo della famiglia di Alessandro (Sandro) Gnecchi Ruscone a Verderio nella villa già Ruscone – Il bambino biondo a destra in alto è Gian Antonio


NOTIZIE E RICORDI DI LUCA GNECCHI RUSCONE

Figlio di Aldo, zio di Gian Antonio Gnecchi, e quindi cugino in 2° di quest’ultimo

Tra i miei ricordi di ragazzo c’è l’inaugurazione della sede di Via Indipendenza della sezione di Merate dell’Associazione Nazionale Marinai d’Italia intitolata a Gianantonio Gnecchi Ruscone.
La costituzione della sezione era stata desiderata e promossa da nostro cugino Francesco Baslini che in casa veniva chiamato Frank, Ammiraglio di Squadra che dell’Associazione Nazionale Marinai d’Italia doveva essere più avanti presidente tra il 1971 ed il 1975.
Il nostro legame con la famiglia Baslini risaliva al matrimonio di zia Elena Gnecchi, sorella di mio nonno Ernesto, con Antonio Baslini, avvocato, sindaco di Merate e poi deputato, sottosegretario di Stato al Tesoro e alle Finanze nel governo Salandra negli anni della grande guerra e quindi Senatore del Regno.
Antonio con il fratello Carlo, lui pure sindaco e poi Podestà di Merate erano figli di Giuseppe Baslini il più noto esperto e conosciuto mercante d’arte milanese dell’ottocento che aveva acquisito la casa di Merate.
 






Fu quindi l’Ammiraglio Francesco Baslini a suggerire di intitolare la sezione a Gianantonio, da lui conosciuto, che all’epoca della sua scomparsa aveva casa a Verderio Superiore dove il papà Alessandro Gnecchi era proprio in quel periodo Podestà.
Ho un ricordo vago della giornata dell’inaugurazione: una cerimonia breve e molto semplice, presenti le autorità meratesi, l’Ammiraglio Baslini e una commossa madrina, Pia Gnecchi, sorella di Gianantonio e moglie di nostro cugino Rodolfo Gavazzi. Pia aveva quindi vissuto in casa la drammatica, tristissima pagina della scomparsa del fratello, vicenda protrattasi nel tempo poiché la definizione “disperso in mare” doveva alimentare per anni subitanee false speranze e delusioni con tanti illusori momenti di attesa destinati a svanire alla fine della guerra.


APPENDICE

Guardiamarina (Tratto da Wikipedia)
 

Il grado di guardiamarina è, in ordine gerarchico crescente, il secondo degli ufficiale inferiori della Marina Militare. Corrisponde a quello di sottotenente dell'Esercito Italiano e dell'Aeronautica Militare.
Al grado di guardiamarina (G.M.), si accede nell'Accademia Navale da quello di aspirante guardiamarina (A.G.M.), che non ha alcuna corrispondenza nelle altre forze armate italiane, sebbene gli allievi ufficiali del terzo anno dell'Accademia Aeronautica rivestano una qualifica denominata aspirante.
Ciò avviene - per quanto riguarda gli ufficiali frequentatori dei ruoli normali - durante il quarto anno del corso normale, nel giorno che precede la tradizionale cerimonia del giuramento (Santa Barbara) della seconda classe. Fino al 2004 gli allievi ufficiali di complemento accedevano a questo grado previo superamento del tirocinio di 1ª nomina.
Il guardiamarina, il sottotenente di vascello ed il tenente di vascello costituiscono la categoria degli ufficiali subalterni (o ufficiali inferiori), al di sopra della quale si trova quella degli ufficiali comandanti (o ufficiali superiori) e degli ammiragli.


Luigi Zara, comandante dello"Zara"


Capitano di Vascello Luigi CORSI, Decorato con Medaglia d’Oro al Valor Militare.
 

Nacque a La Spezia il 4 aprile 1898. Figlio di Ufficiale di Marina, fin da giovinetto volle seguire le orme paterne ed all'età di soli 14 anni entrò all'Accademia Navale di Livorno conseguendo, nel 1916, la nomina a Guardiamarina. Partecipò al primo conflitto mondiale stando imbarcato su unità di superficie; conseguì la promozione a Sottotenente di Vascello nel 1917 e quella a Tenente di Vascello nel 1918. Nel dopoguerra ebbe il comando del cacciatorpediniere Confienza con il quale partecipò allo sbarco di Corfù (1923). Promosso Capitano di Corvetta, nel 1932 ebbe il comando del cacciatorpediniere Espero con il quale fu dislocato in Cina, durante il conflitto cino-giapponese. Promosso Capitano di Fregata nel 1933, durante la Campagna di Etiopia ebbe l'incarico di Capo di Stato Maggiore della 1a Squadra Navale ed al termine delle operazioni africane assunse l'incarico di Comandante in 2a dell'Accademia Navale e contemporaneamente quello di Direttore degli studi. Promosso Capitano di Vascello nel 1939, il 1° marzo 1940 assunse il comando dell'incrociatore Zara con il quale si distinse nella battaglia di Punta Stilo. Sempre al comando dello Zara la notte del 28 marzo 1941, nello scontro notturno di Capo Matapan, l'unità fu sorpresa dalle navi da battaglia britanniche Valiant, Barham e Warspite, delle quali non era nota la presenza in zona. Lo Zara, subito centrato, ebbe a subire gravi avarie e vasti incendi che ne provocarono l'immobilizzazione. Considerata la gravità della situazione, il comandante Corsi attuò prontamente tutte le misure necessarie per la salvezza dei superstiti e diede l'ordine dell'autoaffondamento, rifiutando di porsi in salvo. All'ordine di autoaffondamento si portava, con il proprio Comandante in 2a Vittorio Giannattasio, ad innescare le cariche nel deposito munizioni, scomparendo nell'immane esplosione che travolse la nave.
Morirono 782 dei 1098 uomini a bordo, fra cui l'ammiraglio Cattaneo[ed il comandante della nave, c.v. Luigi Corsi, che avevano deciso di affondare con la nave. Dei sopravvissuti, 279 furono catturati dagli inglesi.
Fu la più grande sconfitta di tutta la storia della nostra Marina.



 
Un'immagine, dal web, dell'incrociatore Zara

 Carlo Gnecchi Ruscone - Inzago - Febbraio 2016


 

50° ANNIVERSARIO DI FONDAZIONE DEL GRUPPO A.N.M.I. DI BRIVIO - "G.M. GIAN ANTONIO GNECCHI RUSCONE"

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27 Novembre 2016

50° anniversario di fondazione del gruppo ANMI Brivio - “G.M. Gianantonio Gnecchi Ruscone”

Programma della manifestazione:

  • Ore 9:30 ritrovo presso il monumento ai Caduti del Mare sul lungo Adda
  • Alzabandiera
  • Deposizione corona di alloro ai Caduti del Mare
  • Breve discorso del Presidente ANMI Brivio focalizzato sul 50° anniversario
  • Breve discorso del sig. Sindaco e possibilmente delle altre autorità civili e militari
  • Ore 10:30 circa trasferimento in corteo alla Parrocchia.
  • Ore 11:00 – 12:00 celebrazione della SS. Messa con particolare riferimento alla Patrona Santa Barbara
  • Ore 12:00 trasferimento alla sala civica Comunale dove si terrà una esposizione di alcuni significativi modelli navali, e un rinfresco per gli ospiti con distribuzione di un calendario commemorativo del 50° ANMI Brivio

 + - +

Il gruppo di Brivio dell'Associazione Marinai d'Italia è dedicato alla guardiamarina Gian Antonio Gnecchi Ruscone, imbarcato sull'incrociatore Zara e disperso in mare dopo l'affondamento della sua nave, nella battaglia di Matapan del 28-29 marzo 1941.
Gian Antonio era figlio di Alessandro Gnecchi Ruscone, che a Verderio era possidente terriero e podestà negli anni della seconda guerra mondiale.
A Gian Antonio Gnecchi è dedicata un'aula della scuola primaria di Verderio.

+ - +
La commemorazione di domenica 26 novembre, comprende una mostra di modelli navali. Fra i modelli che esporrà il verderiese Enrico Colombo, una delle sue ultime realizzazioni: uno spaccato dell'incrociatore Zara.
Vi presento alcune fotografie del modello, finito e in fase di costruzione.




Sezione dell'incrociatore Zara - modello finito



















































Su Enrico Colombo, in questo blog potete trovare anche gli articoli:

UN CANTIERE NAVALE IN MANSARDA: http://bartesaghiverderiostoria.blogspot.it/2015/03/un-cantiere-navale-in-mansarda-di-marco.html

IL PIROSCAFO "SAVOIA", L'ULTIMA OPERA DI ENRICO COLOMBO: http://bartesaghiverderiostoria.blogspot.it/2016/02/il-piroscafo-savoia-lultima-opera-di.html





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SULLA RIVA DEL LAGO. Il documentario di Jurij Razza su Fausta Finzi e le sue compagne di deportazione.

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"Sulla riva del lago"è il documentario che Jurij Razza sta realizzando sull'esperienza di deportazione nel campo di concentramento di Ravensbrück, che la signora Fausta Finzi condivise strettamente con altre cinque compagne di prigionia

In occasione del Giorno della Memoria,  ho chiesto a Jurij di fare per il blog  il punto sulla realizzazione del documentario.

Venerdì 27 gennaio alle ore 18, Jurij presenterà il suo progetto a  Vimercate, a Palazzo Trotti in piazza Unità d'Italia 1.
M.B.


SULLA RIVA DEL LAGO - avanzamento del lavoro di Jurij Razza

Quando ho iniziato ad immaginare la storia di questo progetto e poi ad occuparmi delle ricerche che ne sarebbero state le fondamenta, non avrei mai pensato che si sarebbe trasformato in un lavoro che avrebbe occupato così tanti anni della mia vita nonché così tante energie. Una ricerca che nel corso degli anni si sarebbe trasformata quasi in un’ossessione e nel desiderio di dar vita alla storia di sei donne coinvolte nell’esperienza della deportazione e che nessuno aveva mai raccontato. 

Fausta Finzi


Di Fausta Finzi e della sua storia conoscevo ormai quasi tutto; dopo il nostro primo incontro - avvenuto nel 2000, quando fui coinvolto nella realizzazione di un piccolo documentario commissionato dal Comune di Verderio e dedicato alla sua testimonianza - ce ne furono molti altri, che accrebbero la nostra amicizia, i suoi preziosi insegnamenti e il mio desiderio di realizzare un nuovo e più approfondito lavoro insieme.
Oggi finalmente questo progetto ha preso forma e si sta concretizzando in un documentario intitolato Sulla riva del lago. Nel mezzo ci sono stati anni di ricerche, di traversie produttive, inaspettate scoperte, snervanti rinunce, imprevisti e nuove conoscenze. E c’è stata anche la morte di Fausta, da cui tutto era scaturito e che non avrebbe potuto proseguire questa avventura con me. 


Le vicende di queste sei donne, che condivisero l’esperienza della deportazione nel lager di Ravensbrück, ha iniziato ad essere svelata e per la prima volta, con questo documentario, le loro memorie si stanno intrecciando per raccontare una storia di solidarietà femminile.

Il lago nelle vicinanze del campo di Ravensbrück

Dal primo ciak battuto alle ultime interviste delle scorse settimane ho già accumulato più di 50 ore di riprese, divise tra interviste e immagini dei luoghi che furono teatro della persecuzione; materiale che è stato minuziosamente catalogato e trascritto, per poter lavorare con più precisione alla futura fase di montaggio.





L’ostacolo maggiore che ha accompagnato la lunga gestazione di questo lavoro è stato principalmente quello economico. Le ricerche si sono dilatate nel tempo per ammortizzare spese come quelle per gli spostamenti, i pernottamenti o il semplice acquisto dei libri e materiali informativi. Tutto questo dovendo incastrare tempi e disponibilità, nei ritagli di tempo e quando il lavoro mi permetteva di proseguire.
E poi ho dovuto affrontare la burocrazia, le difficoltà di reperimento dei materiali d’archivio, la ricerca dei parenti, il lavoro di conoscenza reciproca e il convincimento a partecipare al progetto.






Per contro però ci sono state anche numerose gratificazioni, che mi hanno portato a scoprire sempre più dettagli, a conoscere persone straordinarie che hanno contribuito ad aggiungere nuovi tasselli alla storia di queste donne, ad arricchire sempre di più il progetto.
Manca ormai poco al termine delle riprese: le prossime settimane saranno dedicate all’organizzazione delle ultime sei o sette interviste che completeranno il quadro di tutti i testimoni indiretti legati ad una delle sei storie e poi si inizierà a lavorare al montaggio.



















Alcuni degli intervistati. Dall'alto: Dori Bonfiglioli, Franco Schönheit, Federico Bario














Tutto questo lungo lavoro è durato più di sei anni e si è svolto senza finanziatori. Per questo motivo, ora più che mai, il contributo di tutti coloro che continueranno a partecipare alla raccolta fondi sarà determinante per rientrare nei costi sostenuti e per sopportarmi nella lunga ed meticolosa fase di montaggio che si svolgerà nel corso dei prossimi mesi.
Questa indipendenza produttiva non ha facilitato il cammino, ma mi ha permesso di rendere questo lavoro un progetto partecipato, dove amici, conoscenti o perfetti sconosciuti mi hanno supportato economicamente, ma soprattutto hanno condiviso il proprio entusiasmo, le proprie esperienze e i propri consigli in un progetto di memorialistica che rende omaggio alla storia dei deportati e in particolare a quella delle donne.

Per contribuire, con una donazione libera, è sufficiente cliccare su:


www.produzionidalbasso.com/project/sulla-riva-del-lago-2



Clicca su questo indirizzo per trovare tutto ciò che, su questo blog, riguarda fausta Finzi:

http://bartesaghiverderiostoria.blogspot.it/search?q=FAUSTA+FINZI









 

“GUARDÉ, GUARDÉ! I BRUSA I EBREI!” Lettera testimonianza di Anerio Villani ai nipoti.

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Anerio Villani è un signore di Merate, classe 1938, originario di Trieste. È nonno di sette nipoti, non più bambini. Anerio,quando raggiungono “l'età per capire”, scrive loro delle lettere,in cui racconta episodi di storia di cui ha avuto conoscenza diretta. Non si aspetta riscontri, ma pensa che la sua testimonianza possa essere utile e sia da loro apprezzata.
Le lettere che mi ha messo a disposizione, per le quali lo ringrazio, riguardano un ricordo della sua infanzia a Trieste, quando, giocando per strada con altri bambini, vedeva il fumo uscire dal camino della Risiera di San Sabba, il campo di stermino nazista della sua città. M.B.


***
 
23 gennaio 2014
Caro Marco, caro Lorenzo,
In occasione del Giorno della Memoria, vi spedisco la mail qui allegata, che ho scritto nove anni fa, per la stessa ricorrenza, a vostro padre e allo zio Alberto, oltre che ai vostri fratelli maggiori che avevano già l’età per capire.
Allora avevo scritto questo anche perché volevo contribuire a fare chiarezza su due punti che ogni tanto, negli anni riemergevano.
Il primo punto era la pretesa, serpeggiante in Germania, che, della Shoah, loro, i cittadini, non ne sapevano nulla : nessuno s’era accorto dei treni e treni che arrivavano in prossimità dei campi di concentramento carichi di umanità e ne ritornavano vuoti.
A Trieste, invece, quello che succedeva a San Sabba (alla fine cinquemila morti almeno) lo sapevano anche i bambini in età di scuola elementare.
Il secondo punto era il vezzo, di quelli che “io la verità la guardo in faccia”, di dire che anche l’Italia aveva avuto il suo campo di sterminio: poi non fa niente se i rastrellamenti erano eseguiti da soldati tedeschi, il campo era condotto dai tedeschi e gli ordini arrivavano da Berlino.
Vi spedisco questa mail perché tengo molto a che sappiate tutto questo e poi perché, se mai un insegnante vi chiedesse di portare a scuola una testimonianza su quel periodo, voi siate in grado di farlo.
Vi mando il saluto ebraico: Shalom (che vuol dire Pace)
nonno Anerio



“Trieste, nel 1944, era occupata dai tedeschi. Anzi, era più che occupata: dopo l’Armistizio era stata ufficialmente annessa la Terzo Reich. Facevamo parte della Grande Germania, così come l’Austria e la Cecoslovacchia. Formalmente la nostra capitale non era più Roma, ma Berlino.
Nel rione di San Sabba esisteva ancora, anche se in disuso, un vecchio stabilimento per la pilatura del riso, la cosiddetta Risiera, costruita e funzionante ai tempi dell’Austria, quando i miei nonni materni, Pepi e Maria, possedevano un trattoria in quei paraggi, frequentata specialmente dalle maestranze dello stabilimento.
Nel ’44 la trattoria, con annessa abitazione, era stata venduta già da tempo, e noi abitavamo in quel gruppo di case che danno inizio alla via Flavia, cioè un poco più distante ma pur sempre in vista della Risiera.
In particolare se ne vedeva l’alta ciminiera.
Credo che durante la guerra la Risiera sia stata utilizzata come caserma dai nostri soldati; sicuramente, dopo l’8 settembre, fu caserma per i soldati tedeschi, ma per poco, perché questi la trasformarono subito in carcere. Dapprima per i partigiani di Tito, cioè l’esercito jugoslavo; successivamente anche per i civili, avversari politici e semplici ebrei, soprattutto triestini.



Immagine della Risiera di San Sabba, oggi monumento nazionale, tratta da un opuscolo edito dal comune di Trieste

Ricordo che nel parlare che ne sentivo fare , a voce molto bassa, fra le pareti domestiche, gli ebrei erano i più nominati, perché erano concittadini, gente come noi; si parlava lo stesso dialetto; qualcuno era conosciuto in famiglia.
Un giorno di quella estate, avevo sei anni, ero in cortile e giocare con un gruppo di bambini che potevano avere dai sei ai dodici anni. Ad un tratto ricordo perfettamente uno dei più grandicelli dire, con voce concitata ma trattenuta dal timore: “Guardé, guardé! I brusa i ebrei!”. E indicava il camino della Risiera. Tutti noi restammo impietriti guardando nella stessa direzione, a quel fumo denso che saliva in cielo.
Ricordo quel gruppo di bambini imbambolati per un lungo istante, probabilmente intenti a dare una collocazione logica nella loro mente a un fatto così irreale. Io ero atterrito, l’esclamazione del ragazzino più grande mi aveva acceso l’immagine di persone vive gettate nel fuoco, come in certe raffigurazioni sacre fatte per spiegare l’inferno. Ero schiacciato dalla crudeltà della tortura e, insieme, dall’enormità del fatto che una rappresentazione fiabesca fosse diventata reale.
Ce ne furono molto altre, di fumate, in quel tempo. noi bambini continuammo a giocare in cortile guardando ogni tanto da quella parte, ma ognuno per conto proprio. Io ero sempre tristi per quei fatti, ma senza patire il contraccolpo drammatico della prima volta. Qualcuno mi aveva spiegato che gli ebrei non li buttavano nel fuoco vivi, ma dopo averli uccisi col gas, che dà una morte indolore.”


 ***

27 gennaio 2014
Cari ragazzi,
a proposito di Shoah, proprio in questi giorni sono avvenuti a Roma fatti che mostrano come la mala pianta dell’antisemitismo sia ancora lungi dall’essere appassita (1).
Anzi era già rinata da tempo, in varie nazioni, con le false (o forse vere, ma immeritate) vesti accademiche di sedicenti studiosi di storia che tentano di dimostrare che la Shoah è tutta un’invenzione, che non è vero che sei milioni di ebrei sono stati sterminati dai nazisti in Europa durante la seconda guerra mondiale.
Sono i cosiddetti negazionisti, per i quali si può solo sperare che non abbiano séguito perché “il sonno della ragione genera mostri”, come ha scritto il grande pittore spagnolo Francisco Goya in un suo famoso quadro.
Una precisazione sulla mia nail dell’altro giorno. Quando sostengo che non è lecito affermare che l’Italia ha avuto il suo campo di sterminio nella Risiera di San Sabba, perché in realtà si trattava di un campo tedesco, non voglio tacere le colpe dell’Italia nella persecuzione degli ebrei. Perché ne ha avute eccome. Basta pensare alle leggi razziali promulgate nel 1938, in forza delle quali gli alunni ebrei furono espulsi da tutte le scuole del Regno, dall’oggi al domani.
Non ne ho accennato perché ritengo che questo capitolo meriti una trattazione a sé, e infatti ne riparleremo in seguito.
Vi abbraccio
Nonno Anerio


NOTA
(1) A Roma, il 25 gennaio 2014,  furono provocatoriamente inviate teste di maiale alla Sinagoga, a una mostra sulla cultura ebraica e all'ambasciata di Israele. Molto probabilmente Anerio fa riferimento a questo episodio.
   

Article 1

27 GENNAIO 2017, "GIORNO DELLA MEMORIA" - VERDERIO RICORDA LA FAMIGLIA MILLA

SIGNORE E SIGNORI ... IL CIRCO! di Marco Bartesaghi

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Nel dicembre del 2011 si è fermato per alcuni giorni a Verderio il Circo Grioni.

Ho assistito a un suo spettacolo, scattando una serie di fotografie che vi presento























 
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IN MISSIONE A TRIESTE di Francesco Gnecchi Ruscone

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L'architetto Francesco Gnecchi Ruscone, nel periodo dell'occupazione tedesca dell'Italia settentrionale e della Repubblica Sociale Italiana, ha partecipato alla Resistenza come componente di "Nemo", missione appoggiata dai Servizi Segreti Inglesi, inquadrata nell'Esercito Regio e guidata da Emilio Elia (“Nemo”), capitano di corvetta della Regia Marina.

Nella missione Gnecchi ha avuto il compito di fare i rilievi delle fortificazioni tedesche in Veneto. Arrestato il 12 gennaio 1945, picchiato, torturato e infine condannato a morte per impiccagione, rimane in carcere fino alla fine di marzo. Nei giorni dell'insurrezione, partecipa alla liberazione di Milano.

Finita la guerra, con la resa tedesca in Italia, riceve l'incarico di entrare a Trieste con le truppe alleate, per inviare informazioni sulla situazione della città e, sopratutto, sulla sorte toccata a due membri della missione, Guido Tassan e Vittorio Strukel “Toio”: triestini, tornati alla loro città dopo la Liberazione, erano stati arrestati dai titini ed erano spariti.

Nel libro di Gnecchi, MISSIONE “NEMO”. Un'operazione segreta della Resistenza militare italiana 1944-1945, questo episodio è narrato da pagina 113 a pagina 116. Con il suo permesso, ve lo presento. M.B.


Francesco Gnecchi Ruscone, MISSIONE “NEMO”. Un'operazione segreta della Resistenza militare italiana 1944-1945, da pagina 113 a pagina 116.



Tornato alla sede della missione “Nemo”, il capitano De Haag mi ha informato che ero diventato un sottotenente provvisorio e mi ha consegnato dei capi di vestiario khaki, provenienti dai fondi di magazzino di chissà quanti e quali eserciti, con cui crearmi un'uniforme. Particolare sgradito un paio di pantaloni a sbuffo che sospettavo avessero appartenuto all'“Afrika Korps” di Rommel.

Abituato a non far domande sugli ordini ricevuti, mi sono rivestito e ho cominciato ad agire da sottotenente provvisorio. Ne ricevevo anche lo stipendio. Non ho mai sospettato fosse solo un travestimento nell'ambito delle attività della missione finché, dopo la guerra non ho scoperto che di questa mia promozione e carriera non c'è alcuna traccia nei miei documenti militari.

I miei ordini erano di andare a Monfalcone e aggregarmi, come ufficiale di collegamento, a un battaglione neozelandese che doveva entrare a Trieste. Ci sarei entrato con loro; come militare italiano non mi era permesso.

Guido Tassan e “Toio” Strukel, i miei due compagni della maglia di Vicenza della missione, che erano tornati alle loro case di Trieste dopo la resa tedesca, erano stati arrestati dalla polizia di Tito ed erano spariti.

Questo era grave ed allarmante: gli jugoslavi avevano dichiarato apertamente l'intenzione di annettersi tutte le province della Venezia Giulia fino all'Isonzo e anche oltre, e avevano iniziato in tutti i territori dove erano riusciti ad arrivare prima dell'8ª armata una durissima campagna di maltrattamenti e intimidazioni sulla popolazione italiana.

Adesso si chiama “pulizia etnica” ma anche allora era una vicenda sordida e sanguinosa.

Uccisioni e sparizioni degli italiani più in vista erano frequentissime ed erano giustificate agli Alleati come esecuzioni di fascisti o rappresaglie spontanee incontrollabili, vendette per l'occupazione italiana della Jugoslavia dal 1941 al 1943.

Naturalmente queste spiegazioni non potevano valere per Guido e “Toio”. Il loro inoppugnabile passato li rendeva la negazione di quelle teorie e quindi testimoni da eliminare.

Io dovevo scoprire non solo cosa era a loro accaduto e se possibile far qualcosa per loro, ma anche monitorare la sitiazione generale a Trieste e farne rapporto con regolari viaggi a Milano. Questa volta non potevamo usare operatori radio.

Dopo qualche giorno di incertezza a Monfalcone, il battaglione ha avuto l'ordine di entrate a Trieste, da dove gli iugoslavi avevano accettato di ritirare almeno i loro reparti regolari.

Non volevo entrare a Trieste vestito da Alleato purchessia, così a Monfalcone ho requisito un cappello da alpino, completo di penna d'aquila, al quale non avevo alcun diritto, non avendo mai servito in quel corpo. Mi pareva doveroso mostrare ai triestini che ero italiano.

Mi ha comunque reso molto popolare.

[ …]

A Trieste i miei compiti erano uno più frustrante dell'altro. Di Guido Tassan e “Toio” Strukel siamo solo riusciti a sapere che erano ancora vivi, ma deportati in campi di concentramento in Croazia interna ove le condizioni rivaleggiavano con quelle dei Lager tedeschi. Ci sono rimasti per due anni dopo la fine della guerra. Guido, più forte, ha potuto riprendere una vita normale, “Toio” è sopravvissuto pochi anni dentro e fuori da ospedali.


Uno scorcio di Trieste in una cartolina


Il quadro politico generale diventava comunque prevalente sulla situazione locale: stava prendendo corpo, proprio lì a Trieste, la “Cortina di Ferro”. Il mio compito ormai consisteva nel distribuire messaggi chiusi a sconosciuti, organizzare riunioni a cui non avrei partecipato e portare a Milano notizie che erano sempre più di dominio pubblico.

Ora la mia vita era certo più comoda e meno rischiosa del periodo delle mie pedalate invernali e dei miei rilevamenti di trincee tedesche , ma mi trovavo spesso a rimpiangere la chiarezza di intenti e di relazione tra le mie azioni e i loro effetti e l'unione con i compagni di lotta di quei mesi passati.

La gerra era finita, era diventata politica. Non era più per me.

[ … ]

In quei giorni anche la mia missione a Trieste si è conclusa e mi sono trovato a dover pensare a cosa fare dopo. Da un lato mi sembrava di essere troppo vecchio per tornare sui banchi di una scuola, sia pure del Politecnico, dall'altro era evidente che la mia vita degli ultimi due anni era un capitolo chiuso.

Per fortuna la saggezza ha prevalso e sono tornato al Politecnico.

 ***


Quando mi sono rivolto all'architetto Francesco Gnecchi Ruscone, per chiedergli il permesso di pubblicare questa pagina del suo libro su Nemo, spiegandogli che l'aggiornamento del blog in programma sarebbe stato in gran parte dedicato al tema dei profughi giuliani, mi ha segnalato un brano di un altro suo libro, Storie di Architettura, in cui si parla di questo argomento.
Egli infatti, aveva collaborato negli anni cinquanta del novecento con l'ente UNRRA CASAS, diretta da Adriano Olivetti, che si era occupato, nel nord ovest della Sardegna,  del recupero del borgo Fertilia per l'accoglienza dei profughi dall'Istria e dalla Dalmazia.





Francesco Gnecchi Ruscone, STORIE DI ARCHITETTURA, Conversazione con Adine Gavazzi, pagine 236 e 237

Un problema particolare era costituito dal borgo di Fertilia: iniziato negli anni '30 come parte di una velleitaria, mai realmente avviata, bonifica della Nurra, era stata trasformata durante la guerra in caserme e depositi per l'Aeronautica, che, dove ora sorge l'aeroporto di Alghero, aveva la sua base per quella che avrebbe dovuto essere la difesa dell'Alto Tirreno. Abbandonato e vandalizzato dopo l'armistizio, il borgo era ridotto a poco più che rovine. La proposta di restaurarlo e completarlo per destinarlo ai profughi dell'Istria e della Dalmazia, che alla cessione di quelle terre alla Jugoslavia avevano dovuto emigrare, aveva trovato il pronto consenso del governo e i necessari finanziamenti. Molti di loro erano pescatori o comunque gente di mare e il progetto comprendeva anche aiuti alle cooperative per l'acquisto della barche e di quanto era necessario a un nuovo avvio.
Così il fortunato incontro del patriottismo che abbiamo trovato tra i sardi, espresso come “spirito di servizio”, con la determinazione, iniziativa e laboriosità dei giuliani, ha prodotto quello che è risultato l'intervento di maggior successo dell'UNRRA CASAS olivettiana.
Qualche anno fa, capitato a Fertilia come turista, ho potuto constatare che la lingua ufficiale locale era ancora il triestino. Carpinteri e Faraguna (1) avrebbero potuto ambientare lì qualcuno dei loro bellissimi racconti.
 

NOTA
(1)  "Carpinteri & Faraguna sono una coppia di giornalisti, scrittori e commediografi dialettali italiani di origine triestina Lino Carpinteri (Trieste 1924 - Trieste 2013) e Mariano Faraguna (Trieste 1924 - Trieste 2001).
La maggior parte delle loro opere è ambientata in una regione, più ideale che reale, incontro delle culture mitteleuropee ed adriatiche che va da Trieste all'alta Dalmazia (comprendendo Istria e Quarnero). L'epoca storica è spesso quella della dominazione austro-ungarica (vista come epoca "felix") vissuta da personaggi con forte connotazione locale e popolare. La lingua utilizzata è il cosiddetto istro-veneto: più che un dialetto, una "lingua franca" su base veneta con numerosissime influenze slave e tedesche, ma perfino turche ed arabe (e latine, come del resto il dialetto triestino appartenente alla lingua veneta)".
https://it.wikipedia.org/wiki/Carpinteri_%26_Faraguna




ANERIO E GIGLIOLA, UNA FAMIGLIA NATA IN CAMPO PROFUGHI di Roberto Muzio e Marco Bartesaghi

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Per alcuni anni Giuseppina Gigliola Uicich e il marito Anerio Villani hanno vissuto da italiani profughi in Italia. Lei, classe 1937, proveniva da Fiume, che dal 10 febbraio 1947 era entrata a far parte della Jugoslavia. Lui, triestino, era partito dalla sua città natale insieme alla mamma, nel 1945, quando già le truppe titine avevano lasciato la città in mano a quelle anglo-americane. La sua vicenda è quindi abbastanza particolare.
Per farmi raccontare la loro storia li incontro nella casa di Merate dove abitano. Con me c’è Roberto Muzio, l’amico che me li ha fatti conoscere. Sono le sei di sera e, solo a fatica, riusciremo a smettere di parlare verso le otto. Ho una lista di domande, per cercare di seguire un certo ordine , ma alla fine non la uso. Il racconto si fa strada da solo e le domande, mie e di Roberto, sorgono solo quando se ne sente la necessità.
 

Attacco io: “So di un carabiniere  che, in servizio in Istria da prima della guerra, aveva sposato una donna del posto e avuto dei figli. Dopo l’occupazione da parte dei partigiani di Tito, intuendo il pericolo, con tutta la famiglia, compresi i suoceri, era tornato al suo paese d’origine, Verderio”.

Anerio (A) Uno dei flash di quei tempi che ho nella  mente  è quello dei tre carabinieri che i titini hanno ammazzato a Piedimonte di Taiano, nell’Istria dell’interno. Mi ricordo che se ne parlava, dei tre carabinieri di Piedimonte, me ne ricordo anche se allora ero un bambino.
Io sono di Trieste, quindi formalmente non sono un profugo dall’Istria. In città la guerra è finita il 12 giugno 1945, quando sono andati via i titini e sono arrivati, con le navi, gli angloamericani. In agosto io e mia mamma siamo partiti.
 

Domanda (D) Solo lei e sua mamma?

(A) Sì, ero orfano: mio padre, Gianni Villani, era morto nel 1938, quando avevo cinque mesi. Mia madre aveva voluto andar via da Trieste anche per questo fatto, per le traversie che aveva avuto; forse aveva  anche paura, ma non so bene di  cosa. In più aveva anche un certo spirito d’avventura.
 





Gianni Villani, papà di Anerio, prima del suo trasferimento a Trieste. Nella foto sopra è portiere della squadra di calcio. In quella sotto, scattata a La Spezia nel 1926, è il primo da destra.

TRIESTE DALL'OCCUPAZIONE TITINA ALL'ARRIVO DEGLI AMERICANI


(D) Siete stati spinti ad andar via o è stata una vostra libera scelta?
 

(A)È stata una scelta della mamma, anche perché “il brutto” ormai era passato: i titini se n'erano  andati ed erano arrivati gli angloamericani. Il periodo, durato 43 giorni , in cui gli uomini di Tito sono stati in città, penso sia stato il peggiore per Trieste.

(D) Cosa è successo in quei 43 giorni?
 

(A) Cosa è successo? Nel comune di Trieste ci sono due foibe: la foiba di Basovizza, un sobborgo di Trieste, quella maggiore, la più conosciuta, e la foiba di Opicina, sempre sul Carso perché è sul Carso che queste cose si trovano. Queste due foibe furono utilizzate per far sparire  persone.
 

(D) Chi è finito nelle due foibe di Trieste?
 

(A) Quelli che erano considerati nemici … niente di ufficiale. Ci andavano quelli di cui qualcuno aveva magari detto: “Quello lì lo conosco, era un fascista …”. Bastava questo, erano vendette personali.
 

(D) Ci sono state, fra le vittime delle foibe, persone conosciute dalla vostra famiglia?
 

(A) Sì, c’erano persone che la mia famiglia conosceva sia fra gli infoibati, sia fra gli ebrei scomparsi nella Risiera. Perché i titini hanno lasciato in ricordo le foibe, mentre i tedeschi avevano lasciato l’eredità della Risiera di San Sabba, quella che tanti chiamano il campo di sterminio italiano, ma che non è giusto chiamarlo così, perché era un campo  tedesco.
 

(D) Più giusto dire “campo di sterminio in Italia”?
 

(A) No, perché dopo l’8 settembre 1943, Trieste non faceva più parte dell'Italia, bensì della Germania.

(D) Lei era un bambino, quanti anni aveva?
 

(A) Sono nato nel 1938, nel ’45 avevo 7 anni.


Anerio con la mamma Vida, a Trieste in piazza Unità, e con il nonno Giuseppe a Muggia.





(D) Perciò di questi fatti ha anche ricordi propri, non solo per aver ascoltato i racconti dei grandi?
 

(A) I ricordi dei bambini sono come dei flash. Mi ricordo di due serate: una  “rossa” e una “bianca”. La serata rossa è quella del 30 aprile 1945. La città era ancora sotto coprifuoco. Tramontato il sole, tutto era spento. Poi, lungo il ciglio del Carso, che sovrasta Trieste, si è visto un bagliore rosso. Erano i fuochi degli accampamenti dei titini. Il giorno dopo, il primo maggio, sono calati e si sono impossessati di Trieste.
 

(D) Ce lo si aspettava?
 

(A) Sì e no. Sa, la guerra, soprattutto negli ultimi tempi, era di movimento: truppe che si spostavano, che andavano, che venivano. Però si temeva che sarebbe successo.
 

(D) Quindi il primo maggio entrano i titini e i tedeschi se ne vanno …
 

(A) Se ne vanno dopo qualche scaramuccia e qualche tentativo di resistenza qua e là  … Lo stesso giorno da Monfalcone arrivano le prime camionette dell’ottava armata inglese. Erano  avanguardie neozelandesi, arrivano con le loro jeep fino a Barcola.
 

(D) Barcola?
 

(A) E’ un rione di Trieste, dalla parte di Monfalcone, sul mare. Quel giorno era stata una corsa verso Trieste: degli inglesi, che avevano risalito la costa adriatica, e dei titini, che erano scesi dall’interno dell’Istria. Sono arrivati insieme, soltanto che i neozelandesi sono arrivati con due o tre ieep, solo una punta di diamante, mentre i titini con i carri armati. A questo punto i neozelandesi hanno fatto marcia indietro, sono tornati a Monfalcone e lì hanno tirato il confine del territorio libero di Trieste. Le truppe di Tito invece sono entrate in città e sono rimaste fino al 12  giugno. L'hanno lasciata solo grazie alle pressioni di Churchill, a cui non  “comodava” che Tito mantenesse questa posizione strategica.
 

 
Carri armati iugoslavi nelle vie di Trieste



(D) Quindi i titini si sono ritirati in accordo con gli alleati...
 

(A) Se ne sono andati per accordi politici “fra alleati”, perché anche loro erano alleati. Comunque sì, non c'è stata un' azioni bellica.
Quella sera, quando è calato il sole e Trieste era al buio, s’è visto un chiarore bianco venire dal porto. Erano le luci delle navi americane (1).
 

(D) La “serata bianca”, quindi, dopo quella “rossa” dei fuochi titini …
 

(A) Sì, ho questo ricordo visivo. Noi abitavamo in piazzale Valmaura,  dove allora c’era (e c'è ancora) lo stadio. Per arrivare al porto bisognava superare un paio di colline. A ogni finestra c'era gente che gridava “Viva i liberatori!!Viva i liberatori!!” tanta era la gioia perché quelli se ne fossero andati. Era stata proprio una cattiva esperienza.

VIA DA TRIESTE, CON LA MAMMA, IN CERCA DI UNA NUOVA VITA

(D) A questo punto però voi, lei e sua mamma, siete partiti. Perché?
 

(A) La mamma voleva partire per vedere se c’era la possibilità di iniziare qualche tipo di attività, qualche commercio. Era molto attratta dalla città di Milano, dove però non siamo arrivati direttamente. Siamo prima andati fino in fondo all’Italia, a Barletta. Lei pensava che il business dell’olio d’oliva potesse offrire delle opportunità. Pensava di farlo arrivare a Trieste e lì rivenderlo per mezzo dei fratelli.
 

(D) Uno spirito di iniziativa e imprenditoriale notevole, perché in quei momenti, per una donna con un bambino muoversi così autonomamente non doveva certo essere facile.
A Trieste non siete più tornati ad abitare, ma, alla partenza, questa possibilità era contemplata?

(A) No, escluderei che mia madre avesse qualunque intenzione di ritornare a Trieste. Aveva paura della situazione di provvisorietà in cui si trovava la nostra città.


(D) Come si chiamava sua mamma?
 

(A) Si chiamava Vida. E di cognome Franco, italianizzato da Francovich. I nomi in “ic” si usa scriverli con “ch” finale.
 

(D) Lei invece di cognome è Villani ...
 

(A) Sì, Villani. Mio padre era toscano.
 

La famiglia Villani: Gianni, a sinistra, con il padre, la sorella e la seconda moglie del padre.


(D) Invece sua madre era slovena?
 

(A) No, mia madre, come tutta la sua famiglia, era di Trieste. Però abitavano nella parte della città verso i paesi di lingua slovena. A casa dei miei nonni materni si parlava sia italiano che sloveno, o meglio, si parlavano due dialetti: il triestino italiano e il triestino sloveno. L'uno o l’altro, a seconda degli argomenti o delle persone che avevano di fronte. 

Il nonno Giuseppe Francovich con la divisa austroungarica

Poi parlavano sloveno se non volevano farsi capire da me, ma io, che ero cresciuto fin dall’età zero con loro, capivo tutto. La nostra regione, quella che poi è stata chiamata la Venezia Giulia (un nome “culturale” inventato dopo la prima guerra mondiale), è un territorio caratterizzato dall’incrocio di popolazioni, soprattutto le tre grandi radici: italiani, slavi e tedeschi. Gli slavi, inoltre, potevano essere sloveni, croati o anche altri slavi più meridionali (ma non tanti). Poi c’erano molti levantini: libanesi, greci, turchi. Ed ebrei, molti ebrei c’erano a Trieste. A metà ottocento è stata la città europea che, in proporzione alla popolazione, ospitava più ebrei : non ricordo più  se questa proporzione fosse il 5 o il 15 %. Era una zona cosmopolita, fatta di ideali transnazionali di ricerca di pace.
E allora tante volte quando mi chiedono ma voi cosa siete sloveni? slavi? italiani? Siamo tutto …


Giuseppe Francovich con la moglie Maria, nonni materni di Anerio
(D) Siete triestini insomma … Però il sogno di sua mamma di aprire una propria attività non si è avverato. Perché?
 

(A) Perché le hanno rubato la borsetta con i soldi, tutto quello che avevamo: siamo rimasti a terra. Allora tutti ci dicevano “ma voi siete di quelle parti, perché non vi unite a questi?” , intendendo i profughi istriani. Allora ci siamo aggregati ai profughi e siamo sempre vissuti con loro. Io e mia moglie ci siamo conosciuti nel campo profughi di Monza, che era in villa Reale.

LA FAMIGLIA UICICH E LA DIFFICILE SCELTA DI LASCIARE FIUME

Giuseppina Gigliola (G) Io e la mia famiglia siamo partiti nel 1951. Prima siamo stati a Trieste, poi a Udine; da Udine ci hanno trasferito a L’Aquila e da qui a Monza, alla villa Reale.
 

(D) Precisamente da quale città siete venuti via?
 

(G) Abitavamo a Fiume, anche se io sono nata in una cittadina a una decina di chilometri di distanza, Matuglie, dove il papà lavorava. Siamo stati a Mattuglie anche durante la guerra, sfollati. Dopo la guerra però siamo tornati a Fiume.
 

(D) Siete partiti nel 1951, quindi non subito dopo la guerra. Come mai?
 

(G) Quando c'era stata la possibilità di scegliere se restare lì o andare in Italia, papà non aveva voluto andar via, perché era troppo legato alla sua città, a Fiume (2).
 

 
FIUME, Corso Vittorio Emanuele II

(D) Dopo però ci ha ripensato ...
 

(G) I titini – che noi chiamavamo i “drusi” - organizzavano spesso manifestazioni, ad esempio quando veniva Tito a Fiume. Per parteciparvi arrivava gente da tutti i paesi. Mio papà faceva il camionista e trasportava le persone alle manifestazioni. Una volta ha avuto un incidente. Qualcuno, che non gli voleva bene, ha detto che aveva fatto apposta, perché era contrario a Tito. E’ stato processato e condannato. Anzi, quando è arrivato al processo era già stato condannato. Nove mesi di carcere duro. Tornato a casa, ha detto basta, non ha più voluto stare in città e siamo partiti.
 

(D) Come si chiamava suo papà?
 

(G) Giuseppe, Giuseppe  Uicich. Lui era rimasto deluso perché Fiume era la sua città, dove era nato, non sarebbe mai andato via. Tutti i suoi parenti erano già partiti. Quando c’era stata la possibilità di scegliere,  chi si considerava italiano in genere andava via. Lui no.
Papà guidava le autocisterne della Esso. Finita la guerra la ditta gli aveva offerto di fare lo stesso lavoro in Italia, ma lui aveva rinunciato. Si era licenziato, aveva preso la liquidazione, ed era andato avanti a fare il suo mestiere …
 

(D) Per conto proprio?
 

(G) No, lavorava per qualche ditta, non so quale…
 

(A) Guidava le autocisterne per il trasporto di petrolio. Mi ricordo che una delle ditte per cui trasportava era la Lampo.
 

(G) Sì, è vero, infatti era soprannominato “Lampo”: Giuseppe, detto Pepi, detto Pepi Lampo.

Giuseppe Uicich alla guida di un camion della "Standard Oil", l'azienda che poi diventerà la Esso
(D) La sua famiglia come era composta?
 

(G) Papà, mamma e tre sorelle. Mia mamma si chiamava Maria Cressevich. Era nata a Racize, un paesino sloveno a metà strada fra Trieste e Fiume. Dopo Racize c'è Starad, il paese di origine dei genitori di mio papà, sempre in Slovenia.
 

(A) La lingua materna di mia suocera infatti era  lo sloveno.
 

(G) Sì mia mamma parlava lo sloveno. Poi, trasferendosi a Fiume da ragazza, ha imparato il dialetto italiano di Fiume e parlava questa lingua quando io e mia sorella siamo nate. Venuta in Italia,  ha imparato l’italiano, soprattutto grazie alla televisione. Mio papà invece non ha mai voluto parlare né sloveno né croato: soltanto italiano. Lui disprezzava anche il fatto che mia mamma fosse di Racize, ma anche la sua di mamma era slovena. Però lui era fiumano.
 

(D) Cosa ricorda della sua infanzia a Fiume?
 

(G) Ricordo che per alcuni anni avevamo frequentato la scuola italiana. Dopo, però, le avevano chiuse. Anche perché eravamo rimasti in pochi. Tantissime famiglie erano già andate via.
Mi ricordo che con la scuola, quando arrivava Tito, si facevano i cori , i cori dei bambini. Poi andavamo a fare la “ricostruzione”. Per noi bambini era divertente.
 

Maria Cressevich con le tre figlie. Gigliola è la prima a destra
(A) Un po’ come in Italia sotto il fascismo, quando c’erano i balilla: noi facevamo il sabato dentro gli stadi o nelle piazze e con Tito era lo stesso: è la natura dei regimi autoritari.
 

(G) Ma quante cose brutte abbiamo anche visto durante la guerra, anche se eravamo bambine piccole.
Mi ricordo quando c’erano i bombardamenti, mamma mia, che roba. Scappavamo nei rifugi.
Poi, quando c'è stata la ritirata dei tedeschi, tanti erano stati fatti prigionieri. Noi bambini li vedevano dalla finestra che dava sul cortile e allora erano loro che ci facevano pena, anche se prima, quando erano gli occupanti, ci avevano fatto tanta paura. Pensi che una volta erano venuti in casa a cercare il papà. Lui non si era arruolato, perché era un tipo un po’ anarchico, non voleva. Era scappato sul tetto e noi bambine eravamo rimaste lì con la mamma. Sono arrivati i tedeschi e ci volevano fucilare. Allora il papà è tornato, l’hanno portato via e ha dovuto lavorare per loro.
 

(D) Però, da prigionieri vi facevano pena, come mai?
 

(G) Erano lì seduti, avevano sete, erano affamati e li trattavano male. Anche alla gente facevano pena e volevano portargli un po’ d’acqua, un po’ di cose, ma non ti lasciavano.
Una volta ho visto che uno voleva saltar su un camion e l'hanno fucilato, mamma mia, in strada.
Invece, finita la guerra, ricordo che portavano via quelli che erano stati fascisti, anche quelli che non avevano mai fatto niente di male. Ricordo di un nostro vicino di casa una, brava persona: l’hanno portato via e non si è più saputo niente. Tante persone che i miei genitori conoscevano, mi hanno raccontato, le hanno portate via. Ma brave persone, che erano state fasciste, sì, ma erano anche brava gente, non erano di quelli che …. E dopo si parlava, la gente raccontava: “quello lì non è più tornato”.
 

(D) Quando avete saputo delle foibe?
 

(G) A Fiume  non ne avevamo mai sentito parlare. L'abbiamo saputo quando siamo arrivati a Trieste.
 

(A) A Trieste delle foibe s’era saputo già durante l’occupazione titina. Mi ricordo mia zia Egidia arrivare a casa piangente e dire  “Li legano! Li legano! con il filo spinato e li buttano giù“ .
 

(D) Quindi a Fiume sapevate che un certo numero di persone italiane erano state portate via e non erano più tornate. Ma solo quelli che erano in qualche modo stati fascisti o anche altri solo perché italiani?
 

(G) No, solo quelli che erano stati fascisti, gli altri no. Che avevano collaborato con i tedeschi, altrimenti no.
 

(D) Quindi le famiglie italiane di Fiume che erano partite lo avevano fatto perché non gli andava bene il regime che si stava instaurando?
 

(G) Sì, è così.
 

(D) Sono partite alla spicciolata o in modo massiccio, organizzato?
 

(G) Andavano via da sole o a gruppi . Quando decidevano, vendevano tutto e partivano.
 

(A) Non c’è stato un esodo organizzato come da Pola, con la nave Toscana, nel ’47, no, no. Poi dipendeva anche da quando arrivavano i titini. Quando io e mia mamma siamo arrivati a Milano in campo profughi, nell’autunno del 1945, abbiamo trovato gli zaratini, che erano già lì da un paio d’anni, dal 1943, perché la loro città era stata occupata prima.
 

(D) Prima della guerra, com'era composta la popolazione di Fiume: qual era la proporzione fra italiani e sloveni?
 

(G) Difficile da dire , non lo so …
 

(D) I rapporti fra le diverse comunità erano buoni? Come a Trieste?
 

(G) Sì, normali.
 

(A) Finché non hanno preso troppo piede i nazionalismi, il prodotto del movimento romantico degli inizi dell’ottocento, che, in quel secolo, aveva dato l'avvio alle rivoluzioni nazionali in tutta d’Europa, compresa l'Italia.
Questo senso della nazione, quando degenera, fa si che le nazioni degli altri non siano più considerate entità uguali alla propria, con le quali si può parlare, convivere: diventano il nemico. Ciò ha portato, purtroppo, a due guerre mondiali catastrofiche.
 

(D) Ed è anche quello che è successo in Jugoslavia negli anni novanta.
 

(A) Eh sì, anche in quel caso la causa sono stati i nazionalismi interni che non si sono più sopportati tra di loro.
 

(D) Mentre a Fiume, avete detto, prima della guerra le due comunità convivevano tranquillamente.
 

(G) Sì,sì.
 

(D) C’erano amicizie e anche matrimoni misti?
 

(G) Certo, anche mia mamma era slovena.
 

(D) Lei parla lo sloveno?
 

(G) No, anche se qualcosa a scuola avevamo studiato, come lingua straniera. Ora ricordo solo qualche parola. Però quando vivevamo a Matuglie, sfollati, con gli altri bambini parlavamo croato, tant'è che, tornati a Fiume, non sapevamo più parlare il fiumano.

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1951, LA PARTENZA DA FIUME

(D) Nel 1951 partite. Come?
 

(G) In treno. Con noi era venuta via anche la nonna, la mamma di mio papà, l’unica che c’era rimasta.
 

(D) E dopo ha fatto tutti i trasferimenti con voi?
 

(G) No. Aveva un’altra figlia, mia zia, che a Fiume lavorava alla Fabbrica Tabacchi e in Italia aveva trovato lavoro alle Manifatture Tabacchi di Genova. Allora la nonna si è trasferita da lei.
 

(A) Molte persone che lavoravano alla fabbrica tabacchi di Fiume sono state assunte a Genova come sua zia. Sua mamma invece, che a  Fiume lavorava al silurificio, in Italia non ha potuto trovare un posto simile nel quale lavorare.
 

(D) Silurificio, nel senso proprio che costruivano i siluri?
 

(A) Sì, sì. Abbiamo conosciuto una persona a Mandello, un signore che custodiva  le barche, che durante la guerra operava sui sommergibili. Lui ci ha raccontato che per fare i rifornimenti di siluri andavano a Fiume.
 

Fiume - la Manifattura Tabacchi
(G) Mia mamma, quando papà era in prigione, aveva lavorato al silurificio.
 

(D) Partendo in treno, come avete fatto a trasportare le vostre cose?
 

(G) Allora eravamo poveri, non avevamo granché. Qualcosa la mamma aveva venduto: la macchina da cucire, la camera da letto, ...
 

(A) Non c’era possibilità di portar via le cose, perché non si sapeva dove si andava.
 

(D) Con quale meta siete partiti?
 

(G) Ci siamo diretti al campo profughi di Udine, dove c’era lo smistamento.
 

(D) A Fiume esisteva un’organizzazione a cui rivolgersi per sapere dove andare un volta partiti?
 

(G) No, no, non c’era niente. C’era il passaparola di quelli che erano andati via prima.
A Udine  ci siamo fermati poco. Da lì ci hanno mandati a L’Aquila , dove siamo stati due anni, dal '51 al '53; poi siamo venuti a Monza dal '53 al '55. Dopo ci hanno assegnato un appartamento a Milano.
 

(D) Parliamo dei campi: com'erano, come ci si viveva?
 

(G) A L’Aquila il campo era sopra la città, una località chiamata Roio Pineta, in una colonia estiva del Nord Italia. Gli spazi delle famiglie erano separati da tende. Per noi ragazzini era quasi un gioco, eravamo anche contenti. Ma pensi per gli adulti.
 

Campo profughi de L'Aquila - Foto di gruppo

Campo profughi de l'Aquila - Prima Comunione
(D) Per cucinare come facevate?
 

(G) Chi voleva poteva cucinare per conto proprio, ma c'era anche una mensa comune, per chi lo preferiva. Poi ci siamo trasferiti a Monza...
 

AL CAMPO PROFUGHI DI MONZA E POI, FINALMENTE, UNA CASA A MILANO

(D) Dove voi vi siete conosciuti ...

(A) Sì. Ma prima di arrivare a Monza io e mia mamma eravamo stati a Milano.
 



22 maggio 1946 - Fronte e retro di uan fotografia della Prima Comunione della Cresima presso il campo profughi di via Veglia a Milano
 
(D) Dov’era, a Milano, il campo profughi?
 

(A) Siamo stati in più di uno. Prima nella caserma Bergamaschi (3), non ricordo in che zona , ero ancora piccolo. Poi alle scuole elementari di via Veglia, dalle parti di piazzale Istria: metà dell’edificio era rimasto per la scuola, l’altra metà per noi. Da lì ci hanno spostato in un’altra scuola elementare, quella di via Palmieri, in fondo a Porta Ticinese. Da via Palmieri ci hanno trasferiti a Monza.
 

 
Classe 1a media a Milano. Anerio è il ragazzo in centro della fila in piedi.

(D) In Villa Reale …
 

(A) Nelle scuderie, là dove adesso c’è la scuola d’arte. Con pannelli di legno, erano stati ricavati dei cubicoli, in ognuno dei quali abitava una famiglia ...
 

(G) Era un po’ meglio della suddivisione con le tende, ma comunque si sentiva tutto: quando papà e mamma litigavano lo sapevano tutti.
 

(A) I cubicoli erano più o meno grandi a seconda della composizione della famiglia. Per dormire c’erano letti a castello a due piani, così si stava in tanti in poco spazio.
 

(G) A Monza siamo stati fino al 1955, poi ci hanno assegnato un appartamento a Milano, in via Inganni, dalle parti di Baggio, una zona di condomini nuovi. Uno di questi condomini era stato destinato ai profughi.
 

(D) Anche lei e sua mamma vi trasferiste lì?
 

(A) No, mia mamma lavorava all'aeronautica militare, all'aeroporto Forlanini. Come impiegata statale le assegnarono un appartamento INA, in zona San Siro.
 

(D) Suo papà aveva continuato a fare il camionista?
 

(G) No, aveva trovato posto come operaio in una fabbrica di vernici, a Villasanta. Noi sorelle eravamo andate a scuola e poi anche noi avevamo trovato lavoro.
 

(D) Lei cosa ha fatto una volta diventato “grande”?
 

(A) Ho fatto il liceo scientifico. Poi ho tentato l’università, al Politecnico, ingegneria. Però ho avuto traversie di salute, e non ho finito. Poi ho saputo dell’IBM, mi è piaciuta. Mi hanno assunto e ci sono stato fino alla pensione.
 

(G) Da Milano ci siamo trasferiti a Merate, e ci siamo trovati bene. Anche se per me all’inizio, l’idea di andar via da Milano, mamma mia …
Per il lavoro all’IBM, Siamo stati anche in America, due anni una prima volta e un anno la seconda. La prima volta siamo partiti con un figlio di 4 mesi e siamo tornati con due figli.
 

(D) Come profughi ricevevate dei sussidi dallo stato?
 

La cucina della mensa del campo profughi de L'Aquila. Maria, la mamma di Gigliola, è la signora in centro
(G) Sì. Si aveva diritto a un sussidio finché il capofamiglia non trovava lavoro. L’entità del sussidio era legata anche al fatto che la famiglia cucinasse da sola o usufruisse della mensa.





(A)  Mia madre trovò subito lavoro e il problema per noi non si pose. Per la verità, i primi giorni a Milano, nell'autunno del '45, non avevamo neanche i soldi per il cibo, ma quello era un tempo in cui molti si trovavano nelle nostre condizioni, e allora il Comune aveva istituito una serie di mense comunali (nei campi profughi invece non c'erano) in varie zona della città, nelle quali tutti potevano trovare un piatto caldo. Una di queste mense si trovava in piazzale Maciachini, e a questa andavamo noi di via Veglia 80. Due volte al giorno, a pranzo e a cena. Poi, come la manna dal cielo, arrivò il lavoro.


(G) A Milano lo trovavi subito lavoro. A L’Aquila era più difficile: la mamma andava a fare i servizi in qualche casa e lavorava alla mensa del campo. Lì era più difficile trovar lavoro, anche perché eravamo isolati. Anche per andare a scuola ci portavano con i camion. C’era anche tanta neve d’inverno … però era bello.
 


“Però era bello”. Questa frase, la signora Gigliola quasi la sussurra. Non sono capace, mi dispiace, di trasmettervi la tenerezza e la malinconia con le quali la pronuncia.


I SEGNI LASCIATI DA QUESTA ESPERIENZA

(D) Cosa del vostro carattere è frutto di quell’esperienza? Rabbia, rancore sono sentimenti che avete provato e che magari provate ancora verso qualcuno?
 

(G) Be, un po’ sì. Un po’ di rancore sì. Anche perché quando vedi le nostre belle città, ti dispiace averle perse.
 

(A) Poi anche a pensare a tutti quegli ammazzamenti. Una parola sola: le foibe. Le foibe non si possono dimenticare, si frappongono sempre fra me e qualcuno che arriva qui da Zagabria, da Lubiana o da un’altra di quelle città. È un macigno. E mi dispiace perché, proprio per il fatto di essere triestino, io nasco cosmopolita. Ad esempio sono un tifoso dell’Europa. A me dispiace che ci si sia fermati all’euro e non si sia  andati avanti a fare l’unione politica. Mi dispiace tantissimo. Per questo stesso motivo non mi è dispiaciuto tanto che l’Inghilterra si sia tolta dall’Europa. Sono sicuro che con gli inglesi dentro non avremmo mai fatto l’unione  politica, perché loro non avrebbero mai abdicato alla loro individualità per diventare europei.
 

(D) Quindi, per lei c’è più possibilità adesso di quanta ce ne fosse con dentro la Gran Bretagna?
 

(A) Sì, ne sono convinto spero che si vada avanti in questa direzione, e che si superi l'ondata dei partiti antieuropei che sta scuotendo tante nazioni.
Per questo motivo mi dispiace che dentro di me esista un qualcosa che non so come definire: un astio, una freddezza. Ecco, sì, una freddezza diciamo verso tutti quelli che arrivano da lì.
 

(D) Ha mai parlato con qualcuno di loro?
 

(A) Sì, certo … Ma quando parli con qualcuno è come parlare con un vicino di casa. È difficile da spiegare ma questo senso di freddezza, di separatezza lo provo verso la popolazione nel suo insieme. Non c’è invece se parlo con una sola persona. Un singolo non è un nemico, non è mai un nemico se lo conosci. Più gente conosci e meno nemici hai. È difficile da spiegare-
 


Eppure mi sembra di capire. Conoscevo una signora ebrea, ex deportata, papà ucciso ad Auschwitz, che con il popolo tedesco era terribile, non era disposta a concedergli niente, neanche a riconoscere il percorso fatto nel dopoguerra per comprendere il male commesso. Anche nelle sue dichiarazioni pubbliche, parlando dei tedeschi era, a mio avviso, esagerata. Casualmente conobbe una signora tedesca che si commosse sinceramente al racconto della sua storia, e ne divenne amica. Malignamente glielo feci notare ma lei, candida disse: “ma cosa c’entra, lei è una brava persona”
 

(A) Sono contento perché ci siamo capiti. Più gente conosci e meno nemici incontri, qualcuno aveva detto.
Per restare in tema di sentimenti devo dire che io ho molto sofferto, da piccolo, ma anche quando ero già più cresciuto, di essere stato strappato via da Trieste, a sette anni. Volevo restare lì e poi avrei voluto tornarci. Poi ti sposi, cominci ad avere i figli e allora trasferisci i legami. Però fino a quel momento ho sofferto molto il distacco.


RITORNO A TRIESTE E FIUME

(D)Che rapporti sono rimasti con il mondo che avevate lasciato: lei con Fiume…E’ tornata o no?   
 

(G) A Fiume sono tornata ma solo di passaggio.
 

(D) Non ha conoscenti? Parenti?
 

(G) No, no.
 

(D) A Trieste invece?
 

(A) Un tempo ci andavamo tutti gli anni. Pian pianino sono morti tutti quelli che conoscevo. Mi sono rimaste due cugine, con le quali ci sentiamo regolarmente, ma sono un paio d’anni che non le andiamo a trovare.
Siamo tornati anche come turisti, a Fiume, in Istria. Mio figlio Alberto si è innamorato della zona e adesso, tutti gli anni, fa campeggio fra Cittanova e Parenzo. Ricordo che una volta mi aveva detto “Ma papà perché siete venuti via da qua?” … dopo che avevo sofferto tutta la vita per questo fatto!
 

(D) Avete mai fatto parte di associazioni di profughi dall’Istria?
 

(A) No, non so neanche se ne esistano.
 

(G) Sì, ci sono le associazioni. Anche mia sorella ne faceva parte. Non ricordi che una volta all’anno andavano in gita, tornavano a Fiume?
 

(A) Si è vero, adesso ricordo. C’è anche un giornale “La difesa adriatica”, che non so dove venga fatto, destinato ai profughi.
 

(D) Non vi ha mai messo in imbarazzo il fatto di essere, o essere stati,  profughi?
 

(A) No e  non mi pare di aver percepito che qualcuno si vergognasse o fosse messo in difficoltà per il fatto di essere un profugo, non mi sembra. Anzi c’erano certi amici nostri o amici di amici che vivevano quasi con orgoglio questo fatto. Forse dipende da come qualcuno ti ha guardato qualche volta.
 

(D) Da sempre o adesso perché se ne parla di più?
 

(A) Da sempre. Quello che è cambiato è un po’ il timore di essere scambiati con quelli che arrivano adesso  dai Balcani, dalla Serbia, dalla Croazia. Noi, che ci chiamiamo Uicich, o Francovich, noi con questi cognomi ci teniamo a far sapere che non siamo slavi: siamo italiani. Qualche volta manca solo che qualcuno ci chieda se abbiamo il permesso di soggiorno. La gente non sa, non si ricorda più della nostra storia, del nostro essere stati profughi nel 1945. Oggi ci sono tutti questi nuovi profughi e l’idea di essere confusi non ci piace.
 

(D) E lei signora?
 

(G) No, no. Però ricordo che a L’Aquila dei genitori si rivolgevano ai bambini e gli dicevano “guarda che ti faccio mangiare dai profughi”. Mi ricordo questo, eh, eh ...
 

RICORDARE E TESTIMONIARE

(D) Ai vostri figli, ai nipoti, avete raccontato la vostra vicenda?
 

(A) Io scrivo ai miei nipoti, se poi leggono non so: gli ho parlato della Risiera, della fine della guerra, del governo De Gasperi. Ultimamente gli ho parlato di Marco Pannella, un personaggio che mi piaceva.
 

(G) E’ sempre lì a scrivere, ma i ragazzi sa … Però chissà forse un giorno, avranno dei ricordi del nonno.
 

(D) Ha avuto riscontri per sue lettera?
 

(A) Non pretendo neanche che mi rispondano. Per la lettera sulla Risiera però Marco mi aveva risposto. Era stato colpito, mi aveva detto, che io così piccolo avessi visto il fumo della ciminiera e che avessi saputo che erano gli ebrei che bruciavano (4).
È stata l’unica volta che qualcuno mi ha risposto. Ma io tengo duro e continuo a scrivere. Sono convinto che qualcosa resta.



Trieste - Uomini pronti per il ballo della festa del rione Sant'Anna o San Lorenzo. In centro, con le mani incrociate, Adelchi Francovich, zio di Anerio

NOTE
(1) Dopo aver steso questa intervista, ho inviato il testo ad Anerio e Gigliola perché lo verificassero. Alcune  delle loro osservazioni meritano di essere lette per esteso. Una riguarda l'arrivo degli americani a Trieste. Scrive Anerio:
  

“Poco più avanti, dove dico: "...s'è visto un chiarore bianco venire dal mare. Erano le luci delle navi inglesi" cambierei "mare" con "porto" e "inglesi" con "americane". E' particolarmente importante questa seconda modifica, per due motivi: primo, perché in effetti è stato così. Le navi erano americane. Anche dopo, negli anni seguenti quando andavo a Trieste in vacanza dai nonni, vedevo solo navi da guerra americane, o forse qualcuna inglese di passaggio.
In secondo luogo, la sera stessa del 12 giugno del '45, udendo la gente gridare "Viva i liberatori!", ebbi netta la sensazione (che poi mi è sempre rimasta) che liberatori erano considerati gli americani, e soltanto nemici vincitori gli inglesi”
 


Come mai questa diversità di percezione: americani liberatori e inglesi nemici? chiedo in una successiva mail. Questa la risposta:
 

"Questa fu la mia percezione di bambino, basata su nulla di concreto. Ma si sa che le antenne dei bambini sono sensibilissime nel captare i sentimenti, e infatti non ho mai cambiato la mia valutazione istintiva di allora, anche nella maturità.
Certo, la risposta che potrei dare oggi alla sua domanda sarebbe un po' più circostanziata. Ma non sarebbe più il racconto di un bambino che ricorda la "brutta sera rossa" e la "bella sera bianca".
Comunque, ecco ciò che oggi ritengo che la gente di allora considerasse.  
In primo luogo, con gli inglesi eravamo stati in condizione di ostilità, prima con le sanzioni, poi con le armi, dalla Guerra d'Abissinia, 1935, fino alla nostra resa incondizionata dell'8 settembre 1943. Gli americani, invece, li avevamo visti nelle trincee a noi avversarie per meno di un anno, dal novembre 1942 in Tunisia all'8 settembre '43 a Salerno. Cioè, con gli inglesi avevamo avuto modo di darcele di santa ragione per molto più tempo che con gli americani.   
In secondo luogo, gli Usa non avevano un impero, l'Inghilterra sì: possedeva o controllava militarmente mezza Africa, una fascia verticale che andava da Alessandria d'Egitto a Città del Capo. E nonostante tutto ciò, l'Inghilterra fu la potenza che più vigorosamente si oppose alla realizzazione delle ambizioni italiane nel continente, anche se queste erano rivolte alla conquista, non di possedimenti inglesi, ma dell'Etiopia, uno dei due Stati indipendenti dell'Africa, l'altro essendo la Liberia. 

Feeling: gli americani impersonavano il gigante buono, anche se severo (non avevano ancora sganciato le due atomiche sul Giappone: due, non una, a tre giorni l'una dall'altra!); mentre gli inglesi erano il piccolo lord prepotente e capriccioso. Antipatico.
Terzo e ultimo punto, mai dimenticare i moltissimi immigrati italiani in Usa, nazione che contendeva all'Argentina il titolo platonico di "Seconda Italia" nel cuore di molti nostri connazionali.
Del resto, a chi telefona De Gasperi per chiedere aiuto - cibo! - per gli italiani a guerra appena finita? A Fiorello La Guardia, sindaco di New York (anzi, di Nuova York, come si diceva allora).
Ecco  perché gli americani erano i liberatori e gli inglesi soltanto nemici vincitori".


Altre due osservazioni fatte da Anerio alla prima stesura dell'intervista, meritano di essere conosciute.

Alla prima non ho potuto che dargli ragione e scusarmi tanto:

"Subito alla seconda riga, "proveniva da Fiume (Rijeka in croato)": toglierei senz'altro la precisazione fra parentesi. Marco, perché vuole rigirare il coltello nella piaga?
Pensi di parlare ad esempio di Zagabria: non le verrebbe l'idea di precisare "(Zagreb in croato)", vero? 



Ecco l'altra:
"Un piccolo particolare che evidentemente soltanto noi locali possiamo cogliere: Fiume non è una città dell'Istria, così come non lo è mai stata Trieste, la quale fra l'altro non è mai stata nemmeno una città del Friuli. Un fiumano che vada in Istria dice: "vado in Istria". Così come un triestino, che va in Istria o va in Friuli. Questa sfumatura sfugge spesso ai nostri giornalisti della stampa e della Rai".

(2) La possibilità di optare fra cittadinanza italiana e jugoslava, era contenuta nell'articolo 19 del  Trattato di pace fra Italia e le Potenze Alleate ed Associate, siglato a Parigi, 10 febbraio 1947. L'articolo recita:
" Art. 19 
(comma 1°): I cittadini italiani che, al 10 giugno 1940, erano domiciliati in territorio ceduto dall'Italia ad un altro Stato per effetto del presente Trattato, ed i loro figli nati dopo quella data diverranno, sotto riserva di quanto dispone il paragrafo seguente, cittadini godenti di pieni diritti civili e politici dello Stato al quale il territorio viene ceduto, secondo le leggi che a tale fine dovranno essere emanate dallo Stato medesimo entro tre mesi dall'entrata in vigore del presente Trattato. Essi perderanno la loro cittadinanza italiana al momento in cui diverranno cittadini dello Stato subentrante. 
(comma 2°) Il Governo dello Stato al quale il territorio è trasferito, dovrà disporre, mediante appropriata legislazione entro tre mesi dall'entrata in vigore del presente Trattato, perché tutte le persone di cui al paragrafo 1, di età superiore ai diciotto anni (e tutte le persone coniugate, siano esse al disotto od al disopra di tale età) la cui lingua usuale è l'italiano, abbiano facoltà di optare per la cittadinanza italiana entro il termine di un anno dall'entrata in vigore del presente Trattato. Qualunque persona che opti in tal senso conserverà la cittadinanza italiana e non si considererà avere acquistato la cittadinanza dello Stato al quale il territorio viene trasferito. L'opzione esercitata dal marito non verrà considerata opzione da parte della moglie. L'opzione esercitata dal padre, o se il padre non è vivente, dalla madre, si estenderà tuttavia automaticamente a tutti i figli non coniugati, di età inferiore ai diciotto anni. 
(comma 3°) Lo Stato al quale il territorio è ceduto potrà esigere che coloro che si avvalgono dell'opzione, si trasferiscano in Italia entro un anno dalla data in cui l'opzione venne esercitata".

(3) Forse la caserma "Fratelli Bergamaschi", una delle sedi, durante l'occupazione tedesca, dei fascisti della Legione Autonoma "Ettore Muti". Non sono riuscito ad individuare l'indirizzo.

(4) Cerca su quest blog il post:“GUARDÉ, GUARDÉ! I BRUSA I EBREI!” Lettera testimonianza di Anerio Villani ai nipoti.
http://bartesaghiverderiostoria.blogspot.it/2017/01/guarde-guarde-i-brusa-i-ebrei-lettera.html



LA MIA FAMIGLIA DALLA JUGOSLAVIA ALL'ITALIA di Franco S.. Testo a cura di Marco Bartesaghi.

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Questo testo scritto è stato ricavato dalla registrazione di una chiacchierata di due ore con il signor Franco S. Per sua esplicita richiesta sono omessi i cognomi delle famiglie coinvolte. M.B.


LA MIA FAMIGLIA DALLA JUGOSLAVIA ALL'ITALIA di Franco S.

Mi chiamo Franco S., sono  nato nel 1943 a  Ivoli, un villaggio a pochi chilometri da Pisino, in Istria.
Mio papà, Mario, era figlio di contadini, ed era l'ultimo di dieci fratelli: famiglia numerosa, forse anche perché durante il fascismo ad avere tanti figli si aveva un premio.
Anche la mamma, Olga, era figlia di contadini.
I nonni, sia materni che paterni, erano proprietari dei terreni che coltivavano. Grano, uva due o tre bovini e due o tre maiali i principali prodotti del loro lavoro. Le loro non erano grosse proprietà, se le avessero divise fra tutti i figli non sarebbero state sufficienti per nessuno. Allora, con contratti di vendita fittizi, cioè senza passaggio di denaro, avevano fatto in modo che le intere proprietà rimanessero ai primogeniti.


 Foto di famiglia a Pisino nel 1949: Franco seduto, a sinistra, vicino al fratello . In piedi, al centro  la nonna paterna. Alla sua destra padre e madre di Franco. Alla sua sinistra il figlio primogenito, Ernesto.                        
Gli altri figli avevano dovuto trovare altri lavori. Due, prima della guerra, erano andati in America, in Argentina. Quando navigavo, ero andato a trovarli. Ricordo che uno di loro, che faceva il gruista al porto di La Plata, mi aveva detto:“qui non ho fatto fortuna però ho salvato la vita, perché non ho fatto la guerra"
 

Mentre dava una mano nella costruzione della casa di famiglia, trasportando i mattoni papà si era ferito a una gamba e si era ammalato di osteoporosi. Non aveva fatto il militare, era andato a lavorare come garzone da un sarto, aveva imparato il mestiere e così, per tutta la sua vita, ha cucito.


 
Papà mentre cuce, seduto sul gradino



L’Istria è un triangolo di terra che si affaccia sul mar Adriatico, una penisola. In centro c’è Pisino, una cittadina di qualche migliaio di abitanti - penso cinque/settemila.
Il paese è attraversato dal torrente Foiba, che a un certo punto entra in una specie di canalone e poi cade in un un burrone - una foiba appunto -, si perde e non si sa dove vada a finire. Si pensa che arrivi sotto Rovigno, nel canale di Leme, ma non si è sicuri [IN APPENDICE: LA LEGGENDA DEL FIUME FOIBA].


Mamma vicina al torrente Foiba
I miei, prima di sposarsi, abitavano fuori dal paese, in campagna.
Il villaggio di mio padre, una decina di case, si chiama Sestani. Lui raccontava che il primo  a insediarsi era un soldato venuto con Napoleone, che si era fermato lì e aveva messo su famiglia. Così diceva.
Mia madre era di Ivoli. I due villaggi distano circa un chilometro ed sono divisi da un torrente. Le due famiglie erano lì ormai da generazioni. Erano istriani veri. 

Mio nonno materno aveva fatto la prima guerra mondiale dalla parte degli austriaci, sul fronte ungherese: lo ricordo in una foto con l’elmetto con il “chiodo”. 
Papà e mamma si sono conosciuti sui vent’anni e si sono voluti bene. Lei dipendeva un po’ da mio padre, quello che lui decideva lei faceva. Poi magari litigavano, ma la sostanza era quella, come si usava una volta. 


Dopo l’8 settembre 1943, quando l’Italia ha firmato l’armistizio, tutta la regione era finita sotto il controllo diretto dei tedeschi. Naturalmente nella zona operava anche l'esercito partigiano di Tito che, liberata Pisino, aveva messo la sede del suo comando nel castello della città.

 
Il castello di Pisino

Io non so quale fosse la proporzione fra italiani e croati a Pisino. Di certo gli italiani erano molti. Nella mia via si parlava italiano. Solo qualcuno, venuto da fuori, parlava croato. C' era una scuola italiana e le prime quattro classi, le elementari, io le ho fatte lì.

Avevamo anche, da parte di mia mamma, dei cugini croati, che sotto l'Italia erano andati via dalle loro case e poi erano tornati. Erano professori delle scuole superiori; uno di loro mi dava ripetizioni di croato. Quando siamo andati via mi ha regalato un suo libro, un poemetto intitolato "Sotto la corona infuocata di Matija Gubec". Parla di un servo della gleba che si era ribellato ai nobili e aveva provocato una rivolta. Quando è stata domata la rivolta e  l’hanno preso, gli hanno messo in testa una corona infuocata. 

LA DECISIONE DI PARTIRE

Con l'arrivo di Tito la vita  per gli italiani ha cominciato ad essere più difficile.
Mio papà che aveva optato per  andare in Italia per ben tre volte gli era stata negata l'opzione di cambiare nazionalità.

C'era la volontà di cancellare la minoranza italiana, di cancellarne l’identità. Di questo fatto ho presente piccoli indizi, ma anche alcuni gravi fatti. 


In terza ginnasio a Pisino. Franco in primo banco, con la maglia a righe
I primi si trovano ad esempio nelle pagelle scolastiche che ho conservato.
In quella del 1949/'50 risulto di nazionalità italiana; poi, per qualche anno, la nazionalità non viene indicata e, da 1953/'54, divento di nazionalità croata.
Le prime pagelle sono bilingui, dal 1953/'54 in poi sono solo in croato, Pisino diventa Pazin e il mio nome e il cognome viene scritto alla croata.

Dopo le elementari non ho più potuto frequentare la scuola italiana, poiché a Pisino sia la media che il liceo erano stato chiusi.

 




Più gravi erano le minacce e le rappresaglie. Amici, conoscenti, parenti sparivano. Chi erano? Persone che avevano avuto a che fare con l’amministrazione precedente, insegnanti, carabinieri, autorità locali.
Una zia, sorella di papà, il cui marito era stato podestà di un piccolo paese dell’interno, si era subito trasferita a Trieste.
Una cugina, figlia di un’altra sorella, che aveva sposato un carabiniere è stata portata via insieme a suo padre e di loro non si è più saputo niente. La zia si è messa in lutto e via …
 

Già l’aver fatto domanda di andare in Italia, bastava per farti considerare cittadino di serie B.  Penso che i miei  avessero il timore di dire qualcosa di non gradito e così dei fatti gravi in famiglia non si parlava.
La mamma aveva due fratelli “scapoloni” che si appoggiavano a lei per lavare e aggiustare la biancheria e i vestiti. Andavano a caccia, si facevano cucinare la selvaggina che prendevano e si fermavano da noi a mangiarla. A tavola, tra un bicchiere e l'altro,  cominciavano a parlare del tempo di guerra. Allora la mamma mandava via noi bambini dalla cucina, in modo che non sentissimo, e cercava di far tenere la voce bassa, per timore del vicinato.
 

Volevi andar via anche se eri in disaccordo con il regime comunista che si stava instaurando.
Mio padre faceva il sarto, un lavoro in proprio. Un giorno, un paesano che conosceva era venuto a casa nostra  armato di pistola per requisire la macchina da cucire e metterla in cooperativa.  Papà l’ha minacciato: “Se non vai via ti butto giù dalla finestra!”. La macchina da cucire per noi era il pane. Poi la cooperativa dei sarti non è stata fatta e la macchina è restata.


Queste cose spingevano mio padre a voler partire. Ma la decisione non era facile. Mia madre, ad esempio, non voleva:“Dove andiamo per il mondo, con due bambini piccoli?”. Non eravamo ricchi, pagavamo l’affitto, però non ci mancava niente, avevamo il sufficiente. L’idea di andare via e anche di lasciare i parenti la spaventava.
Papà invece era convinto e, nonostante i precedenti negativi, aveva fatto un’altra domanda direttamente a Zagabria e finalmente gliel’avevano accettata. Prima di partire era venuto da solo a Trieste dalla sorella per capire come muoversi una volta in Italia.
 

Io, che avevo 13 anni, e mio fratello, di qualche anno più giovane, abbiamo saputo della partenza quando già si stavano facendo i bagagli: una volta ai figli non si diceva niente. Non sapevo neanche dove saremmo andati. Mi ricordo che tanta gente era venuta a salutarci il giorno prima, che piangeva, ma io non mi rendevo tanto conto del perché.
Per un ragazzino poi, vivere da una parte o dall’altra non è che cambiasse tanto. Io stavo bene anche là, con i miei amici, con i compagni di scuola.
Alla scuola pionieri di Zagabria. Franco il primo a destra in basso.

Una volta, a metà di un anno scolastico, avevano convinto mio papà (secondo mia mamma l’avevano costretto) a mandarmi a Zagabria alla città del pioniere, dove c’erano studenti da tutta la Jugoslavia. Della scuola di Pisino eravamo solo due alunni italiani.
 

Dormivamo in  edifici con camere da sei letti, sparse in un’ampia zona di collina, a qualche chilometro dalla città. La scuola era in un edificio separato. Portavamo, nelle occorrenze, il fazzoletto rosso da pioniere e il berretto con la stella. Prima della scuola c’era l’adunata; facevamo le esercitazioni di ginnastica per le parate che si svolgevano durante le manifestazioni. Abbiamo fatto anche una simulazione di allarme di guerra, i bianchi contro i neri. Oltre ai corsi scolastici normali c’erano quelli di lavoro manuale: io mi ero iscritto a un corso dove si costruivano modelli di barche a vela, una specie di falegnameria. Ero un ragazzo, quella vita non mi dispiaceva. 

Franco, al centro, con la barca costruita alla scuola di Zagabria.

GENNAIO 1956. PARTENZA DA PISINO E SOGGIORNO AL CAMPO PROFUGHI DI LATERINA

Siamo partiti da Pisino nel gennaio del 1956. Da soli, con il treno. Partivano anche altre famiglie, ma ciascuna per conto suo. Avevamo due cassoni di legno di nostre cose: in uno c’era la macchina da cucire; nell’altro la tavola del pane che la mamma s’era fatta costruire, i vestiti, un po’ di libri. La mamma si era portata anche un grande quadro della Madonna. 


 
La tavola del pane.

Ricordo che quando abbiamo attraversato il confine il papà ci ha abbracciato. In un primo momento ho pensato:“Ma cosa ci abbraccia a fare che siamo sempre stati insieme?” Poi ho capito che per lui era stato come togliersi un peso, un timore.
Arrivati a Trieste siamo stati ospiti della zia, per una o due settimane.


Poi abbiamo dovuto scegliere la destinazione. Papà avrebbe voluto restare a Trieste, ma i campi erano pieni. Potevamo decidere fra Lecce e Laterina, in provincia di Arezzo. Abbiamo preferito Laterina, un paesino di qualche migliaio di abitanti, a una quindicina di chilometri da Arezzo, sull’Arno.
C’era stato un campo di concentramento per prigionieri di guerra inglesi. Dove li facevano i campi di concentramento? Dove era difficile scappare: quindi vicino al fiume, così almeno da quel lato non veniva la tentazione, e fuori mano, in aperta campagna. Risultato? Nebbia d’inverno e, d’estate,  un sacco di zanzare.


 
Il campo di Laterina. Immagine da web.

Saremo stati tra le trecento e le cinquecento persone, non so di preciso. Le baracche erano come quelle che si vedono nei film sui lager tedeschi. Erano dodici o tredici, massimo quindici: mi pare che noi fossimo nella numero 12. Saranno state larghe sei metri, con un divisore in mezzo che non arrivava neanche fino al soffitto. Gli spazi per le famiglie erano suddivisi con le coperte militari appese a un cavo. C’era la mensa, oppure percepivi una diaria per comprare il cibo che poi cucinavi sul fornelletto.
 

Gli adulti non avevano possibilità di lavorare, noi ragazzi invece andavamo a scuola. Io facevo le medie ad Arezzo, dove andavo con la corriera. Per pranzo la mamma  mi preparava un panino con la mortadella o, più spesso perché lo davano come sussidio, con quel formaggio americano giallo, conservato in scatole di latta “dono del popolo USA”.
 

Non andavo bene in italiano, non sapevo mettere le doppie: in Veneto non si usano, figuriamoci in Istria che è ancor più in là, e in croato non esistono proprio. Risultato? In italiano avevo sempre 4 e il papà "non la prendeva bene". A parte ciò, non ho un brutto ricordo di quel periodo: la situazione era un po’ di fortuna ma io, da ragazzo, stavo bene. Eravamo tanti giovani. Nella baracca 5 c’era il bar; grandi e piccoli portavamo la sedia e guardavamo la televisione. Mi ricordo Ivanhoe e Rin Tin Tin.
Facevo anche il chierichetto, servivo al vespero o al rosario. Quando il prete era in ritardo attaccavo io. Poi lui arrivava con il Galletto e andava avanti. 


 
Campo di Laterina. Franco chierichetto, alla sinistra del sacerdote

LA VITA DOPO IL CAMPO PROFUGHI

Quando una famiglia usciva dal campo riceveva come una liquidazione, non so di quanto, ma sufficiente a pagare l’affitto per qualche tempo e a comprare qualche mobile: un fornello, i letti, un tavolo, quattro sedie …

Mio papà voleva andare a Trieste, perché li aveva delle conoscenze - qualche parente, qualche compaesano - e anche  perché desiderava  restare vicino all’Istria, vicino a casa.
 

La sorella gli aveva proposto di appoggiarsi a lei. Eravamo già pronti per partire per Trieste, con i permessi dello Stato in regola, quando ha ricevuto un telegramma dei nipoti: “Spiacenti, non possiamo aiutarti”.
Una mazzata. L’ho visto sbiancare.
Cosa si fa? cosa non si fa. Un cugino alla lontana, che abitava a Novara. gli ha detto “vieni”.
Novara si trovava nel triangolo industriale Milano Torino Genova. C’era la Montecatini. Siamo andati.
 

Il cugino ci ha ospitato per qualche giorno, finché abbiamo trovato una casa in affitto.
In un primo momento papà ha ripreso a fare il sarto, ma i tempi stavano cambiando. Ormai tutti, anche quelli che avevano i soldi, volevano gli abiti confezionati,  perché era di moda così.
Le richieste erano poche e allora ha cominciato a lavorare per  ditte di confezioni,  sartorie. Ma non era più il suo lavoro e ha cercato un posto in fabbrica.
Cuciva ancora di sera, in casa, con la radio accesa, come aveva sempre fatto. La mamma gli dava una mano Io e mio fratello, a cui non aveva mai voluto insegnare il mestiere, avevamo al massimo il permesso di disimbastire, cioè tirar via i fili bianchi dell’imbastitura.
Papà è morto giovane, di infarto, a 56 anni. Ha fatto solo a tempo a veder sistemati i suoi figli.


Io e mio fratello abbiamo continuato gli studi. Finite le medie avevo ricevuto una lettera dalla casa editrice De Agostini di Novara, che offriva borse di studio per tecnico grafico. Io invece volevo far il capitano di lungo corso, perché il figlio di un  cugino di mio padre aveva fatto questa scuola e mi raccontava che andava per mare e sarebbe diventato comandante di una nave. Ho rotto le scatole a mio padre finché mi ha iscritto alla scuola nautica di Trieste, un istituto tecnico che ti preparava ad essere ufficiale delle navi mercantili. Cinque anni di convitto, una vita abbastanza dura: libera uscita la domenica e solo se avevi tutte le sufficienze, se no dovevi star dentro a studiare; a casa tornavi solo a Natale , Pasqua e in estate.
L’ultimo anno mi sono imbarcato e sono andato in Argentina. Sarei dovuto andare con una nave scuola, perché i migliori alunni avevano questa possibilità. Invece, della nave scuola s’era rotta l’elica: che delusione. Ho cominciato a scrivere alle società di navigazione di Genova, Trieste, Livorno,...


 
Franco, a destra, imbarcato sulla motonave Alpe, in crociera fra buenos Aires e Las Palmas (1963)

Dopo il diploma l’istitutore che mi aveva seguito negli studi, mi consigliò di fare domanda per una borsa di studio e di iscrivermi a ingegneria. L’ho ascoltato, ho studiato forte e mi sono laureato. Poi ho fatto il militare.
Tornato ho iniziato a fare l’insegnante, in un istituto tecnico di Novara, e intanto ho inviato domande di lavoro a parecchie ditte. Fra quelle che mi hanno risposto ho scelto la Telettra e sono venuto a Vimercate.
Allora ero già sposato. Mia moglie, friulana, l’ho conosciuta a Trieste, mentre facevo ingegneria. Era una studentessa universitaria e alloggiava, come me,  alla Casa dello Studente. Dopo la laurea ci siamo sposati e a Novara, dove abbiamo vissuto i primi anni del matrimonio, anche lei ha fatto l'insegnante.


 Anche mio fratello ha studiato a Trieste. Quando si è sposato si è trasferito in Friuli , dove è andata ad abitare anche la mamma, dopo che il papà è morto. La mamma è morta all'età di 78 anni.

 
Franco, il terzo da sinistra in basso, nella squadra della Casa dello Studente di Trieste (1967)

 
Secondo da sinistra, allievo ufficiale nel corpo di Artiglieria Missilistica. Sabaudia 1970

 LE SCELTE DEL RESTO DELLA FAMIGLIA

Questa è la storia della mia famiglia o meglio, una parte della storia , quella che, forse, può interessare anche agli altri.
Mio papà e mia mamma hanno fatto la scelta di lasciare l'Istria e venire in Italia. Alcuni parenti hanno preso la stessa decisione, altri hanno deciso di rimanere.

Dalla parte di mio padre sono venute in Italia la zia di Trieste, di cui ho già parlato, e un'altra  zia, quella a cui era stata portata via la figlia . 

 
Si era trasferito a Trieste anche il fratello maggiore, quello che aveva ereditato i terreni. Mi era sembrato strano che avesse deciso di partire: è ben difficile che un contadino lasci la sua terra. Quando gli ho chiesto perché l'avesse fatto mi ha risposto che là non era più vita. A Trieste ha lavorato come tuttofare in una ditta di raccolta rottami. Ha giurato che in Jugoslavia non sarebbe più tornato e non è mai tornato. Così come la figlia, che aveva sposato un uomo di Capodistria a cui i titini avevano ucciso un fratello di 18 anni.
 

Come ho già detto altri due zii, ancor prima della guerra si erano trasferiti in Argentina.
 

In Istria sono rimasti due zii,  uno che ha lavorato all'ospedale di Pola, l’altro che ha fatto il ferroviere: ora sono entrambi morti. Anche i loro figli sono rimasti in Istria.


TORNARE IN ISTRIA E PARLARE DELLA MIA STORIA: DUE COSE NON FACILI

La prima volta che sono tornato in Istria, per passare l'estate con gli zii , ero uno studente. Per attraversare il confine  ci voleva ancora il passaporto.  Ero lì, al mare, anche nel  1975 quando l'11 agosto è arrivata la telefonata che il papà era morto. Siamo tornati a casa. In seguito,  ogni volta che  ci andavo mi veniva il magone e così sono tornato solo raramente.
 

Raramente ho raccontato le vicende mie e della mia famiglia: il fatto di essere stato un “profugo”, mi ha sempre messo un po’ a disagio, in imbarazzo. Senza un motivo preciso. Forse perché associo questa condizione alla povertà, al fatto di non avere una casa, di non avere niente.
Ultimamente mi è capitato di parlarne in un incontro con gli studenti della scuola di Monza dove ho insegnato prima di andare in pensione.
Anche le mie figlie, che un tempo non erano molto interessate, adesso cominciano  ad ascoltare,  a voler capire.
Ma tante cose neanch’io le so, perché i miei genitori,che avevano vissuto i tempi della guerra non parlavano tanto con noi dei fatti che ci: perché scaricare i dispiaceri sui propri cari?



APPENDICE
LA LEGGENDA DEL TORRENTE FOIBA


 Pisino è nel centro dell'Istria. E' attraversato dal torrente Foiba che entra in un canalone e, arrivato a un muro, si getta in una grotta e si perde. Quando c'è tanta pioggia il torrente trasporta la  legna che ostruisce l'entrata dell'acqua e provoca inondazioni. Poi, pian pianino, l'accumulo di acqua viene smaltito.
Narra una  leggenda popolare che un anno, per risolvere il problema di una brutta siccità,  Il gigante buono, Veli Jože, il Grande Giuseppe, aveva detto: “Ci penso io”. Ha preso un aratro e ha solcato un primo fiume, la Mirna, il fiume Quieto che passa a nord, sotto Capodistria,  e così ha portato l'acqua dai laghi a nord dell'Istria.
Poi ha deciso di tracciare anche il torrente Foiba. Quando è arrivato a Pisino, al castello che sovrasta il torrente, la castellana ha cominciato a prenderlo : “come sei brutto, come sei sporco, di qui, di là, sei un contadino...” lui si è arrabbiato e si è fermato. Ha staccato i buoi e ha smesso di scavare.
Intanto l'acqua arrivava e saliva, saliva, saliva saliva, .... I contadini erano disperati e lo pregavano: “Veli Jože, perdonala, aiutaci, ...”  e così via.
Alla fine lui s'è “smollato”, e con un calcio  ha aperto la grotta che ha risucchiato l'acqua. 


  

LE CONFERENZE SCIENTIFICHE A VERDERIO

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BIBLIOTECA DI VERDERIO

LA SCIENZA NEL 3° MILLENNIO
L’Uomo e l’Ambiente
Ciclo di conferenze primavera 2017



 Venerdì 31 marzo
Ore 21.00
Sala Civica di Villa Gallavresi
CONOSCERE I PROPRI GENI PUÒ CAMBIARE LA NOSTRA VITA?
Faustina LALATTA, Ospedale Maggiore Policlinico di Milano
Venerdì 12 maggio, VACCINI E VACCINAZIONI: RIFLESSIONI PER UNA SCELTA CONSAPEVOLE, Sandro ZANETTI, Università degli Studi di Milano
 
Venerdì 26 maggio, ENNIO MORLOTTI: ARTISTA, RICERCATORE, POETA DELLA PITTURA MATERICA, NATO E VISSUTO NEL NOSTRO TERRITORIO,Patrizia CONSONNI, Artista e Arte Terapeuta a Indirizzo Antroposofico
Ciclo di conferenze promosso dalla Biblioteca Comunale di Verderio, grazie alla collaborazione scientifica gratuita dei professori Gabriella CONSONNI e Giuseppe GAVAZZI, dell’Università degli Studi di Milano. Per eventuali variazioni del programma siete cortesemente invitati a consultare il sito del comune di Verderio: 
http://www.comune.verderio.lc.it/verderio/hh/index.php

DISTRIBUZIONE E ABBONDANZA DELLA CIVETTA (Athene noctua) NEL COMUNE DI MILANO di Marta Muzio

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Vi presento la tesi di laurea che Marta Muzio, un'abitante di Cernusco Lombardone, ha sostenuto alla fine del corso di Laurea Triennale in Scienze Naturali dell'Università degli Studi di Milano. 
Ringrazio Marta per avermi permesso di pubblicarla sul blog. M.B.














DISTRIBUZIONE E ABBONDANZA DELLA CIVETTA (Athene noctua)
NEL COMUNE DI MILANO


RIASSUNTO

In questa tesi di laurea si espongono i risultati di un censimento della civetta (Athene noctua) condotto nel comune di Milano. La civetta è un rapace notturno di piccole dimensioni, con abitudini crepuscolari e notturne, solitario e territoriale. La specie è ampiamente distribuita alle medie latitudini dell'Eurasia, tra l'Atlantico e il Pacifico, ed in Nord Africa, raggiungendo a sud la Penisola Arabica ed il corno d'Africa. In Europa mostra uno stato di conservazione sfavorevole (SPEC 3) ed è considerata in moderato continuo declino (BirdLife International, 2004), nonostante sia ancora ampiamente distribuita, ad eccezione dell’Europa centrale e settentrionale. In Italia mostra un trend di stabilità, decremento o fluttuazione locale con sintomi di ripresa conseguenti a un declino generalizzato avvenuto intorno agli anni '60/'70 del secolo scorso.
Il lavoro di campo è stato condotto nell’ambito del progetto A.Vi.U.M. (Atlante Virtuale degli Uccelli di Milano). Il piano di campionamento è stato redatto sulla base della griglia di rilevamento utilizzata nel progetto A.Vi.U.M. e sono stati visitati in totale 82 punti di rilievo. Per effettuare il censimento è stato utilizzato il metodo del playback. Esso è molto semplice e si basa sulla reazione degli individui territoriali di civetta all’emissione di vocalizzazioni della specie per mezzo di un'apparecchiatura audio. Successivamente si registrano su una carta topografica e su un’apposita scheda le eventuali reazioni, oltre agli eventi di canto spontaneo. In totale si è avuta risposta in 33 punti di ascolto sugli 82 visitati. In questi 33 punti, gli individui contattati sono stati 52.
Le preferenze ambientali della civetta (considerando un home range medio di 30 ettari) sono state modellizzate per mezzo di una regressione logistica binomiale, utilizzando quali sorgenti di informazioni i tematismi cartografici disponibili sul web, in particolare sul portale cartografico di Regione Lombardia e sul portale cartografico nazionale, e consultando la bibliografia sulla selezione dell’habitat da parte della civetta. Il modello finale includeva le seguenti variabili: altezza media degli edifici, dimensioni massime del parco presente nel plot, distanza dal centro della città, presenza di grandi arterie stradali e presenza di seminativi non semplici. Questo modello è stato in grado di classificare correttamente l'80,2 % dei dati. Tali analisi statistiche hanno messo in evidenza un'influenza significativa delle superfici urbanizzate, in particolare dell'altezza degli edifici e della rete stradale principale, la cui presenza corrisponde a minori probabilità di rilevamento della specie. Per quanto riguarda gli elementi naturali o semi-naturali, è stata riscontrata un'influenza positiva di seminativi non semplici, quali seminativi arborati, colture floro-vivaistiche ed orti familiari.
Il modello di preferenza risultante dalle analisi è stato utilizzato per realizzare una mappa di idoneità ambientale nell'intera area di studio corrispondente al comune di Milano. A tal fine è stata creata una nuova griglia geografica con celle quadrate di 547 metri di lato, di dimensione simile all’home range della specie. L'equazione di regressione restituita dal modello è dunque stata applicata a tutte le celle della griglia ottenendo valori di probabilità di presenza della specie compresi tra zero e uno. Questi valori sono stati convertiti in 5 categorie di idoneità ambientale. Il 13,3% dei quadranti analizzati è risultato avere un’idoneità medio-alta (valore di probabilità di presenza compreso tra 0,61 e 0,8).
La metodologia di censimento adottata nel presente studio è stata inoltre considerata, assieme a quelle adottate in studi precedenti e a quelle reperibili in bibliografia, per discutere l’impostazione metodologica di un eventuale piano di monitoraggio a scala nazionale per la specie.


INDICE

1    INTRODUZIONE   
1.1    Scopo della tesi   
 

2    DESCRIZIONE DELLA SPECIE
2.1    Morfologia, comportamento e habitat   
2.2    Distribuzione, abbondanza e stato di conservazione   
 

3    AREA DI STUDIO   
 

4    MATERIALI E METODI   
4.1    Individuazione del piano di campionamento   
4.2    Metodi di rilevamento   
4.3    Archiviazione dei dati   
4.4    Individuazione delle variabili ambientali   
4.5    Analisi delle preferenze ambientali   
4.6    Altri fattori che influenzano la probabilità di rilievo della specie   
4.7    Mappa di idoneità ambientale per la civetta nell'area di studio   
 

5    RISULTATI
5.1    Risultati generali   
5.2    Fattori ambientali determinanti la presenza della specie   
5.3    Mappa di idoneità ambientale   
 

6    DISCUSSIONE       
 

7    BIBLIOGRAFIA


1- INTRODUZIONE

L'uomo ha una grande influenza sugli ambienti naturali e sulle specie animali. Nel mondo sono rari gli ambienti non interessati dalla sua influenza e, in quelli densamente urbanizzati come le città, i sistemi ecologici subiscono rapidi e profondi cambiamenti. Il ventesimo secolo è stato testimone di un rapido processo di urbanizzazione della popolazione mondiale e in Italia la popolazione urbana è cresciuta dal 54,1% nel 1950 al 66,7 % nel 2005 (United Nations, 2006). Lo sviluppo incontrollato delle città ha portato ad alterazioni degli ambienti naturali e lo sfruttamento antropico del territorio induce ad una frammentazione delle aree naturali, ad una perdita di habitat, cambiamenti nella copertura del suolo e accumulo di rifiuti; non sorprende che lo sviluppo urbano produca alcuni dei maggiori tassi di estinzione locali di specie animali e vegetali autoctone (McKinney, 2002; Hough, 2004). Nonostante questo quadro drammatico, ci sono molte specie animali che inevitabilmente si sono adattate a vivere a contatto con l'uomo, nelle città, e inoltre, l'impatto dell'uomo sugli ambienti naturali, in alcuni casi, può essere visto in maniera positiva, in quanto porta ad un aumento dell'eterogeneità ambientale (Rebele, 1994). I frammenti di habitat naturali e urbani si compenetrano tra loro, dando luogo a un sistema ecologico urbano. L'ecologia urbana è la disciplina che studia queste relazioni, si interessa quindi della distribuzione e dell'abbondanza di specie animali e vegetali all'interno di ecosistemi antropizzati. Interessante è anche lo studio delle relazioni tra le varie specie, soprattutto tra quelle autoctone e alloctone. Le aree urbane infatti sono vulnerabili alle invasioni di specie alloctone e ciò ha un marcato impatto sulla biodiversità (Rebele, 1994; Vitousek et al., 1997, Didham et al., 2005; Van Heezik et al., 2008). Può essere molto importante valorizzare la biodiversità negli ecosistemi urbani in quanto alcune evidenze suggeriscono che l'esposizione del pubblico alla naturalità residua interna alle aree urbane sia un fattore determinante per aumentare la sensibilità rispetto alle tematiche ambientali (Savard et al., 2000).
Tra i vertebrati, molte specie di uccelli hanno mostrato un progressivo adattamento alla crescente urbanizzazione del territorio. La civetta, Athene noctua, ne è un esempio. Da sempre è stato forte il legame tra l'uomo e questa specie, considerando che essa sceglie quasi esclusivamente manufatti per nidificare (Cramp, 1998). Un metodo molto utile per il monitoraggio delle specie in ambiente urbano è quello di realizzare atlanti di distribuzione, indagini pluriennali che si propongono l'individuazione degli areali di distribuzione di un determinato gruppo di organismi, utilizzando una base cartografica. Al termine risulterà una mappa per ciascuna specie rilevata, sulla quale sono evidenziate le zone di presenza. Gli atlanti di distribuzione degli uccelli nidificanti sono i più realizzati in tutto il mondo. All'estero sono stati pubblicati numerosi Atlanti urbani: le città che dispongono di un atlante ornitologico si possono annoverare Londra, Berlino, Bonn, Ginevra, Bruxelles, Amsterdam, Praga, Vienna e Varsavia. In Italia è stato realizzato un Progetto Atlante Nazionale (P.A.I.) che ha visto i rilievi effettuati nelle stagioni di nidificazione 1983-1986 ed ha visto la luce nel 1993 (Meschini e Frugis, 1993). Sono inoltre stati realizzati svariati Atlanti regionali e provinciali e sono stati pubblicati Atlanti ornitologici urbani per 34 città (Fraissinet e Dinetti, 2007).
Per il comune di Milano non è ancora stato realizzato un Atlante ornitologico, ma da alcuni anni è in corso un progetto per la sua realizzazione, denominato A.Vi.U.M. (Atlante Virtuale degli Uccelli di Milano – Bonazzi et al., 2005). Questo progetto si propone di raccogliere informazioni sulle specie nidificanti e svernanti sul territorio cittadino. Nell'ambito del progetto A.Vi.U.M si sviluppa il parallelismo tra una raccolta di dati effettuati ornitologi esperti, operanti secondo un protocollo di rilevamento programmato e standardizzato, ed una serie di informazioni raccolte, con modalità libera, da parte di un insieme di numerosi utenti di diversa competenza ornitologica. Il progetto A.Vi.U.M. nasce con l'obiettivo di utilizzare un sito web per la raccolta e la diffusione di dati ornitologici relativi al comune di Milano
.

1.1  - SCOPO DELLA TESI

Lo scopo di questa tesi, che si inserisce nell'ambito del progetto A.Vi.U.M.,  è di valutare distribuzione e abbondanza della civetta, Athene noctua, nel comune di Milano, e di indagare i fattori ecologici che le determinano.
Il campionamento è stato realizzato con lo scopo di creare un modello di idoneità ambientale per la civetta sull'intero territorio comunale, che potrà poi essere validato negli anni a venire.
La metodologia di lavoro adottata nel presente studio, in confronto a quelle adottate in studi precedenti e a quelle reperibili in bibliografia (Johnson et al., 2009), potrà essere utilizzata come modello di impostazione metodologica di un eventuale piano di monitoraggio a scala nazionale per la specie.



2 - DESCRIZIONE DELLA SPECIE

2.1 - MORFOLOGIA, COMPORTAMENTO E HABITAT
La civetta è un piccolo rapace notturno (circa 20 cm) con un'apertura alare di 54/ 58 cm, con piumaggio di colore castano-grigio con barrature e macchie biancastre. È caratterizzata dal disco facciale poco evidente o incompleto, caratterizzato da sottili sopraccigli chiari, dall'area intorno agli occhi grigiastra e finemente macchiettata e da un semicollare bianco. I Ciuffi auricolari sono del tutto assenti, i tarsi sono relativamente lunghi e piumati, e il piede possiede dita ricoperte da rade e corte setole. Essa ha le remiganti di colore bruno con qualche tacca bianca su entrambi i vessilli, abbastanza evidenti anche in volo, mentre il sotto-ala è chiaro in corrispondenza delle copritrici e barrato di scuro in corrispondenza delle remiganti. Le timoniere hanno una colorazione analoga e la coda è corta. L'iride è giallo limone, il becco è giallastro con base grigio-oliva; le dita sono grigio-brunastre o nerastre così come le unghie. Non vi è diversità nel piumaggio tra i sessi (Martinez Climent et al., 2002), né tra le stagioni.
La specie ha abitudini crepuscolari e notturne, ma è relativamente facile osservarla di giorno. Quando si trova in riposo su un posatoio elevato, mostra un profilo tondeggiante e tozzo, mentre in allerta assume postura eretta sulle zampe piuttosto alte. Il volo è caratterizzato da una regolare alternanza di battuta e chiusura completa delle ali da cui risulta una traiettoria ondulata. È una specie solitaria e territoriale. Ha un repertorio vocale ampio che viene utilizzato durante tutto l'anno; il canto del maschio consiste in una breve nota, ripetuta a intervalli regolari di alcuni secondi, un po' strascicata e con finale che si eleva rapidamente di tonalità in modo quasi interrogativo, mentre la femmina ne produce una versione simile ma più acuta e nasale. La sua dieta è costituita prevalentemente da insetti e piccoli mammiferi o uccelli ma si sa adattare in maniera molto plastica a diversi contesti ambientali (Arcidiacono et al., 2007; Bon e Sartor, 2001; Bux e Rizzi, 2005).




La civetta vive spesso in coppie isolate. Costruisce il nido nelle situazioni più disparate. Generalmente il nido è ubicato su manufatti e possibilmente viene rioccupato negli anni. Vengono utilizzati anche nidi di altri animali. La deposizione avviene da febbraio ad aprile nelle regioni meridionali, da marzo a metà giugno in quelle centro-settentrionali, con inizio ritardato a seguito di inverni rigidi e primavere piovose (Mastrorilli, 2005). Possono esserci occasionali deposizioni tardive in autunno (Mastrorilli, 2005). In Lombardia il picco delle deposizioni si ha tra la seconda e la terza settimana di aprile (Biasioli et al., 2005). La covata è in genere di 3-5 uova, con una media di 4,1 uova in Italia (Mastrorilli, 2005). Le uova vengono incubate dalla femmina per 27-28 giorni. La schiusa è lievemente asincrona e i pulcini si involano all'età di circa tre settimane (Brichetti e Fracasso, 2006).
L'habitat originario della civetta è rappresentato da ambienti aperti a vegetazione arbustiva sparsa frammista a rocce. Tuttavia, è ben diffusa ed adattata a riprodursi in ambienti agricoli. Sfrutta i ruderi, le cascine e gli edifici in genere, compresi quelli residenziali e industriali, per nidificare. Si adatta anche all’agricoltura ad aree suburbane ed è presente in alcuni centri storici, dove sfrutta le cavità dei vecchi edifici. Le aree più idonee in Lombardia sono quelle agricole della pianura e dell’Oltrepò pavese e i fondovalle di Valtellina, Val Chiavenna e Val Camonica, mentre le risaie della pianura occidentale non sembrano attrarla particolarmente. È assente sopra i 1.200 m di quota


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2.2    DISTRIBUZIONE, ABBONDANZA E STATO DI CONSERVAZIONE
 

Evita zone con innevamento e gelo prolungati da un lato, e zone tropicali dall'altro, risultando così ampiamente distribuita alle medie latitudini dell'Eurasia, tra l'Atlantico e il Pacifico, ed in Nord Africa, raggiungendo a sud la Penisola Arabica ed il corno d'Africa; introdotta in Inghilterra e nuova Zelanda. La popolazione in Europa è stimata attualmente superiore alle 560.000 coppie riproduttive (BirdLife International, 2004). In Italia è sedentaria e nidificante in tutta la penisola e nelle isole, con esclusione dei settori alpini interni e di vaste aree fittamente boscate (Brichetti e Fracasso, 2006). Sono stimate 40.000-70.000 coppie in Italia (Brichetti & Fracasso, 2006). La popolazione nidificante lombarda dovrebbe essere compresa tra 2000 e 4000 coppie (Vigorita e Cucè, 2008) con una densità di 1 territorio/km² in aree coltivate di pianura e inferiori a 0,5/km² in quelle pedemontane (Galeotti e Sacchi, 1996). Essendo essenzialmente sedentaria, i movimenti riguardano soprattutto la dispersione dei giovani, solitamente entro poche decine di km dal luogo di nascita (Mastrorilli, 2005).
In Europa la specie ha uno stato di conservazione sfavorevole (SPEC 3) ed è considerata in moderato continuo declino (BirdLife International, 2004), nonostante essa sia ancora ampiamente distribuita, ad eccezione del Nord Europa. Un tempo molto diffusa e comune in tutto l'areale europeo, ha mostrato, a partire dagli anni '30, una tendenza generalizzata al declino, accentuandosi negli anni '70, tanto da scomparire da alcune aree dell'Europa Centrale (Gustin et al.,2010). In Italia mostra un trend di stabilità, decremento o fluttuazione locale con sintomi di ripresa conseguenti a un declino generalizzato avvenuto intorno agli anni '60/'70 del secolo scorso. Allo stato attuale la specie non è inserita nella Lista Rossa Nazionale (Peronace et al., 2012) ed il suo status di conservazione viene giudicato favorevole (Gustin et al., 2010). Nell'ambito del progetto MITO, di cui tuttavia la civetta non costituisce una specie target, dal 2000 al 2011 si è riscontrato un declino medio annuale delle popolazioni nidificanti pari al 3,6 % (Campedelli et al., 2012).
La modificazione degli habitat, il susseguirsi di inverni rigidi e l'aumento del traffico veicolare di cui la specie è la vittima più frequente tra gli Strigiformi, hanno verosimilmente influito in misura significativa sulle popolazione di questo piccolo predatore (Galeotti, 2003). Su 800 strigiformi raccolti sulle strade italiane, nel periodo 1990-2000, il 41% apparteneva a questa specie (Galeotti et al., 2001).
Altri fattori di rischio sono l'elettrocuzione, l'impatto contro cavi sospesi e recinzioni, e abbattimenti illegali in periodo di caccia; il taglio indiscriminato dei filari alberati (soprattutto gelsi), la diminuzione dei prati-pascoli e la ristrutturazione di edifici in periodo riproduttivo minacciano i suoi territori e il suo habitat. Un’altra minaccia importante è la diminuzione delle prede; l'uso di pesticidi e rodenticidi diminuisce drasticamente le popolazioni di grandi insetti e roditori di cui la civetta si nutre (Gustin et al., 2010).
Per i motivi sopra elencati sarebbe necessario sia conservare l’habitat della specie, in particolare gli elementi strutturali che forniscono siti idonei alla nidificazione, come gli alberi vetusti, i filari che separano i campi e i muretti a secco, sia ridurre l’uso dei pesticidi favorendo invece metodi di lotta biologica. La civetta necessita inoltre di posatoi per l’attività di caccia (Tomè et al., 2011) e in assenza degli stessi si posa frequentemente sui cartelli stradali aumentando il rischio di collisione con veicoli: sarebbe dunque opportuno assicurare la presenza di posatoi mantenendo o piantando arbusti o piccoli alberi ad alcuni metri di distanza dal margine della strada.


3 - AREA DI STUDIO
 

Milano è un comune italiano di 1.262.101 abitanti (ISTAT, 2012). È il secondo comune italiano per popolazione, dopo Roma, e costituisce il centro dell'area metropolitana più popolata d'Italia, nonché una delle più popolose d'Europa.

Il 74,68 % del territorio è costituito da aree antropizzate. L'11,73 %  di queste corrisponde ad un tessuto urbano continuo denso molto significativo. Per quanto riguarda i parchi e i giardini, essi occupano circa il 7,82 % dell'intero territorio. La città è un importantissimo nodo stradale ed autostradale. Le autostrade sono collegate fra loro dal sistema di tre tangenziali, con una lunghezza complessiva di 74,4 km. Sommando alle tre tangenziali il tratto urbano dell'autostrada A4, si ottiene un sistema di autostrade urbane di oltre 100 km di lunghezza, che circonda totalmente la città. L'8,68 % del suo territorio è occupato da queste reti stradali in aggiunta alle reti ferroviarie. Essa possiede inoltre una percentuale importante di aree agricole (22 ,09 %). Il 3,23 % del territorio è occupato da ambienti seminaturali e da corpi idrici. Nella Figura 3.1 è riportato l'uso del suolo di Milano, le classi corrispondono al secondo livello di approfondimento utilizzato nel DUSAF
.

Figura 3.1. Uso del suolo nel comune di Milano.

Il territorio comunale è inoltre interessato da due Parchi regionali: Parco Nord e Parco Agricolo Sud. Il primo, situato a Nord della città, sorge in un contesto tra i più densamente urbanizzati d'Europa caratterizzato dalla presenza di fabbriche storiche e grandi quartieri residenziali; grazie all'istituzione del Parco, alcuni appezzamenti agricoli sono riusciti ad evitare la cementificazione, sono stati bonificati e attrezzati per uso pubblico. Il secondo circonda la città a Sud, Est e Ovest. Tutti i parchi di cintura ne fanno parte e ne condividono i vincoli;  esso è nato per proteggere l'economia agricola e per tutelare ambiente e paesaggio rurale e ha consentito la creazione di un vasto polmone verde a disposizione dei cittadini. Il "Boscoincittà”, il Parco di Trenno ed il Parco delle Cave fanno parte del Parco Regionale; il Parco delle Cave è il secondo parco per estensione del comune, dopo il Parco Nord; è il risultato di una riqualificazione dell'uso del suolo di territori prima interessati da quattro cave per l'estrazione di ghiaia e sabbia ed è caratterizzato da quattro laghi, corsi d'acqua e boschi. Tre sono i parchi urbani storici della città: i Giardini Pubblici (oggi dedicati a Indro Montanelli), il Parco Sempione e il Parco Ravizza. Fino agli anni trenta del XX secolo il centro storico era ricco di giardini privati, oggi molto ridotti e sostituiti da lottizzazioni residenziali. Parchi di estensione maggiore si trovano fuori dall'area edificata: il Parco Lambro, il Parco Forlanini entrambi nella posizione orientale della città.

4 - MATERIALI E METODI

4.1 - INDIVIDUAZIONE DEL PIANO DI CAMPIONAMENTO
 

Il piano di campionamento (Figura 4.1) è stato redatto sulla base della griglia di rilevamento utilizzata nel progetto A.Vi.U.M. Questa prevede la suddivisione del territorio di Milano in quadrati da 1 km di lato. Questi quadrati sono stati poi raggruppati in 40 settori contenenti un massimo di sei quadrati ciascuno.
Il piano ha previsto l'individuazione di 2 punti di rilevo per ognuno dei settori (punti prioritari). Per ognuno dei settori periferici, costituenti verosimilmente il nucleo più importante per la specie studiata, è inoltre stato individuato un punto di rilevamento secondario da selezionarsi in caso di inaccessibilità di uno dei due punti prioritari. All’interno del quadrato di 1x1 km la scelta del posizionamento del punto di rilievo è stata effettuata cercando di ridurre al minimo il disturbo acustico e di sottofondo (es. traffico veicolare) e di garantire l'incolumità dei rilevatori


 
Figura 4.1. Mappa del comune di Milano, della griglia contenente i 40 settori e dei punti di rilievo individuati come prioritari e secondari


4.2 - METODI DI RILEVAMENTO
 

Il metodo utilizzato in questo studio è quello del playback (Bibby et al, 2000). Esso è molto semplice e si basa sulla reazione della civetta al canto di un conspecifico. Per mezzo di un'apparecchiatura audio si riproducono vocalizzazioni della Civetta, successivamente si registrano su una carta topografica e su un’apposita scheda le eventuali reazioni. In questo modo si può rilevare l’80-90% della popolazione presente (Exo & Hennes, 1978): solitamente sono i maschi territoriali quelli che rispondono maggiormente alle stimolazioni sonore. La portata del canto della Civetta è stata stabilita sperimentalmente in 500-600 m. Con un raggio di 500 m si copre un’area di circa 80 ettari, maggiore rispetto alle dimensioni medie di un territorio di Civetta (Fink, 1990 e 1993). Basta quindi individuare una postazione di canto per individuare un territorio. È stato utilizzato questo metodo in quanto è quello che presenta vantaggi maggiori perché permette di censire superfici vaste ed eterogenee. Il censimento è stato effettuato in un periodo che va dal 22 marzo 2013 all'8 maggio 2013 e ogni uscita è stata condotta in un orario compreso tra il tramonto e l'una di notte circa.
La traccia audio utilizzata è stata la sequenza del CD “Tous les oiseaux d'Europe", vol. 3, "Coucous - Hypolaïs" di Jean Claude ROCHÉ (1996). La traccia dura 78 secondi ed è suddivisibile in 9 sequenze contenenti tre tipi di vocalizzazioni (Tabella 4.1)


Tabella 4.1. Dettagli delle sequenze che compongono la traccia sonora utilizzata per il playback.

La traccia viene riprodotta senza interruzione; se un individuo risponde, essa è da fermare immediatamente.
Per la riproduzione audio sono stati utilizzati diversi supporti digitali. È importante che la riproduzione sonora sia abbastanza potente da coprire l’area d’esame (raggio di 250 m). Le civette, soprattutto in periodo riproduttivo e in condizioni meteorologiche favorevoli rispondono facilmente a stimolazioni acustiche, purché riprodotte a un volume adeguato. Un volume troppo potente secondo alcuni autori può al contrario mettere in fuga gli animali (Juillard, 1984).
È stato notato che in alcuni casi gli uccelli non rispondono se non dopo l’arresto del playback. Per meglio individuare le eventuali risposte la traccia audio è stata alternata a silenzi di un minuto. La traccia è stata riprodotta per un massimo di tre volte. La sequenza del protocollo di playback è riportata in Tabella 4.2.



Tabella 4.2. Protocollo di playback adottato per ogni punto di campionamento.
Se le civette stanno già cantando prima dell’inizio della riproduzione della traccia audio, si attendono 5 minuti per ascoltare la reazione eventuale di altre civette. Poi si passa al punto successivo. In caso contrario si procede con il protocollo di Tabella 4.2 alla fase 2. Dopo la terza riproduzione della traccia audio in assenza di risposta, si rimane in ascolto per 5 minuti. Nel momento in cui una civetta si fa udire, la riproduzione va fermata, anche se la sequenza audio non è ancora terminata. È possibile infatti che al canto di un individuo altri individui si facciano udire, per cui si attendono 5 minuti, registrando gli eventuali altri individui, dopodiché si passa al punto successivo. Se non si ottengono risposte da parte della civetta, un’osservazione dura circa 13 minuti in totale. Dopo la visita ad un punto si passa a quello successivo, riprendendo le tappe del metodo. Il censimento è stato effettuato da fine marzo a inizio maggio. Gli uccelli infatti sono maggiormente territoriali e fanno udire il loro canto nei mesi da febbraio ad aprile (Schonn et al., 1991), ma anche fino a maggio, a seconda dell’area interessata. Il censimento è stato effettuato dopo il tramonto. È stato inoltre eseguito anche il monitoraggio dell'allocco, Strix aluco, e del gufo comune, Asio otus. I dati di questo monitoraggio non sono riportati in questa tesi. Per l'annotazione dei dati ho predisposto la scheda che viene riportata qui di seguito (Figura 4.2).

 
Figura 4.2. Scheda di campionamento




4.3 - ARCHIVIAZIONE DEI DATI

Per l'archiviazione dei dati è stato utilizzato il programma Quantum GIS 1.7.4. Basandosi sulla carta tecnica regionale in scala 1:10.000, sono stati georeferenziati sia i punti di rilievo sia le posizioni degli individui rilevati creando due distinti shapefile (Figura 4.3).


 
Figura 4.3. Georeferenziazione della posizione degli individui contattati.



4.4 - INDIVIDUAZIONE DELLE VARIABILI AMBIENTALI

La presenza e l'abbondanza delle specie animali vengono modellate utilizzando quali variabili indipendenti una serie di parametri ambientali disponibili come strati informativi digitali o misurabili sul campo. L'utilizzo di strati informativi digitali presenta il vantaggio di permettere la creazione di modelli predittivi a una scala più ampia di quella interessata dai rilievi faunistici.
Le variabili ambientali potenzialmente in grado di influenzare la presenza della civetta sono state ricavate dai tematismi cartografici disponibili sul web, in particolare sul portale cartografico di Regione Lombardia (www.cartografia.regione.lombardia.it) e sul portale cartografico nazionale (www.pcn.minambiente.it), e consultando la bibliografia sulla selezione dell’habitat da parte della civetta (Martínez, e Zuberogoitia, 2004 ; Van Nieuwenhuyse & Bekaert, 2002).
Il primo passaggio nel processo di modellizzazione della presenza di una specie consiste nella scelta della scala a cui operare. Secondo l'impianto teorico proposto da Johnson (1980) la selezione dell'habitat nelle specie animali può essere vista come un processo gerarchico che interessa scale differenti. Nel caso della civetta si può ad esempio ipotizzare che venga effettuata la scelta del territorio in base alla possibilità di foraggiamento offerta dagli habitat presenti; all'interno del territorio individuato, la scelta del sito di nidificazione verrebbe invece effettuata ad una scala minore, considerando ad esempio la presenza di cavità utilizzabili come nidi ed il loro grado di protezione nei confronti di eventuali predatori.
Martínez e Zuberogoitia (2004) propongono per lo studio delle preferenze ambientali della civetta, un approccio multi-scala su tre livelli: scala di paesaggio, scala di home range e scala di sito di nidificazione.
Le caratteristiche del presente studio permettono di lavorare unicamente a scala di home range che è dunque stata selezionata per la preparazione delle variabili ambientali. In base alla bibliografia disponibile (Génot & Wilhem, 1993; Van Nieuwenhuyse & Bekaert, 2002), la dimensione dell'home range per la civetta è stata considerata pari a 30 ettari che corrispondono a plot circolari con raggio di 309 metri.
Per ognuno dei punti di rilievo e per ogni localizzazione degli individui rilevati, sono stati dunque creati poligoni circolari (plot) utilizzando un buffer di 309 metri. Per ridurre problemi di pseudoreplicazione dei dati la scelta dei plot è stata effettuata in modo da evitare per quanto possibile la sovrapposizione. Per i dati di presenza della specie, qualora più plot risultassero sovrapposti per più di un terzo dell'area è stata effettuata la scelta randomizzata di uno di essi.
Per quanto riguarda invece i dati di assenza della specie, sono stati considerati tutti i punti di rilevamento in cui non è stata rilevata la presenza di individui.
Per ognuno dei plot sono state estratte alcune variabili ambientali (Tabella 4.3) utilizzando gli strumenti di analisi vettoriale presenti in Quantum Gis 1.7.4. In primo luogo è stata ricavata la copertura percentuale dei diversi usi del suolo utilizzando i dati DUSAF 2009; le categorie di uso del suolo di livello più alto sono state raggruppate individuando un numero ridotto di variabili ecologicamente coerenti; dalla stessa sorgente è stata calcolata per ogni plot la lunghezza complessiva dei filari. Sono state inoltre ricavate delle variabili relative alle dimensioni degli edifici (altezza media e volumi) utilizzando quale sorgente lo strato “Edificato dei capoluoghi di provincia” disponibile sul sistema WFS del Geoportale Nazionale Altre variabili considerate sono state la distanza dal centro della città, calcolata in Qgis come distanza da Piazza del Duomo, e la presenza o meno di edifici rurali, utilizzando in quest’ultimo caso quale sorgente di dati l’uso del suolo DUSAF e i dati relativi alle “Basi ambientali della pianura” presenti nel portale cartografico di Regione Lombardia.
Alcune categorie di uso del suolo sono risultate presenti in una porzione molto ridotta di plot. Per ovviare ai problemi generati da una distribuzione fortemente asimmetrica dei predittori, queste categorie di uso del suolo sono state trasformate in variabili fattoriali binarie (presenza=1, assenza=0). Per le altre categorie di uso del suolo è stata applicata prima delle analisi, una trasformazione consistente nell'arcoseno della radice quadrata (Sokal & Rohlf, 2005).


 
Tabella 4.3- Elenco delle variabili ambientali utilizzate nelle analisi.

4.5 - ANALISI DELLE PREFERENZE AMBIENTALI

Le preferenze ambientali della civetta nell'area di studio sono state modellizzate per mezzo di modelli lineari generalizzati, utilizzando una variabile dipendente binaria (presenza/assenza della civetta) ed una link function di tipo logit. Questo tipo di analisi viene comunemente indicato come regressione logistica binomiale.
Per la selezione delle variabili che maggiormente influenzano la presenza della specie è stata utilizzata una procedura stepwise forward, partendo dunque dal modello base costituito dalla sola intercetta ed aggiungendo di volta in volta la variabile che più contribuisce al miglioramento del modello iniziale. Per tutte le variabili continue è stata testata anche l'influenza del termine quadratico al fine di modellizzare eventuali dipendenze non lineari tra le variabili indipendenti e la variabile risposta. La procedura si arresta nel momento in cui nessuna delle variabili residue contribuisce in maniera significativa al miglioramento del modello. Come misura della bontà dei modelli è stato utilizzato il criterio informativo di Akaike (AIC - Akaike, 1973).
Questa procedura è stata implementata con il pacchetto MASS (Venables e Ripley, 2002) del software R 2.15.1 (R Core Team, 2012). La capacità discriminatoria del modello migliore è stata valutata calcolando la percentuale di corrette attribuzioni dei valori di presenza e assenza (accuratezza del modello). Per mezzo del pacchetto pROC (Robin et al., 2011) è infine stata calcolata l'area sotto la curva ROC (AUC).


4.6 - ALTRI FATTORI CHE INFLUENZANO LA PROBABILITÀ DI RILIEVO DELLA SPECIE
 

Una volta selezionato il modello migliore è stata testata l'eventuale influenza sulla probabilità di rilievo della civetta di alcuni parametri relativi al punto di ascolto: data (variabile continua), orario (variabile continua misurata in minuti ed utilizzando come valore zero la mezzanotte), fase lunare (variabile categorica), copertura nuvolosa (variabile categorica), temperatura (variabile continua) e disturbo (variabile categorica).
Ognuna delle variabili sopra descritte è stata aggiunta al modello iniziale creando un nuovo modello. I due modelli sono stati confrontati per valutare il contributo delle nuove variabili alla performance del modello. A tal fine sono stati confrontati i valori di AIC ed è stato effettuato un test della devianza (Likelihood Ratio Test - LRT).


4.7 - MAPPA DI IDONEITÀ AMBIENTALE PER LA CIVETTA NELL'AREA DI STUDIO

Il modello di preferenza risultante dalle analisi è stato utilizzato per realizzare una mappa di idoneità ambientale nell'intera area di studio corrispondente al comune di Milano.
A tal fine è stata creata una nuova griglia geografica con celle quadrate di 547 metri di lato, aventi cioè la stessa estensione di trenta ettari considerata come valore di riferimento dell'home range della specie (cfr. 4.4).
Per ogni cella sono stati ricavati i valori delle variabili ambientali presenti nel modello migliore selezionato dalle analisi (per una descrizione delle variabili ambientali si veda il paragrafo 4.4).
L'equazione di regressione restituita dal modello è dunque stata applicata a tutte le celle ottenendo valori di probabilità di presenza della specie compresi tra zero e uno. Questi valori sono stati convertiti in 5 categorie di idoneità ambientale: bassa (valore di probabilità compreso tra 0  e 0,2), medio - bassa (0,21 - 0,4), media (0,41 - 0,6), medio - alta (0,61 - 0,8) e alta (0,81 - 1).


5 - RISULTATI

5.1 - RISULTATI GENERALI
 

In totale si è avuta risposta in 33 punti di ascolto sugli 82 visitati. In questi 33 punti, gli individui contattati sono stati 52 e, tra questi, in 5 casi si sono verificati eventi di canto spontaneo. Dalla mappa (Figura 5.1) risulta evidente l'assenza di contatti nelle zone di Centro e Nord-Est di Milano. Per quanto riguarda il resto del comune, si può notare una distribuzione abbastanza omogenea della specie, con una maggiore densità nella zona di Sud-Est.

Figura 5.1. Mappa degli individui contattati.


5.2 - FATTORI AMBIENTALI DETERMINANTI LA PRESENZA DELLA SPECIE
 

Con la procedura descritta nel paragrafo 4.4, sono stati individuati in totale 81 plot, in particolare ne sono stati individuati 36 di presenza e 45 di assenza (Figura 5.2).

Figura 5.2. Mappa dei plot utilizzati per le analisi.

Partendo dal modello iniziale contenente la sola intercetta (AIC= 113,3), la procedura forward ha individuato un modello contenente cinque variabili: altezza media degli edifici, dimensioni massime del parco presente nel plot, distanza dal centro della città, presenza di grandi arterie stradali e presenza di seminativi non semplici. Per le prime due variabili nel modello migliore è stato inserito anche il termine quadratico (Tabella 5.1).


Tabella 5.1. Analisi di regressione logistica binaria relativamente alla probabilità di presenza della civetta in un plot in funzione delle caratteristiche ambientali del plot. La tabella mostra il modello finale individuato con procedura stepwise-forward. Questo modello è in grado di classificare correttamente l'80,2 % dei dati.

I grafici riportati di seguito (Figura 5.3, Figura 5.4, Figura 5.5) mostrano la relazione tra le variabili indipendenti e la probabilità di presenza della civetta in base al modello migliore individuato dalle analisi. I grafici sono stati costruiti, per ognuna delle tre variabili continue presenti nel modello, valutando l’effetto sulla probabilità di presenza della civetta lungo un intervallo di valori corrispondente a quello riscontrato nell’area di studio e tenendo fisso il valore delle variabili continue al loro valore medio. In ognuno dei grafici sono riportate quattro linee, una per ogni combinazione delle variabili categoriche. La probabilità di presenza della civetta aumenta all’aumentare della distanza dal centro città, in presenza di colture orticole e florovivaistiche, in presenza di ridotta copertura stradale e ferroviaria, in presenza di edifici di altezza medio-bassa (< 10 m), in presenza di parchi di grandi dimensioni oppure di piccole dimensioni, mentre sembra evitare parchi di dimensioni intermedie. Quest’ultima relazione pare di difficile interpretazione.

Figura 5.3. Relazione tra la probabilità di presenza della civetta in un plot e la distanza dal centro della città. Strade assenti, seminativi assenti - linea nera tratteggiata. Strade assenti, seminativi presenti - linea nera continua. Strade presenti, seminativi assenti - linea rossa tratteggiata. Strade presenti, seminativi presenti - linea rossa continua

 
Figura 5.4. Relazione tra la probabilità di presenza della civetta in un plot e le dimensione dei parchi. Strade assenti, seminativi assenti - linea nera tratteggiata. Strade assenti, seminativi presenti - linea nera continua. Strade presenti, seminativi assenti - linea rossa tratteggiata. Strade presenti, seminativi presenti - linea rossa continua.


 
Figura 5.5. Relazione tra la probabilità di presenza della civetta in un plot e l'altezza media degli edifici. Strade assenti, seminativi assenti - linea nera tratteggiata. Strade assenti, seminativi presenti - linea nera continua. Strade presenti, seminativi assenti - linea rossa tratteggiata. Strade presenti, seminativi presenti - linea rossa continua.


Nessuno dei parametri relativi al punto di ascolto (data, orario, fase lunare, copertura nuvolosa, temperatura e disturbo) è stato in grado di apportare un contributo significativo al modello (per tutti i parametri P LRT > 0.20 e ?AIC < 2).


5.3 - MAPPA DI IDONEITÀ AMBIENTALE
 

La mappa di idoneità ambientale costruita con il modello di Tabella 5.1 è riportata in Figura 5.6.

Figura 5.6. Mappa di idoneità ambientale per la civetta nel comune di Milano.
Il 36% dei quadranti presenta un'idoneità bassa, il 24,3% medio bassa, il 17,2% media, il 13,3%  medio alta e il 9,2% alta.
 


6 - DISCUSSIONE

La civetta risulta essere ben distribuita nel comune di Milano raggiungendo le maggiori densità nella cintura agricola occupata dal Parco Agricolo Sud. Essa risulta invece assente o poco abbondante nelle aree maggiormente urbanizzate. Le analisi statistiche condotte per verificare i fattori ambientali che determinano la presenza della specie hanno messo in evidenza un'influenza significativa delle superfici urbanizzate, in particolare dell'altezza degli edifici e della rete stradale principale, la cui presenza corrisponde a minori probabilità di rilevamento della specie. Per quanto riguarda gli elementi naturali o semi-naturali, è stata riscontrata un'influenza positiva di seminativi non semplici quali seminativi arborati, colture floro-vivaistiche ed orti familiari. Verosimilmente queste tipologie colturali offrono un ambiente idoneo al reperimento di risorse trofiche nonché la disponibilità di posatoi che costituiscono un elemento fondamentale nell'attività di caccia della civetta (Tomè et al., 2011).
Con il modello sopra discusso, è stato possibile classificare correttamente l'80,2% dei dati, con risultati simili a quelli riscontrati in altri studi (Van Nieuwenhuyse & Bekaert, 2002).
In base alla mappa di idoneità ambientale ricavata dalle analisi condotte, il 22,5% del territorio comunale costituisce un'area ad idoneità alta o medio-alta per la civetta. La carta di idoneità ambientale ricalca abbastanza fedelmente i risultati dei rilevamenti. Il maggior grado di discostamento tra il modello e i risultati si verifica nella zona Nord-Est, dove sono presenti aree verdi potenzialmente idonee, quali il Parco Nord e il Parco Lambro, e dove tuttavia la specie non è stata rilevata. In aree fortemente urbanizzate come quella di questo studio l'efficacia del metodo di rilievo e di conseguenza la contattabilità della specie possono essere fortemente influenzate dal disturbo dovuto al livello di pressione sonora o da altri fattori inerenti per esempio la conformazione del tessuto urbano che può interferire con la propagazione delle onde sonore. La contattabilità della specie potrebbe risultare quindi molto differente nelle diverse aree indagate. Recentemente sono stati sviluppati dei modelli statistici che permettono di tenere in considerazione questo elemento (MacKenzie et al, 2002). Per la loro applicazione è tuttavia necessario effettuare visite ripetute in modo da poter separare in fase di analisi le due componenti che, insieme, determinano la probabilità di rilevare una specie: la probabilità che la specie sia presente in un determinato punto al momento del rilievo (occurrence probability) e la probabilità che essa risponda quando presente (detection probability).
L'istanza della detection probability è stata presa in considerazione dai maggiori esperti della specie che si sono occupati di redigere il protocollo generale di rilevamento della civetta (Johnson et al., 2009). Questo protocollo, risulta molto impegnativo dal punto di vista dello sforzo di campionamento: esso prevede quale unità di analisi aree di 4 km² (celle quadrate di 2 km di lato) in cui ricavare 16 stazioni di campionamento. Per ognuna di queste stazioni è prevista l'effettuazione di 3 ripetizioni per gli studi finalizzati all'individuazione delle preferenze ambientali e 4 ripetizioni per quelli che invece si propongono di valutare le tendenze demografiche.
In relazione a quest'ultima tipologia di indagine, in Italia si registra, per gli Strigiformi, una totale assenza di informazioni raccolte su vasta scala. Questa mancanza costituisce una importante lacuna nelle politiche di conservazione dell'avifauna del nostro Paese. Agli strigiformi appartengono infatti diverse specie di interesse per la conservazione a scala regionale, nazionale e continentale. La mancanza di informazioni sulle tendenze demografiche in atto può compromettere la corretta valutazione dello stato di conservazione di queste specie.
La civetta è lo strigiforme più comune nel nostro Paese e attualmente l'unica stima degli andamenti di popolazione a scala nazionale è quella prodotta dal programma di monitoraggio nazionale delle specie comuni nidificanti (MITO 2000 - Campedelli et al., 2012), che tuttavia si basa su metodologie non adatte al rilievo dei rapaci notturni. La civetta potrebbe costituire la specie ideale su cui lavorare per mettere a punto un piano di campionamento su vasta scala esportabile poi, con le opportune modifiche, ad altre specie dello stesso ordine. Essa è infatti molto comune e facilmente rilevabile anche da personale non esperto. Come altri rapaci notturni, la civetta risulta affascinante anche agli occhi della gente comune che potrebbe essere quindi facilmente coinvolta nelle fasi di studio e conservazione, come avvenuto in diverse aree europee (Van Nieuwenhuyse et al., 2001).
Il protocollo suggerito da Johnson et al. (2009) prevede un grande sforzo di rilevamento dovuto sia all’elevato numero di ripetizioni (minimo 4) sia alla fitta griglia di rilevamento.
Per riuscire nella realizzazione di un monitoraggio su vasta scala della civetta nel nostro Paese sarebbe opportuno individuare il migliore compromesso tra sforzo di campionamento ed efficacia dello stesso, tenendo conto sia delle indicazioni presenti in bibliografia sia delle esperienze sul campo condotte nel nostro Paese, tra cui si colloca il presente studio. Si tratta di intervenire sostanzialmente su due elementi: protocollo di rilevamento e piano di campionamento.
Zuberogoitia et al., (2011) confermano che un numero minimo di quattro uscite sia necessario per individuare il 95% dei territori realmente esistenti. Gli stessi autori affermano tuttavia che i valori di detection probability riscontrati nell’area di studio possano variare in altri contesti territoriali. Sarebbe dunque opportuno anche nel nostro Paese effettuare studi al fine di valutare i tassi di risposta e di determinare così il numero minimo di uscite necessario per rilevare con un determinato margine di confidenza una certa porzione della reale popolazione nidificante.
Per quanto riguarda inoltre il piano di campionamento, il fatto di svincolarsi dalla griglia di rilevamento molto fine proposta da Johnson et al. (2009), permetterebbe di aumentare l’area indagata a parità di sforzo di rilevamento, come effettivamente è stato proposto e messo in atto in diversi contesti europei (Bretagnolle et al., 2001 per la Francia; Zabala et al., 2006, per la Spagna).
Sarebbe infine opportuno implementare un piano di campionamento stratificato al fine di campionare omogeneamente le diverse tipologie ambientali presenti nell'area di studio.
L’implementazione di piani di monitoraggio e di rilevamento basati su robuste basi teoriche costituisce un passo fondamentale per ottenere informazioni corrette inerenti le preferenze ecologiche delle specie e gli andamenti di popolazione, che permettono, in ultima analisi, di pianificare adeguatamente politiche efficaci per la loro conservazione.



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LA MADONNINA DI VIA ROMA N.1 di Marco Bartesaghi

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C'è un'immagine di Madonna con Bambino a Verderio che, se non mi sbaglio, non è mai apparsa, né è stata descritta, nelle varie pubblicazioni sulla storia del nostro paese edite in questi anni.

Le piccole dimensioni e  il punto in cui è situata la rendono praticamente invisibile e, soprattutto, irriconoscibile a occhio nudo.

Non ho avuto modo di vederla da vicino, ma solo di fotografarla con un teleobiettivo. Quanto segue deriva dall'osservazione della fotografia ottenuta.

Si tratta di una formella,  più o meno quadrata, di forse 25 – 30 cm di lato, che si trova sulla parete del numero civico 1 di via Roma, al centro fra due finestre, ad un'altezza di circa 7-8 metri.


Nel cerchio rosso la piccola immagine di Madonna con Bambino

Di colore bruno, è forse in ceramica, ma potrebbe anche essere di un materiale più povero, poi dipinto ad imitazione della ceramica. L'immagine sacra è adagiata in un  spazio delimitato da una cornice.

Essa è composta dal corpo seduto della Madonna, avvolta in un manto che le ricopre anche il capo, lasciando però liberi, sul davanti, i  capelli. Il volto di Maria, di profilo, volge lo sguardo verso il basso, in direzione del bambino, che cinge fra le sue braccia. Il bimbo, in piedi sulle ginocchia della madre, allunga verso di lei la mano destra.

La formella, probabilmente a causa di episodi di maltempo, è lacerata in alcuni punti: il naso della madre, il volto del bimbo, la cornice.  





La casa appartiene oggi ad Armando Galbiati. Fu sua nonna, Tranquilla Villa, ad acquistarla nel 1925, insieme ad altri beni immobili, dalla nobile Teresa Gallavresi.

***

Sarebbe bello conoscere  quando, da chi e perché fu posta in quel luogo e magari un giorno lo si riuscirà a sapere.

Per ora possiamo contare sulle parole  di alcune persone, poche, che riportano quanto a loro volta hanno sentito dire da altri.

Questi racconti concordano nel legare la devozione dei fedeli verso questa Madonna alla  capacità, che in due occasioni avrebbe dimostrato, di saper proteggere la popolazione dai pericoli della guerra.

Armando Galbiati racconta di aver sentito,  dalla signora Giulietta Airoldi, che la madonnina risalirebbe a poco dopo la Battaglia di Verderio del 28 aprile 1799, combattuta dalle truppe francesi e da quelle austro russe. Proprio quando queste ultime arrivarono in questo punto del paese, la battaglia si sarebbe interrotta, per la resa dei francesi. Per ringraziamento fu murata la formella.

Secondo Luigia Villa divenne successivamente tradizione trovarsi a pregare in quel luogo il 28 aprile di ogni anno.

Gli abitanti di Verderio Inferiore,  ricorda Antonia Origo, la invocarono anche in un altro  28 aprile, quello del 1945, affinché impedisse  che fra la colonna di tedeschi in ritirata e i partigiani, che l'avevano fermata all'incrocio per la stazione di Paderno, scoppiasse la battaglia. I tedeschi alla fine si arresero e quindi i fedeli ritennero che le loro preghiere fossero state esaudite.

Sono poche testimonianze, ma abbastanza coerenti fra loro, a cui sarebbe bello che se ne aggiungessero  altre. Speriamo che questo breve articolo aiuti a farle venire a galla. 


 Marco Bartesaghi

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