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DIVERSAMENTE MOTOCICLISTI: MATTEO ARLATI E I SUOI AMICI di Marco Bartesaghi

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ESTATE 1999: L’INCIDENTE
 

Negli anni novanta del secolo scorso, le strade intorno alle Torri Bianche di Vimercate, quando il complesso edilizio non comprendeva ancora l’edificio che oggi ospita la multisala cinematografica, erano utilizzate, il sabato e la domenica, come "circuito per gare motociclistiche", diciamo così, “fai da te”.
Matteo Arlati, verderiese, classe 1980, fin dall’età di 16 anni è un assiduo frequentatore della pista, con la sua Aprilia RS 125 e la completa tenuta da corsa.
È presente anche il pomeriggio del 13 agosto 1999.
Quando ormai s'è fatto tardi e sta tornando a casa insieme ad un amico, si incuriosisce per l’arrivo di uno sconosciuto con la sua stessa moto e abbigliamento da pista. Decide così di girare un po’ insieme a lui.
L’amico, rimasto ad aspettarlo, dopo qualche giro vede comparire solo lo sconosciuto, che gli si avvicina, senza togliersi il casco, e lo avvisa che Matteo è caduto. Poi se ne va: rimarrà per sempre uno sconosciuto.
 

 
Matteo sul "circuito" delle Torri Bianche


Matteo è a terra, ha perso conoscenza: non saprà mai cosa sia successo, se abbia fatto tutto da solo o se le due moto si siano toccate.
Viene inizialmente soccorso da un‘ infermiera, passata di lì per caso, e poi trasportato prima all'ospedale di Vimercate e poi a quello di Legnano.
I danni subiti sono gravi. Perde un rene; subisce gravi lesioni al plesso brachiale, da cui consegue la perdita dell’uso del braccio e della mano destra, si rompe la schiena e ha  serie lesioni interne.
Però la vita va avanti e lui reagisce bene. Non entra mai in depressione, conseguenza abbastanza frequente, e comprensibile, di questi eventi. Grazie a un’operazione, prima, e all’elettrostimolazione e la fisioterapia poi, recupera l’uso del bicipite –“riesco a piegarlo e posso tenere in braccio Samuele” (suo figlio); si risalda anche la schiena, che rimane solo leggermente curva.
Un medico gli prospetta il possibile recupero della mano attraverso un nuovo intervento chirurgico. Non ci crede troppo ma ci si sottopone. Il risultato negativo, previsto, non lo scoraggia: in quindici giorni impara a scrivere con la mano sinistra. La vita va avanti, appunto.


ESTATE 2013: DI NUOVO IN SELLA
 

Sono passati 14 anni dall’incidente. Matteo lavora a Milano come tecnico informatico. Ha sposato Claudia e insieme hanno avuto un figlio, Samuele.
A Verderio Inferiore è stato impegnato nell’Amministrazione Comunale prima come consigliere, poi come vice-sindaco e assessore alla cultura e allo sport. 

Dalla sera dell’incidente non è mai più salito su una moto.
Un giorno di luglio, navigando su internet si imbatte nel sito di un’associazione fondata qualche mese prima, nel gennaio del 2013. Si chiama Diversamente Disabili ed è nata per “(ri)avvicinare al mondo delle due ruote tutti quei ragazzi disabili che per difficoltà economiche, burocratiche, logistiche e psicologiche non hanno avuto la possibilità di farlo” .
 

Emiliano Malagoli, a sinistra, e Matteo Baraldi
 
Matteo si incuriosisce ma, dice, con un certo distacco. La curiosità lo porta a inviare una mail  a cui fa seguito una risposta quasi immediata: lo chiama al telefono Emiliano Malagoli, anima dell’associazione, di cui è presidente ed è stato, insieme a Matteo Baraldi, fondatore.

 
Il logo dell'associazione Diversamente Disabili

 Emiliano, che ha perso una gamba in un incidente stradale nel 2011, ma quasi subito è tornato in sella e a gareggiare in pista, è un entusiasta che sa trasmettere questo sentimento anche agli altri. Al telefono, senza troppa insistenza, convince Matteo a fare una prova. Gli propone di recarsi al circuito del Mugello, in una giornata di agosto“per provare a fare questa pazzia”; lui avrebbe procurato una moto adatta e la prova sarebbe stata gratuita.
La proposta è allettante, ma come reagiranno in famiglia? Con Claudia va meglio di ogni previsione: dice subito di sì e lo incoraggia a provare. La mamma invece non è d’accordo, è preoccupata e non lo nasconde; il papà, Emilio (“Hogan”, come è da tutti conosciuto a Verderio. Solo io non lo sapevo) asseconda la mamma, ma è poco credibile:“sotto sotto si vedeva che ci teneva”. Anche i genitori di Claudia sono favorevoli, raccomandandogli, naturalmente, prudenza e di non fare “troppe stupidaggini”.
“Nessuno– chiedo – ti ha detto: ma sei scemo?”
“No, nessuno. E io sono un tipo che di solita usa la testa: non avrei fatto stupidaggini”


LA PRIMA VOLTA, LA NUOVA MOTO, LE PROVE
 

“Siamo arrivati al Mugello dalle Marche, dove eravamo al mare, io Claudia e Samuele. La moto che mi hanno dato era un po’ vecchiotta ma comunque una 600 della Yamaha. Era di Matteo Baraldi, che in un incidente ha perso il braccio destro, quindi adatta anche a me. Matteo mi ha messo in sella e ha cominciato a parlarmi, a spiegarmi come fare. Non è stato facile mollare per la prima volta la frizione, ci avrò messo almeno un quarto d’ora. Poi, una volta partito, è stato tutto più semplice di quanto sembrava. Però le prime volte, quando sali la paura ce l’hai, eccome. E ce l’hai anche adesso, anche se sei più tranquillo perché hai fatto tante esperienze, sai come funziona la moto, come tu sei in grado di governarla. O hai l’ illusione di essere in grado di governarla, perché in moto questa è solo un illusione”.




Torna a casa deciso: acquista una moto da pista, una Honda Cbr rr 600..
 

Ora bisogna adattarla. spostare tutti i comandi sulla mano sinistra e creare "sperimentare" tutti i meccanismi migliori per poterla guidare con facilità. lo fa prima nell'officina di un amico, Carzaniga a Calco, poi si sposta nella propria, l'Autoquattro, della famiglia di Claudia, dove ora loro due sono soci.
 

Quando è necessario interviene anche un meccanico specialista di motociclette, Eugenio Spada di Verderio.
 

Hogan costruisce, da un pezzo di alluminio pieno, la leva del freno, che deve essere più corta, più stretta e in una posizione leggermente diversa dal normale. Deve poter essere tirata a pieno con solo due dita e fermare la moto.
La prima prova è sul piazzale dell’officina. Non è un successo: gli “parte il gas”, scivola e si ritrova per terra. Si rialza e si rimette subito in sella, prima che la paura faccia effetto. Anche questa esperienza però è servita: Matteo, quando è in moto, ha la mano destra fissata al manubrio con strisce di velcro; la presa deve essere ben salda ma, nello stesso tempo, deve essere tale da staccarsi e lasciar libera la moto in caso di caduta. Sul piazzale il meccanismo ha funzionato.


Matteo in pista
Ma per provare davvero ci vuole una pista. Ancora una volta grazie a internet, viene a sapere di un circuito a Cervesina, vicino a Pavia. Il proprietario, Giorgio Traversa,“è una persona fantastica”. Matteo gli telefona, gli racconta la sua storia e gli chiede se può usare il suo circuito. Giorgio è subito disponibile, concede gratuitamente quanto gli è richiesto e s’interessa della Associazione, della quale  diventerà un grande amico e sostenitore .
Matteo ha dovuto reimparare a guidare la moto, resettare quello che sapeva fare e ricominciare da capo. Il lungo lasso di tempo trascorso senza montare in sella forse ha facilitato le cose.
Potendo contare su una sola mano e un solo braccio, ha dovuto imparare a usarli meglio e ad usare diversamente le gambe. Col tempo ha trovato il metodo adatto alla sua situazione personale.


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LE GARE

Cosa ci può essere di più ambito, per un appassionato di motociclismo, che partecipare a una gara?
Matteo da tre anni partecipa a quella internazionale, inserita all’interno della Coppa Italia, che l’associazione Diversamente Disabili (Di.Di.) organizza, in agosto, all’autodromo del Mugello. Per potersi iscrivere ha dovuto conseguire la licenza agonistica, la stessa dei piloti professionisti.
 

La prima gara, nel 2014, non va bene. Al terzo o quarto giro,alla fine di un rettilineo dove si arriva a 250 Km/h, la mano destra si stacca. È panico –“il cuore arriva in gola” – ma Matteo riesce ad accostare ai bordi della pista. Con l’aiuto di un commissario di gara cerca di riagganciare la mano per poter ripartire: niente da fare. Si deve ritirare. 
In tribuna ci sono tutti i famigliari: non lo vedono arrivare e, dalla loro posizione, non vedono neanche che è fermo; lo speaker non annuncia niente. La paura è fortissima e non scompare fino a quando il genitore di un altro pilota, di Cornate d’Adda, lo vede fermo e tranquillizza gli animi.
 

L’anno dopo, 2015, va meglio. Arriva al traguardo.
 

Nel 2016 è un successo: Matteo è secondo per la sua categoria, quella dei piloti con problemi agli arti superiori. Perché la corsa è una sola, tutti corrono insieme, ma poi le classifiche sono stilate secondo la disabilità.






“L’anno scorso mi sentivo bene, e quando ho visto che il gruppo davanti frenava prima di me mi son detto «cià, proviamo a superarli» ed è andata bene, sono arrivato secondo. Secondo di categoria, perché nel gruppo sono arrivato, forse decimo o giù di lì. Quando ho sentito  il mio nome e che dovevo salire sul podio, è stato molto emozionante. Salire sul podio del Mugello, con l’Inno d’Italia e Marco Melandri, pilota della superbike, che è venuto a darmi la coppa: un sogno che mai avrei pensato di poter realizzare. Non ti dico i miei – “fiischia” - in lacrime che urlavano sotto il podio. Samuele poi: “il papà supereroe” con la coppa. Bello, è stato molto bello”


 


 
2016: Matteo sul podio. Nella foto sopra è il primo a sinistra

Alla preparazione e allo svolgimento delle gare partecipa con passione tutta la famiglia.
 

Hogan, il padre, è il primo meccanico, almeno come entusiasmo: appena si avvicina un weekend di gara o iniziano i corsi dell'associazione lui si attiva e segue tutta la preparazione. Guai se alla partenza non c’è lui, ad aiutare Matteo a vestirsi, a infilare tuta e guanti.

 
Matteo, con il padre Emilio "Hogan", si prepara alla gara

Anche Samuele, “gasatissimo”, partecipa alla vestizione, passando i guanti e altre cose alla sua portata.
 



Matteo assistito dal figlio Samuele

Claudia fa l'“ombrellina”, la ragazza che alla partenza ripara il pilota con un ombrellino, un’usanza di cui non ero a conoscenza.  

 
Matteo con Claudia nel ruolo di "ombrellina"

Matteo si limita a una gara all'anno. Le corse richiedono un grosso impegno sia di tempo che economico: le assenze dall'officina; l'iscrizione alla gara, le prove, le gomme, quelle normali e quelle da pioggia; i meccanici che devono fare assistenza durante la competizione e via discorrendo.

Di.Di.: “DIVERSAMENTE DISABILI”, UN’ASSOCIAZIONE DI SERVIZIO
 

Dal 2013, quando è nata e quando Matteo è entrato in contatto con lei, l’associazione Di.Di. ha avuto un notevole sviluppo ed è ormai conosciuta ed apprezzata anche a livello internazionale.
La sua principale attività è come sempre quella di aiutare ragazzi disabili a salire, o risalire, su una motocicletta.
A questo scopo organizza corsi, sia quelli idonei a conseguire la licenza per intraprendere l’attività agonistica, che quelli per ottenere la patente di circolazione sulle strade. I corsi si svolgono sul circuito di Cervesina, di cui abbiamo parlato all’inizio.
Matteo si è reso disponibile a lavorare come istruttore in questi corsi e, da come ne parla, si capisce che la soddisfazione che ne trae è pari a quella che ricava dalla partecipazione alle gare.


 
Matteo, a destra, con un ragazzo che ha frequentao un corso di Di.Di.

“Purtroppo anche quest’anno avremo tanti ragazzi ai corsi. Dico purtroppo perché vuol dire che tanti hanno avuto incidenti in strada, o in circuito o magari sul lavoro. Però è bello vedere che riprendono un po’ la voglia di vivere, di fare quello che facevano prima.
Una delle cose che mi lascia sempre il segno è, il mattino dei corsi, vederli arrivare, ragazzi e ragazze, tutti esaltati: «ma quali sono le moto che ci fate provare? ci porti in pista? ci segui te, vero? ». Al contrario, i parenti che li accompagnano, mogli, figli, genitori, hanno facce disperate «Ma no, cosa sta facendo, gliel’ho detto io di non fare questa cosa … nooo!». Allora io cerco di tranquillizzarli, di dirgli che faremo le cose pian piano e che comunque, se alla fine non se la sentono, possono scendere e rinunciare. Poi, a fine giornata, sono tutti euforici, parenti compresi. Nell’associazione si conosce tanta gente e si instaurano rapporti molto belli. Lì dentro la maggior parte delle persone ha una disabilità, ma questa, che magari in altri contesti ti crea problemi, qui non fa nessun effetto. Uno non ha un braccio, uno una gamba, uno è in carrozzella, ma nessuno si piange addosso. Questo è un aspetto bellissimo dell’associazione per cui io devo stare in questa associazione per forza - fiischia!”


Lezione teorica durante un corso di Di.Di.

I corsi si svolgono nell’arco di una giornata e comprendono anche delle sessioni di teoria, in aula, in cui viene spiegato come si sta in circuito, quali sono le regole, i comportamenti e i metodi di guida.
Negli anni l’associazione, anche grazie a diverse donazioni, si è dotata di un parco moto, per far fronte alle diverse esigenze dei ragazzi che le si rivolgono: chi non può usare il braccio destro, chi il sinistro, chi ha una sola gamba, ecc.
Fra i suoi soci ci sono alcuni ragazzi paraplegici. La moto adatta a loro, che non hanno l’uso di entrambe le gambe, è dotata di rotelle posteriori che si abbassano sotto una certa velocità e si alzano e scompaiono quando la velocità è superata.


Le gare che l’associazione organizza si svolgono sempre all'interno di una manifestazione importante, come, ad esempio, la Coppa Italia. Ciò ha permesso ad un pubblico sempre più numeroso la conoscenza del motociclismo delle persone disabili e ha suscitato interesse anche fra gli altri piloti, che spesso fanno visita al settore dell’associazione, conoscono i ragazzi e si mostrano curiosi delle loro moto.
La stima che l’associazione si è guadagnata sul campo l’ha portata a raggiungere un altro ambizioso risultato. Una sua gara si svolgerà infatti sabato 20 maggio in Francia, sul famoso circuito di Le Mans, in concomitanza con il Motomondiale, in programma il giorno successivo. 



Madrina di Diversamente Disabili è Annalisa Minetti, cantante e atleta paraolimpica; padrino l’ex campione di motociclismo Lucio Cecchinello. Con l’associazione collabora anche Nicola Dutto, campione di Enduro, vittima di una grave incidente, per il quale ha perso l’uso delle due gambe. Nicola ha però ripreso a correre ed è stato il primo atleta paraplegico a gareggiare assieme ai normodotati in un mondiale Desert Race.

Dovrebbe riprendere il prossimo mese, su Auto Moto TV, un programma di Sky, una trasmissione quindicinale curata da Di.Di., condotta da Annalisa Minetti e dedicata alle attività dell’associazione.

 
Annalisa Minetti












 
Lucio Cecchinello



 
Nicola Dutto










È stato abbastanza difficile per me entrare nell’ottica di Matteo e dell’associazione di cui fa parte: non so guidare una moto; i miei amici non mi ci portavano perché dal sellino dietro tendevo a voler guidare, o meglio a cercare di raddrizzarli quando in curva si chinavano troppo; non guardo le corse in TV, perché mi fanno impressione. A Matteo avevo annunciato che la prima domanda che gli avrei fatto sarebbe stata più o meno questa: “Ma Matteo, sei fuori di testa?”
 

La lunga chiacchierata con lui mi ha aiutato però a capire quanto possa essere importante, per chi ha subito un grave danno alla propria persona, al proprio corpo, reagire e individuare le strade che possano portarlo a vivere il più pienamente possibile la propria vita e a coltivare le proprie passioni. Anche quelle, come in questo caso, che sono le stesse che quel danno hanno provocato.
 

Tanto di cappello allora a chi, come Di.Di., li aiuta, con intelligenza, a individuare il proprio percorso, a scegliere e adattare il mezzo alla propria specifica situazione e a valutare coscientemente il grado di rischio accettabile, essendo il grado “zero” inesistente.
 

Che poi andare in moto sia un po’ da “fuori di testa”, questo, dalla mia di testa, non lo leva proprio nessuno.

Marco Bartesaghi

Vi indico alcuni siti che hanno a che fare con l'articolo che avete appena letto:

1)https://www.diversamentedisabili.it/ : indirizzo del sito dell'Associazione Diversamente Disabili.

2)  http://www.circuitotazionuvolari.it/ :indirizzo del sito del Circuito Tazio Nuvolari, a Cervesina, in provincia di Pavia, del signor Giorgio Traversa.

3) https://it.wikipedia.org/wiki/Annalisa_Minetti : indirizzo di wikipedia per saperne di più su Annalisa Minetti.

4) https://it.wikipedia.org/wiki/Lucio_Cecchinello : indirizzo di wikipedia per saperne di più su Lucio Cecchinello

5) http://www.nicoladutto.com/ : indirizzo del sito di Nicola Dutto


GRANDE È LA TERRA, POCHI I GIARDINIERI di Giorgio Buizza

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Questo articolo, che Giorgio Buizza mi ha gentilmente permesso di postare sul blog, è stato pubblicato nell'ultimo numero della rivista del parco di Monza: il Parco, la Villa, quaderno n. 8, giugno 2016.
L'autore ha già collaborato con il blog in diverse occasioni. Potete trovare i suoi interventi sotto l'etichetta che porta il suo nome.
Concludo questa brevissima presentazione facendo notare  che nel presente articolo, dovendo con una fotografia fare un esempio di "albero grande e bello", Buizza ha scelto il platano di Verderio. M.B.





GRANDE È LA TERRA, POCHI I GIARDINIERI di Giorgio Buizza 

Le immagini della scuola giardinaggio di Versailles sono tratte da: Traité de la Culture
Fruitière – Masson et C.ie Editeurs - Paris 1900 Troisième édition
PREMESSA
 

Secondo il grande progetto della Creazione (Genesi 2, 15-16) siamo stati posti dentro il Giardino di Eden per esserne custodi e per vivere felici. Ciascuno è chiamato a dare il proprio apporto di custodia del giardino e a rispettare ciò che ha attorno, usarne con giudizio, trarne benefici e soddisfazioni, coltivarlo per ricavarne buoni frutti. Nella lingua persiana arcaica giardino e paradiso erano la stessa cosa. Sappiamo che non è andata così, che il nostro mondo attuale è ben diverso dal Giardino prefigurato dalla Bibbia. Abbiamo però il compito, oltre che di coltivare il nostro mondo, ciascuno per la parte che gli compete, di giocare il nostro modesto ruolo di giardinieri disponendo piante e fiori sul terrazzo, coltivando il nostro piccolo spazio verde privato con alberi e cespugli, oppure, per chi lo fa di professione, di occuparsi anche del verde comune e di custodire una parte della creazione che porta in sé, in forme più evidenti, i caratteri della naturalità e che meglio può prefigurare il Paradiso.


IL GIARDINIERE: UNA FIGURA COMPLESSA E ORMAI PIUTTOSTO RARA

Nel linguaggio corrente il giardiniere è quella persona, solitamente maschio, con le mani callose, con residui di terra sotto le scarpe e sui pantaloni, quasi sempre col cappello, abbronzato, poco espansivo, anzi piuttosto burbero, con le sue idee precise che difficilmente è disposto a confrontare o a modificare perché le ritiene frutto di una lunga esperienza che garantisce da sola il buon risultato della prestazione.
Secondo un profilo tradizionale il giardiniere è l’uomo di fiducia, il custode della casa, il tutto-fare che bada sì ai fiori, alle aiuole, al taglio dell’erba, alla potatura della siepe e dei cespugli, alla raccolta delle foglie, alla gestione dell’orto, ma al quale si affida anche la vigilanza della casa, la riparazione del muretto, la pulizia dei canali di gronda, lo spurgo dei pozzetti, la sistemazione della staccionata, il campo da tennis, la sistemazione degli impianti, gli interventi in casi di emergenza.
In verità sono pochi coloro che, disponendo di una grande proprietà, possono assumere un dipendente che svolga tutte le mansioni sopra elencate. L’uomo di fiducia, dove esiste, svolge oggi un compito di custodia e sorveglianza, confinato in guardiola o in portineria, senza calli sulle mani, con un abbigliamento civile, ordinato, pulito, in grado di maneggiare i meccanismi complessi della gestione impiantistica: citofoni, videosorveglianza, distribuzione della posta, rapporti coi fornitori.



Possiamo tentare di definire un profilo più aggiornato di giardiniere.
Anche per i piccoli giardini condominiali, la cura del verde è oggi generalmente affidata ad una impresa, più o meno specializzata, che può cambiare ogni pochi anni, che segue un mansionario o un capitolato d’appalto (quando c’è) che spesso si limita a stabilire il numero degli sfalci annuali e il numero di passaggi per la raccolta delle foglie. Quando va bene è responsabile anche dell’annaffiatura del giardino attraverso un impianto automatizzato da programmare ad inizio stagione e da controllare periodicamente o su chiamata.
Si potrebbe pensare che in mancanza di giardinieri tradizionali singoli e rustici, ci si possa avvalere dei giardinieri organizzati, cioè di imprese specializzate nella costruzione e manutenzione dei giardini. Purtroppo non è così.
Chi si è trovato a lavorare con le imprese deve riconoscere che, salvo rare eccezioni, la squadra operativa fa capo ad un (forse) giardiniere attorno a cui si muovono altri operatori che svolgono mansioni ripetitive e di bassa professionalità (uno sul tosaerba, uno col decespugliatore, due con gli attrezzi manuali). Durante l’inverno si abbandonano i rasaerba e i decespugliatori sostituiti dalla motosega e dal tagliasiepi per effettuare le potature. Chi usava gli attrezzi manuali in estate continua ad utilizzarli per raccogliere foglie cadute, per alimentare  la cippatrice, per caricare ramaglie.
Non è infrequente che la squadra di giardinieri sia guidata da un ex operaio metalmeccanico, rimasto disoccupato, o da un giovane neo diplomato che non avendo trovato altro sbocco, ha fatto un modesto investimento in attrezzature e, con tanta buona volontà, si è buttato sul mercato alla ricerca di un suo piccolo spazio, con tanta fatica e con magre soddisfazioni dovendo competere con altri disperati di pari livello.
Anche costoro rientrano nella categoria dei giardinieri.
Mentre altre categorie puntano e competono sulla qualità del proprio prodotto o della propria prestazione, nel settore del giardinaggio ci si accontenta del lavoro rutinario, generico, minimale, dequalificato: si sa che solitamente il committente non ha le competenze per valutare la qualità di un lavoro o di una prestazione, non va a verificare se il decespugliatore ha provocato danni agli alberi, se la potatura è fatta nel rispetto della salute dell’albero. In fondo son capaci tutti di piantare un albero: basta fare un buco metterci la zolla e richiudere; per potare un albero bastano una scala e un segaccio; per seminare un tappeto erboso basta comperare un sacchetto di buon seme al supermercato.
Sulla figura del giardiniere scontiamo un deficit culturale che comprende tutto il problema della gestione degli spazi verdi che, a partire dagli enti  pubblici, sono sempre messi in coda, godono di modesti o scarsi finanziamenti, non richiedono professionalità specifiche, ci si arrangia con quello che c’è alla ricerca del massimo ribasso.


Un giardiniere comunale davanti al suo
Municipio (…in Francia).

Anche se il territorio lombardo è caratterizzato dalle Ville di delizia con ampi parchi di antica formazione e con giardini ricchi di grandi alberi, testimoni della buona gestione del passato, il mestiere del giardiniere è andato progressivamente perdendo smalto col passare delle generazioni.
Nella maggior parte dei comuni piccoli e medi il servizio giardini va a rimorchio dell’ufficio strade o della manutenzione dei fabbricati; il responsabile dell’ufficio giardini è spesso un geometra o un ingegnere con scarse conoscenze di biologia, di arboricoltura, di vivaismo, di allevamento vegetale. Nessuno però si preoccupa di metterlo in condizioni di acquisire queste competenze mediante corsi, convegni, approfondimenti, incentivi; si preferisce mantenere un basso profilo del servizio e, alla lunga, lasciare andare alla malora il poco verde urbano rimasto. Alla fine i risultati si vedono e spesso si fa ricorso ai volontari e alle loro associazioni che dimostrano una encomiabile buona volontà a cui spesso non corrisponde una adeguata capacità e competenza.


GIARDINIERE: UNA PROFESSIONE DAI CONTORNI INDEFINITI

Quando parliamo di giardinieri possiamo avere in mente figure quali L. Villoresi al Parco di Monza, A. Le Notre a Versailles, J. Graefer a Caserta, persone che per le loro qualità e per i risultati acquisiti sono rimasti nella storia.
Usiamo lo stesso termine per figure più quotidiane quali gli addetti alla manutenzione del verde che tagliano l’erba nel giardino condominiale o nella rotonda spartitraffico del Comune.
Il rischio della confusione è evidente ma, anche volendo, non è facile mettere ordine.
Nelle pagine che seguono, non trovando altro modo per distinguere le due figure, userò il termine con la iniziale maiuscola (Giardiniere) per indicare colui che il suo mestiere lo sa fare bene perché dotato di competenze, esperienze, dinamismo, capacità di aggiornamento, e userò il termine con la iniziale minuscola (giardiniere) per indicare l’operaio che pur maneggiando con competenza gli attrezzi del mestiere non ha maturato esperienze adeguate, tratta le piante come il capomastro tratta i mattoni, non ha avuto un maestro, non ha l’umiltà di riconoscere che c’è ancora molto da imparare.
I nostri vecchi Giardinieri, alle dipendenze di famiglie facoltose o di enti pubblici, erano molto probabilmente figli d’arte; si tramandavano il mestiere di generazione in generazione, e acquisivano capacità e competenze sul campo, sotto la guida di capi anziani esperti; pochi di loro potevano vantare titoli di studio quali diplomi e lauree, ma le capacità e la maturità professionale erano acquisite poco alla volta attraverso l’esercizio, l’emulazione e il maturare dell’esperienza.
Pare che questa categoria si sia estinta o stia per estinguersi lasciando nulla in eredità  alle nuove generazioni. Ci saranno dunque sul mercato tanti giardinieri e sempre meno Giardinieri.
Anche nel giardinaggio la qualità richiede specializzazione. Il problema sta proprio nel conciliare una visione globale e complessiva delle dinamiche legate al mondo vegetale e al giardino con i necessari approfondimenti specialistici.
Il giardiniere è solo un esecutore che realizza idee e progetti pensati da altri; il Giardiniere, date le sue competenze in materia di vegetazione, è in grado di ideare nuove soluzioni e di dar vita a nuovi progetti e nuovi paesaggi. Il giardiniere usa essenzialmente il trattorino e la motosega; il Giardiniere usa spesso le forbici, ma utilizza anche tecnologie sofisticate, usa il PC, è in grado di eseguire una endoterapia o un trattamento antiparassitario efficace e rispettoso dell’ambiente.



Una volta si adattava l’altezza dell’albero
alle attrezzature disponibili.
Oggi per conservare gli alberi il giardiniere
impiega attrezzature sofisticate e
di grandi dimensioni
Potremmo tentare di definire cosa non è un Giardiniere: non è un architetto, non è un botanico, non è un ingegnere, non è un pedologo/geologo, non è un paesaggista,non è un taglialegna, non è un filosofo né un poeta.  Forse, se dotato di una buona dose di umiltà, è un miscuglio organizzato di tutto ciò al punto che: ama la vita e in particolare quella delle piante e dei fiori, opera per la sopravvivenza delle piante, anche le più scassate e le più acciaccate almeno quando rappresentano un ricordo, un pezzo di storia, una vicenda o un luogo o un avvenimento particolare;  sa usare le mani e non ha timore di immergerle nell’acqua e nella terra perché gli alberi e i cespugli non sono fatti solo di fiori e colori ma sono organismi viventi con le radici nel terreno e con le foglie all’aria che hanno bisogno di luce e di acqua in misura appropriata; conosce profondamente il mondo vegetale e le sue correlazioni con l’ambiente e utilizza queste conoscenze per abbinare la salute delle piante alle condizioni climatiche e al tipo di substrato; ha il gusto del bello, delle forme armoniose, dei piacevoli accostamenti di colore, delle scenografie emozionanti; è in grado di tradurre in schizzi e disegni le sue intuizioni cioè di predisporre un progetto comprensibile dal committente e da chi dovrà poi attuarlo; si orienta con competenza nel ciclo annuale della vegetazione organizzando la successione delle fioriture in modo da garantire alternanze e successioni di colori, di forme, di paesaggi nel corso dell’anno; dispone di una rete di rapporti con i diversi settori del mercato; sceglie oculatamente i fornitori di piante; si avvale degli specialisti nei momenti in cui si presentano problemi particolari o che richiedono attrezzature specifiche; è in grado di distinguere una fornitura di alberi di prima scelta rispetto ad una fornitura di piante di scarto e, in tal caso, è capace di respingerle al fornitore.



Classici attrezzi manuali del giardiniere.



Nella maggior parte dei casi il Giardiniere, pur bravo, non può vantare opere compiute perché un giardino è vivo, incompiuto e in divenire, l’esito dello sviluppo di un albero spesso è riconoscibile in un tempo che va oltre la vita stessa del giardiniere e, quando l’albero è diventato magnifico, nessuno si ricorda più il nome di chi l’ha piantato e curato nei primi anni di vita, presupposto per una maturità gloriosa e affascinante.
I giardinieri, pur bravi quasi mai passano alla storia, ma scivolano nell’oblio, anche perché il progetto del giardino ben difficilmente viene documentato alla pari del progetto dell’edificio, inoltre il giardino subisce una evoluzione e un cambiamento dovuto ai cicli biologici e alle vicende naturali raramente rispettose del solo progetto originario. E’ proprio la capacità di inserirsi con umiltà, competenza e armonia in una storia già iniziata che qualifica il Giardiniere che dà il suo contributo alla causa e alla storia comune aggiungendo frammenti di bellezza al quadro già pensato e iniziato da altri e che altri ancora saranno chiamati a prolungare.




ANCHE I GIARDINIERI HANNO I LORO PROBLEMI 

Il Giardiniere sa che l’albero è fatto di radici, fusto, rami e foglie e si preoccupa, pensando al futuro dell’albero, della quantità di terreno indispensabile per accogliere le radici, dello spazio entro cui i rami potranno svilupparsi, dell’altezza che l’albero sarà in grado di raggiungere nella sua età matura. Spesso è costretto, in base a progetti pensati da altri, a piantare alberi in siti inospitali, con poca terra, con poco spazio, con poche o nulle prospettive di sopravvivenza. Diventa corresponsabile, suo malgrado, di un lavoro malfatto e di uno spreco di risorse.
I manutentori del verde ereditano alberi che sono il risultato di cure eseguite da chi ha operato in precedenza: a volte l’eredità è preziosa, altre volte è il risultato di manipolazioni pesanti e inappropriate (potature drastiche per adeguare l’albero allo spazio disponibile, conoscenze biologiche approssimative, consuetudine del tipo "si è sempre fatto così”, riduzione dello spazio al suolo per allargare la strada o il marciapiede o per installare tubazioni di vario genere).
Un tempo era anche più facile sostituire gli alberi in città; la disponibilità di spazi liberi lo consentiva, la sostituzione era vissuta come un fatto normale; oggi non è più così perché molto spesso, dove per sopraggiunte esigenze si tolgono i vecchi alberi, non ci sono più le condizioni idonee per ripiantarne altri nuovi, perciò un vecchio albero (o un intero filare) tagliato è spesso perso per sempre. A volte il giardiniere viene investito della responsabilità di provvedere al taglio definitivo di un albero malandato e insicuro, e deve quindi compiere l’atto finale di una vicenda a cui non ha preso parte.
Mentre i cittadini più accorti invocano un incremento del verde per ragioni di benessere, salute, paesaggio – i cosiddetti servizi ecosistemici - gli alberi vecchi, anziché suscitare rispetto, attenzione, affezione, evidenziano sempre maggiori criticità.



Un albero grande e bello è frutto
 delle leggi della natura e della capacità
 di generazioni successive di bravi Giardinieri.
[Questo è "il platano" di Verderio NdR]


Un Giardiniere sa riconoscere l’energia residua di un albero anche dalla vitalità con cui rimargina eventuali ferite, dalla forma e dal numero delle gemme, dalla lunghezza e dallo spessore dei rametti, dalla quantità di fiori e dei frutti che produce. Una diagnosi seria, a volte, ha bisogno di un periodo di osservazione di alcune stagioni successive; non sempre il committente è disposto a rinviare la decisione in attesa che la diagnosi sia completa; nel dubbio è solitamente l’albero a farne le spese.
Il Giardiniere ama la vita pertanto la conserva, anche negli alberi, il più a lungo possibile, sia per rispetto di colui (o coloro) che molti anni prima ha deciso di piantare quell’albero, sia per il valore dell’albero in sé, come espressione di una vita sua particolare, diversa da quella degli umani, ma sempre strettamente ad essa correlata, sia perché l’albero – in particolare l’albero vecchio – è in grado di ospitare uccelli, rapaci, roditori e tanti altri ospiti che possono arricchire la biodiversità dell’ambiente urbano. Tutti gli organismi senescenti (animali, umani, vegetali) hanno un ritmo diverso, più lento, più stanco; il vecchio albero – come il vecchio nonno - è in grado di raccontare, con la sua sola presenza, una pezzo di storia di quella città, di quel quartiere, delle persone che lì sono vissute.


Operatori climber eseguono lavori di
potatura su una grande conifera senza
l’impiego di piattaforme aeree


L’evoluzione della strumentazione, come in tutti i campi, è un dato oggettivo: le piattaforme aeree e la motosega sono strumenti che, se impiegati con oculatezza, possono offrire buoni servizi e contribuire a garantire la salute e la longevità degli alberi; se usate in modo inappropriato possono fare disastri. Ne è un esempio la cimatura delle conifere eseguita nella illusione di rendere l’albero più sicuro. In tempi passati, senza piattaforma e senza

Attrezzatura per la cura endoterapica di
un albero.
 
Il giardiniere applica e utilizza sofisticate
attrezzature per la verifica di stabilità
di un albero mediante polling test.
motosega, era molto più difficile fare la cimatura delle conifere perché costava molta fatica e qualche rischio anche per i più bravi; oggi un qualunque operatore con i piedi sulla piattaforma arriva facilmente all’altezza desiderata e, con la motosega, impiega pochi secondi a rovinare irreparabilmente un albero e un paesaggio.

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LE  JARDINIER DE VERSAILLES

Alain Baraton, è responsabile del parco di Versailles dal 1982 ed è uno dei giardinieri più conosciuti in Francia. Nel 2006 è stato pubblicato in Francia il suo libro Le Jardinier de Versailles tradotto in italiano e pubblicato dall’editore Skira nel 2015 con il titolo Il giardiniere di Versailles.
Il testo offre molte notizie e aneddoti della vita passata e presente dei giardini di Versailles e della figura e del ruolo del Capo Giardiniere e dei giardinieri in generale. Le analogie di dimensione, di origini, di storia e di utilizzazione stimolano alcune riflessioni sostituendo lo scenario parigino con il Parco di Monza.
Alain Baraton, nato nel 1957, quinto di sette figli, riconosce di non essere nato con la camicia. Quando era bambino dai suoi famigliari era soprannominato caccola: il figlio né buono né cattivo da cui non si riesce a cavare niente. Non presentava doti né manuali né intellettuali e forse per questo è diventato giardiniere. I genitori lo hanno iscritto all’istituto agrario, decisione a cui non si è opposto, ma - così afferma – non ho mai avuto quella che si chiama una vocazione.
Il riferimento ideale è stato probabilmente il nonno con il suo piccolo giardino, definito l’eden della mia infanzia.
La figura del nonno è caratterizzata così: goccia al naso, stivali alti, grembiule blu, cappello di paglia, e cesoie in mano: la figura del giardiniere ideale. Di professione liutaio, uscito malandato dalla guerra, alla fine della vita lavorativa si era dedicato al suo giardino modello, finalizzato soprattutto a risolvere il problema alimentare; i mazzi di fiori erano arrivati in seguito. Era un uomo estremamente gentile, che senza mai alzare la voce, sapeva mostrare la sua autorità. Quell’uomo delizioso mi ha trasmesso la sua vocazione in modo indiretto e, anche se non mi ha mai incoraggiato in questa direzione, mi ha indicato la via.



Baraton cita ripetutamente i suoi Maestri di riferimento: Le Notre, Le Vau, Le Brun, Richard (giardiniere di Luigi XVI), e i giardinieri suoi predecessori Choron e Crochard. A 19 anni inizia come aiutante giardiniere la sua avventura professionale a Versailles. A quell’epoca il lavoro del giardiniere era stremante, era più un’attività da scavatore che non da coltivatore di fiori: raccogliere foglie morte, caricarle sul trattore, tagliare e caricare gli alberi morti. Successivamente diventa giardiniere mosaicista, attività che gli consente di potare, disegnare e rimodellare le siepi di bosso. Diventa capo squadra e responsabile dell’aiuola nord. Nel 1981 diventa vice capo giardiniere, e poco tempo dopo, a soli 24 anni, è il più giovane giardiniere-capo di Versailles.
Amministrare il parco di Versailles è come la gestione di una piccola/media impresa; con i suoi ottocentocinquanta ettari  su cui lavorano più di cento giardinieri, è un vero regno.
A proposito del mestiere da imparare e da mettere a frutto A. B. scrive: Amo la nozione di apprendistato: non per il gusto di un’epoca tramontata, ma perché sottintende che per conoscere ci vuole tempo. Un gesto si impara con lentezza, meno rapidamente di una formula matematica: la mano, la memoria del corpo è più lenta dell’intelletto. Quante volte bisogna rifare un gesto, per quanto semplice, per padroneggiarlo? Ci vogliono anni per diventare pianista, perché la mano incorpori il sapere, Come si fa a credere che un mese (la durata media di uno stage) basti a fare un giardiniere?
La lentezza è essenziale al mio mestiere: le lumache scelte da Le Notre per decorare il suo blasone sono un modo ironico per sottolineare questo aspetto basilare. Ecco perché la rivoluzione tecnologica degli ultimi anni non è stata un successo. La ricerca ha permesso miracoli, non nei giardini.

A proposito del proprio apprendistato A. B. racconta: C’era sempre un giardiniere che si impegnava per mostrarmi i gesti, dirmi che se mi mettevo in quel modo o nel’altro avrei avuto il mal di schiena, spiegarmi come ripartire il peso e limitare gli sforzi. Ovviamente sfacchinavo e mi ricordo che non potevo lamentarmi se avevo le vesciche, ma sentivo che lo sforzo non era vano, e che imparavo. Quando uno ha le mani a pezzi, paralizzate dai crampi e scorticate dalle vesciche, la frase “segni del mestiere”, se non è un rimedio, almeno è un conforto. I compiti che mi affidavano erano molto semplici, ma bisognava conoscere tutti i piccoli “trucchi” per svolgerli bene. Non sono cose che si possono trovare nei libri, né sapere accumulando diplomi. Si tratta di una pratica insieme molto semplice e molto umana, ma che ha bisogno di un apprendistato: io non credo troppo al’apprendimento per corrispondenza. Nel campo del giardinaggio bisogna non solo esercitarsi, ma anche farlo sotto l’occhio di un anziano che ti corregge e ti indica i mille segreti della professione. Forse questo è l’appannaggio dei mestieri che si chiamano, spesso con una punta di condiscendenza, “manuali”? Forse invece è una superiorità, perché per me non c’è niente di più bello di servirsi delle proprie mani.
Nel suo ruolo A. Baraton ha vissuto due eventi traumatici: nel 1990, per un fortunale, erano caduti 1800 alberi. La perdita era stata colossale, ma aveva permesso di avviare il restauro del parco ormai invecchiato. Il 26 dicembre 1999 una incredibile tempesta soffia sul Nord Europa. Al mattino Baraton esce dal suo alloggio nel parco di Versailles per assistere impotente al terribile spettacolo di 18.000 alberi sradicati e di interi boschetti schiacciati dalla violenza degli elementi. Pare che il vento soffiasse a 160 km/ora.

Il giardiniere-capo di Versailles prende spunto da quell’evento per raccontare  oltre trent’anni di lavoro in uno dei parchi più celebri del mondo, di cui ha studiato le vicende sul campo e negli archivi.
Il mio compito consiste nel presentare un parco che rispetti, allo stesso modo, i turisti e l’anima dei luoghi. Il rischio è quello di farne una specie di appendice del museo, giardini”sottovetro”, dove non ci si può sedere, né fare un pic-nic, né chiaramente toccare nemmeno un filo d’erba. Preferisco, al contrario, farne un luogo vivo dove si viene per imparare la storia, ma anche per prendere una boccata d’aria, fare sport o camminare.
La mia più grande fierezza è quella di riuscire a conservare l’autenticità dei luoghi.
Anche se lavoro qui da trent’anni, il giardino è troppo vasto per sapere sempre cosa succede alle migliaia di fiori piantati ogni anno, ai 18.000 alberi che costeggiano i viali e ai circa 350.000 nei boschetti. Siamo lontani dal giardiniere romantico con cappello, baffoni e grembiule. Il mestiere è molto cambiato: la funzione ha preso un aspetto più onorifico; sono arrivati i fax, i computer, le segretarie, le auto comode: tutti gli attributi moderni del potere in cambio di un aumento sproporzionato dei compiti burocratici. L’ambiente e la sua tutela sono al centro delle nostre preoccupazioni. I responsabili della Reggia hanno il compito di vigilare su un museo, noi del giardino dobbiamo tenere in vita un parco, la sua salute, la sua anima.
La conservazione degli alberi è diventata una priorità. Fino a pochi anni fa abbattere un albero tricentenario era pratica corrente, oggi al contrario siamo impegnati nella protezione di questi grandi antenati.



A proposito dell’illustre patrimonio arboreo Baraton indica i seguenti esemplari.
I nostri tre decani sono la quercia colossale vicino al Grand Trianon, che ha circa trecentosessantuno anni, una sophora del Giappone piantata alla fine del regno di Luigi XV e il “platano rivoluzionario” del Borgo della Regina. A questi si aggiungono un paio di alberi che risalgono al regno di Luigi XIV, quattro o cinque a quello di Luigi XV e una dozzina a quello di Luigi XVI.Sulla mancata corrispondenza tra titoli e professionalità effettiva Baraton scrive: alla fine degli anni ottanta vengono cambiati i titoli  del personale, perché occorre inserire la parola “arte”: Le Notre era capo giardiniere e nessuno si sognava di contestare il suo talento! Il giardino non è abbastanza “chic” per la cultura anche se in questi ultimi anni c’è stato un miglioramento. Il risultato è stato che buona parte del personale, compreso il capo giardiniere, è stata obbligata a fare nuovi concorsi per avere l’onore di diventare “tecnico d’arte” e oggi a Versailles non c’è più un solo “giardiniere”.

Classici attrezzi manuali del giardiniere
dell’inizio del 900.

Forte della sua esperienza maturata sul campo ma supportata anche da un approfondimento storico e culturale straordinario, nonostante le vicissitudini e le disgrazie capitate ai suoi alberi, scrive: il giardiniere pianta gli alberi, non li taglia. E’ il taglialegna che si affanna sul povero tronco.
Baraton cita tra i suoi successi quello di essere riuscito a vietare la circolazione delle auto nel Parco. Ha dovuto insistere per oltre 15 anni presso i suoi superiori, ma da quando il parco è aperto solo ai pedoni è molto più ordinato, meno pericoloso ed è tornato ad essere popolato da animali.
Dopo la tempesta del 1999 e dopo oltre vent’anni di permanenza a Versailles, ha ricevuto medaglie di ogni tipo: cavaliere, poi ufficiale al merito agricolo, cavaliere dell’Ordine Nazionale del Merito, cavaliere delle Arti e delle Lettere, medaglia d’argento della Società delle Scienze. Nel 2014 viene nominato Cavaliere dell’Ordine Nazionale della Legion d’Onore.


IL PARCO DI MONZA
Rispetto al parco di Versailles che può esibire la presenza costante del medesimo responsabile dei giardini nell’ultimo trentennio, il Parco di Monza può vantare una discontinuità da primato derivante sia dalla situazione amministrativa di comproprietà (in passato tra i Comuni di Milano e Monza) sia dall’alternarsi di responsabili tecnici alla sua direzione.
Pur senza spingermi troppo nella ricerca ho raccolto alcuni dati.
Negli anni 60 del secolo scorso la direzione tecnica del parco di Monza, allora organizzato alla stregua di una grande azienda agricola, competeva al dott. Codazza dipendente del Comune di Milano; alla cessazione del suo incarico è seguito un lungo periodo nel quale la direzione fu in carico al geom. Sanzogni, dipendente del Comune di Monza; già in quella fase il Comune di Milano era presente con un proprio staff e un proprio ufficio che faceva capo al dott. agr. Franco Agostoni. Nel 1984, a seguito di concorso pubblico, fui assunto dal Comune di Monza e mi vennero affidate le competenze in campo agro-forestale. Permaneva, presso il Mirabello, l’ufficio del Comune di Milano sotto la responsabilità del dott. Agostoni.
Nel 1990, dopo le mie dimissioni, subentrò per alcuni mesi (in prova) il dott. Sergio Zerbini che, alla fine del periodo, rinunciò all’incarico e proseguì nella gestione della Scuola Agraria presso la Cascina Frutteto. Subentrò per alcuni anni la dott.sa Gabriella Di Giuseppe che passò poi all’Ufficio Verde e Giardini del Comune di Monza. Fu poi il turno dell’arch.  Berti affiancato per la parte agronomica dal p.a. Augusto Sanvito.
Il Comune di Milano abbandonò il suo presidio presso il Mirabello e si limitò ad un apporto esclusivamente amministrativo e di controllo, interessato, forse, più alle vicende dell’Autodromo e del Golf Club che alla conservazione del Parco nella sua integrità.
In anni recenti, dopo la costituzione del Consorzio di Gestione del Parco e della Villa Reale è stata istituita la figura del direttore, nella persona del dott. Lamperti. Le incombenze  agronomiche fanno capo al dott. agr. S. Monti.
E’ opportuno anche ricordare che nel periodo della gestione paritetica dei comuni di Milano e di Monza, ogni amministrazione comunale era rappresentata dal proprio assessore di riferimento. Questi dovevano fare i conti anche con il Commissario al Parco, figura che avrebbe dovuto rappresentare un punto di mediazione tra le due amministrazioni, ma che, di fatto, aveva un potere decisionale pari quasi a zero.
Nel periodo 1984 – 1989 (lo cito per averne fatto esperienza diretta) si alternarono, come assessori di riferimento nella gestione del Parco, ben 4 assessori della giunta di Milano e altri 4 assessori della giunta di Monza, insediati in date diverse e appartenenti a partiti spesso contrapposti.


Si può quindi affermare che gli elementi di continuità del Parco sono stati sostanzialmente gli alberi e il Lambro i quali hanno proseguito indisturbati il loro sviluppo e il loro corso a prescindere da chi fossero i responsabili della gestione.
Mentre Versailles può vantare la presenza continuativa del Capo-Giardiniere, entrato nell’organico come apprendista nel 1976 con un semplice diploma di scuola superiore, ma tuttora operativo al massimo grado di responsabilità, il parco di Monza è stato gestito da un tourbillon di geometri, dottori, architetti il cui apporto è risultato frammentato, poco incisivo, a volte contraddittorio anche perché, senza un progetto complessivo sul Parco, di ampia prospettiva temporale e con obiettivi definiti cui fare riferimento, ogni continuità e coerenza è di fatto impossibile.
Dal racconto di A. Baraton a Versailles e della sua attività come responsabile della gestione del verde si possono evidenziare alcuni temi di confronto con il Parco di Monza.


A Versailles si sono succeduti diversi regnanti a partire da Luigi XIII e ciascuno ha voluto lasciare il proprio segno di ricchezza e di potere. La storia inizia nei primi anni del 600 con una tenuta di caccia e un castello di modeste dimensioni. La dimensione attuale del Giardino di Versailles e il completamento di tutti gli edifici in esso costruiti risale a pochi decenni prima della formazione del Parco di Monza. I due Parchi hanno assunto la loro fisionomia definitiva in epoche quasi contemporanee: verso la fine del 700 a Versailles e agli inizi dell’800 a Monza. Ci sono stati quindi due secoli pieni (il XIX e il XX) di storia parallela. A giudicare dal numero di visitatori e dai loro commenti pare che i maggiori consensi li riscuota Versailles.
A Versailles si paga un prezzo di ingresso eppure pare si formino code estenuanti anche per il solo ingresso ai giardini, con un ticket di accesso non certamente simbolico; a Monza di sta valutando da tempo se richiedere un ticket di ingresso almeno ai Giardini Reali ai quali però manca attualmente la possibilità di una effettiva chiusura e controllo.
Anche a Versailles, in passato si entrava con gli automezzi ma, anche se con qualche fatica, si è riusciti ad eliminare il traffico veicolare e a ridare spazio alla quiete, alla tranquillità, alla fauna selvatica, alla sicurezza. A Monza la viabilità di Viale Cavriga sembra per ora insopprimibile e l’area dell’Autodromo con le sue piste è diventato un tempio dei motori e dei rumori.
A Versailles Baraton dirige una struttura di un centinaio di giardinieri (sono esclusi gli addetti alla sorveglianza della reggia, i custodi, gli addetti alle biglietterie, ecc.); nel gruppo ce ne saranno certamente di bravi e di apprendisti, ci saranno quelli esperti, con la G maiuscola, e i giovani che si fanno la gavetta; c’è però in atto un sistema consolidato che consente di formare le competenze necessarie, di valorizzarle e di mantenerle al servizio della causa comune, riconoscendo a questo personale un ruolo e una dignità che a Monza non si sono più percepiti probabilmente dopo il regicidio di Umberto I. A Monza con una superficie complessiva del Parco pari a circa 80% di quella di Versailles (ma se si escludono le aree in concessione permanente ai privati e le aree agricole si scende al 40% circa) il personale impiegato per lavori di manutenzione del verde, oltre al Direttore, è di 8 unità (6 giardinieri + 2 tecnici) che operano sia nei Giardini Reali sia nel resto del Parco. Il resto dei servizi di manutenzione è affidato a ditte esterne che non hanno alcun obbligo di garantire la presenza di personale qualificato. I giardinieri di Monza non indossano un’uniforme specifica, non hanno un distintivo da mostrare, non rappresentano una forma di autorità nei confronti dei visitatori più distratti o meno propensi a rispettare il regolamento d’uso.


A Versailles Baraton conosce l’origine e la storia anche degli alberi più vecchi. A Monza nessuno conosce la data di impianto degli alberi piantati nei Giardini Reali, salvo qualche dato sporadico citato in relazioni di illustri personaggi come quella di Raffaele Cormio tenuta nel 1939 alla casa del Fascio di Monza.
A Versailles è stata fondata nel 1874 la Ecole nationale superieure d’horticulture con la finalità di preparare dopo due anni di studi teorici e pratici il personale idoneo per diffondere i buoni metodi e le buone pratiche. La scuola è stata trasferita nel 1995 ad Angers e fusa nel 1998 con l’Ecole nationale d’ingenieurs des travaux e du paysage d’Angers per dare vita a l’Institut National d’horticulture.
Nell’ottocento esisteva al parco di Monza la Scuola di botanica e giardinaggio ubicata in un settore dei Giardini Reali di cui è rimasta memoria in qualche mappa storica e in alcuni cataloghi; i discendenti dei giardinieri formati in Villa Reale hanno colonizzato la Brianza e hanno dato vita a imprese di giardinaggio che hanno beneficiato delle competenze acquisite. L’idea che la Scuola Agraria, dopo la sua ristrutturazione avvenuta negli anni 80 sotto la guida del dott. Zerbini,  potesse in qualche misura surrogare la vecchia scuola di giardinaggio per formare i nuovi giardinieri non si è avverata (almeno finora). La scuola si muove in pressoché totale autonomia rispetto al Parco, organizza corsi di vario genere e contenuto, per professionisti e per hobbisti, tendenzialmente settoriali e con stage di breve durata che si svolgono in aziende al di fuori della realtà del Parco. E’ peraltro evidente l’inutilità di fare scuola per i giardinieri del Parco se non ci sono prospettive di lavoro all’interno degli organici del Parco medesimo.
I confronti, anche se spiacevoli, non sono mai inutili. Pur nella diversità dei luoghi, delle origini e delle tradizioni, le esperienze altrui stimolano la ricerca per l’individuazione di adeguate  soluzioni ai problemi ormai noti da tempo.


Giorgio Buizza


TANGENZIALINA? PREFERIREI DI NO di Marco Bartesaghi

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Da qualche decennio si parla di costruire, a nord di Verderio, una tangenziale che liberi dal traffico la strada provinciale che, con i nomi di via Sernovella, via Sant’Ambrogio, via Principale e via per Cornate, attraversa la località Superiore di Verderio.
 

Recentemente è stata avviata un raccolta di firme per presentare una petizione che ha lo scopo di incoraggiare le competenti amministrazioni pubbliche (comunale, provinciale e regionale) a procedere alla realizzazione dell’opera.
 

Chi è interessato a firmarla la può trovare a questo indirizzo:

http://www.verderiopetizioni.altervista.org/


IO NON LA FIRMERÒ PERCHÈ SONO SOSTANZIALMENTE CONTRARIO AL PROGETTO





Penso infatti che la costruzione della tangenziale:
 

NON FARÀ DIMINUIRE IL TRAFFICO, MA SOLO LO SPOSTERÀ DI QUALCHE CENTINAIO DI METRI;


 

NON RENDERÀ PIÙ SICURA LA VIA CHE ATTRAVERSA IL PAESE, PERCHÈ LA SUA PERICOLOSITÀ NON DIPENDE DALL’INTENSITÀ DEL TRAFFIC0, BENSÌ DALLA SUA VELOCITÀ;



AVRÀ COSTI MOLTO ELEVATI:
 

  • QUELLI “MONETARI”, CHE AMMONTEREBBERO A QUALCHE MILIONE DI EURO;


  • QUELLI IN “CONSUMO DI SUOLO”, PIÙ GRAVOSI DEI PRIMI PERCHÉ IRREVERSIBILI E PERCHÉ NON HANNO NEANCHE IL VANTAGGIO DI CREARE LAVORO;




  • QUELLI IN “BELLEZZA PERSA”. LA STRADA ATTRAVERSEREBBE INFATTI:



 LE ZONE AGRICOLE ADIACENTI AL PARCO ADDA NORD,




IL PARCO DI MELEAGRO, GIÀ PARTE DEL COMPLESSO STORICO DI “VILLA GNECCHI”



E LA BELLA AREA AGRICOLA, CON VISTA SULLA COLLINA DI MONTEVECCHIA, A SINISTRA DI VIA CONTADINI VERDERIESI.



Per questi motivi non ho intenzione di firmare la petizione in appoggio alla nuova strada e sono anzi tentato di promuoverne una intitolata, ad esempio:

TANGENZIALINA? PREFERIREI DI NO!








Ma sono pigro, ho bisogno che qualcuno mi aiuti e mi dia una spinta. Se qualcuno è interessato si faccia avanti.










I PROSSIMI INCONTRI ORGANIZZATI DALLA COMMISSIONE BIBLIOTECA DI VERDERIO

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LA COMMISSIONE BIBLIOTECA DI VERDERIO
presenta







 CI SEPARIAMO … E I NOSTRI FIGLI?
Sabato 22 aprile, ore 15.00 

PERDERE UNA PERSONA CARA
Sabato 29 aprile, ore 15.00


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 Jurij RAZZA presenta
il progetto del suo documentario

SULLA RIVA DEL LAGO
memorie dall’inferno di Ravensbruck

 Lunedì 24 aprile, ore 21.00

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 GLI ZINGARI NELL'ARTE
da Leonardo a Picasso
 Angelo ARLATI

Venerdì 5 maggio, ore 21.00

***


VACCINI E VACCINAZIONI
riflessioni per una scelta consapevole

 Sandro ZANETTI

Università degli studi di Milano

Venerdì 12 maggio, ore 21.00



TUTTI GLI INCONTRI SI SVOLGONO PRESSO 

LA SALA CIVICA DI VILLA GALLAVRESI

VIALE DEI MUNICIPI, 20, VERDERIO

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FIORITURA DEI GLICINI A VERDERIO di Marco Bartesaghi

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DAL FRIULI A VERDERIO: UNA STORIA D'IMMIGRAZIONE di Marco Bartesaghi

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Canciani, d’Anzul, Scubla, Del Fabbro; poi Pelizzo, Virgilio, Miscoria, Molinaro. Sono cognomi presenti a Verderio da decenni, che hanno in comune il luogo di provenienza: la regione Friuli e la provincia di Udine.
Famiglie che si conoscono ancor prima di trasferirsi a Verderio e che innescano una catena d’immigrazione nella prima metà degli anni cinquanta, che si protrae fino ai primi anni settanta del novecento.
Alcuni degli arrivati non provengono direttamente dal Friuli, ma da paesi dell’Europa dove erano emigrati in precedenza.


I CANCIANI
 

Il primo a trasferirsi a Verderio, nel 1953, è Bruno Canciani, classe 1922, che lavora a Milano presso una fornace di mattoni. Nel capoluogo lombardo era giunto dopo aver vissuto per cinque anni in Francia. Prima di scegliere Verderio aveva tentato, con Pietro Scubla, di acquistare un albergo sul lago di Varese, ma la trattativa non era andata in porto.
 

Viene a Verderio perché un amico lo informa che la famiglia Nava, che si è trasferita a Osnago, vende alcuni locali del lato sud della cascina Brugarola.
 

 
Cascina Brugarola a Verderio


Nel 1954 raggiungono Bruno, dal Friuli, i suoi famigliari: il papà Giuseppe (1895 - 1963), la mamma Massimina Cotterli (1904 – 1994), il fratello Onorino, tredicenne. Li convince a lasciare il Friuli la difficoltà di trovare lavoro in quella regione.
 

A Natale del 1955 si unisce a loro anche il fratello Dante (1935). Anch’egli, come Bruno, proviene dalla Francia, dov'era emigrato all'età di 15 anni.
 

Della famiglia facevano parte anche due sorelle Edda e Ida  che, sposate, vivevano a Torino. 

 ***

I Canciani sono originari di Campeglio, una frazione del comune di Faedis, in provincia di Udine.
 

 
Un'immagine di Campeglio di Faedis


In paese sono proprietari della casa dove abitano, costruita con la pietra cavata da loro stessi in una cava della zona. Il proprietario gliel’aveva concessa gratuitamente a patto che loro gli preparassero anche quella necessaria per costruire il suo mulino.
 

Giuseppe Canciani è sensale nella vendita di animali e, con carri trainati da cavalli, svolge anche attività di trasporto.
 

Per un certo periodo, prima della seconda guerra mondiale, la famiglia risiede a Plezzo, un paese dell'alta valle dell'Isonzo, ora in Slovenia, dove la signora Massimina ha aperto un negozio di frutta e verdura.
 

Un grave incidente subito da Giuseppe, che, alla guida del suo carro, viene travolto da un camion sulla strada per Cividale, li costringe a tornare a Campeglio.

 ***

Il Friuli è stata per secoli terra di emigrazione [1]. Giuseppe in Germania ci va all'età di 12 anni. Torna in Italia, ventenne, allo scoppio della prima guerra mondiale, perché se fosse rimasto là avrebbe dovuto combatterla contro gli italiani.
 

Non si sottraggono all'emigrazione all'estero i suoi due figli maggiori, Bruno e Dante. Il primo parte, intorno al 1947, per la Francia. Dante lo raggiunge nel 1951. Restano insieme però per poco tempo, poiché nel '52, Bruno trova la fidanzata e torna in Italia, a Milano, per esserle più vicino.
 

Bruno Canciani con la moglie, Maria D'Anzul, in piedi, e la cognata Gesuina
 
Dante in Francia ci va ufficialmente come turista, perché ha solo 15 anni e cinque mesi, età non sufficiente per un contratto di lavoro regolare. Ricorda di aver trovato impiego prima in una cava e poi in un cantiere per la costruzione di una diga: “lavoravo con quei trapani che una volta erano collegati con grossi tubi per l’aria compressa e tremavano tutti. La sera, anche dopo aver finito il lavoro, andavi avanti a tremare. Si figuri poi io, che allora ero alto un metro e cinquanta ...”.
In Italia viene per un mese all'anno, nel periodo di Natale.


Dal Friuli, la famiglia di Bruno arriva a Verderio con un camion a rimorchio che, troppo pesante per la strada ancora sterrata, si adagia nel fossato e vi rimane per tutta la notte.
Hanno portato con sé i mobili e due vacche di razza Simmental, bianche e rosse, molto grandi (tra i 5 e i 7 quintali). Bestie insolite, per la loro mole, agli occhi dei verderiesi, che si stupiscono ancor più vedendole mungere da un ragazzino, Onorino. Lui ricorda una vicina, Irene Oliveira, che chiama a raccolta gli altri contadini: “Gènt, vegni chi a vedè ch’el bagaij chi ch’al munc ul vacun”.
 

Il primo impatto con la nuova casa a Verderio non è buono: è disabitata da tempo, il tetto fa acqua da tutte le parti, i serramenti sono cadenti, le porte basse, i camini completamente anneriti. Prima rifanno il tetto, poi, lavorando ogni giorno fino a mezzanotte, dopo le dieci ore passate in cantiere,  recuperano a una a una le stanze. Il risultato è più che dignitoso.
 

Anche alcune abitudini dei verderiesi li lasciano perplessi: per paura dei ladri chiudevano a chiave la porta di casa– cosa che in Friuli, a loro dire si fa solo da dopo il terremoto del 1976, quando sono cominciati ad arrivare parecchi forestieri -; portavano al piano di sopra, dove dormivano, la radio e la bicicletta; ritiravano e mettevano sotto il tavolo anche la gabbia con le galline.
 

Rimangono invece meravigliati dalle capacità e dalla precisione dei contadini locali nel loro lavoro, - “non un grano fuori posto, i covoni di frumento perfetti, il granoturco che cresceva con solo il melgasc, senza una foglia intorno” - livelli irraggiungibili, pensano, per loro che iniziano a fare lo stesso mestiere.
 

La convivenza con le famiglie che già abitavano in cascina non è mai stata difficile, le abitudini diverse non creavano problemi. Una certa diffidenza nei loro confronti, in quanto forestieri, si notava quando si recavano in paese, ma anche questo atteggiamento fu presto superato, grazie alla conoscenza reciproca.
 

Insieme alla casa Bruno aveva acquistato alcuni terreni. Questi erano ancora ingombrati dai gelsi, eredità della passata epoca dell’allevamento dei bachi da seta. Lasciato il lavoro alla fornace, si dedica a sradicarli e a venderne il legname. Quando un anno dopo la famiglia lo raggiunge, acquistano altri appezzamenti di terra  - dal signor Brivio, barbiere di Verderio Superiore, e da un certo Camillo – e iniziano a lavorarla.
 

Non ci mettono tanto però a capire che con l’agricoltura non sarebbero riusciti a tirare avanti e tutti e tre i figli maschi trovano lavoro come muratori nell’impresa edile Leoni di Sulbiate, una ditta che esiste ancora oggi e che allora aveva una settantina di dipendenti.
 

Il lavoro dei campi rimane ancora, nelle ore libere, il sabato e la domenica, come anche, al mattino appena alzati, la mungitura e il rifornimento dell’acqua, che ancora non arrivava fino a casa. Bell’impegno, se sommato alle dieci ore su e giù dai ponteggi e all’altra oretta in bicicletta per andare e tornare dal cantiere.

***
 Bruno Canciani, nel 1955, sposa Maria D’Anzul (1926 – 1992). Avranno due figlie, Daniela nel 1956 e Bruna nel 1957.
 

 
Maria D'Anzul e Bruno Canciani


Il 22 maggio 1959, una giornata piovosa, mentre si reca al lavoro in motorino, in centro ad Arcore Bruno viene investito da un camion della ditta Cademartori. Nella caduta batte la nuca e muore sul colpo.
 

Dante rimane celibe e ancora oggi abita i locali di cascina Brugarola dove si era insediata la famiglia arrivando a Verderio.
 

Dante Canciani
 
Onorino sposa Flora Negri non ha figli e ora è pensionato.

Onorino Canciani
 ***

Da Torino si trasferisce a Verderio anche Lidia Canciani, figlia di Ida, nata nel 1946, che nel 1970  sposa Rinaldo Corno. Lidia lavorerà nell'ufficio postale di Verderio Inferiore, fino a diventarne direttrice.

I D'ANZUL

Quando Maria d’Anzul si trasferisce a Verderio, dopo aver sposato Bruno Canciani, porta con sé la famiglia: il papà Giovanni (1887 - 1980), nato a Borgo Cancellier, frazione di Attimis (UD), la mamma Matilde Cerneaz (1901 - 1989), di Faedis, e la sorella Gesuina. La famiglia comprende anche il fratello Rinaldo (1922 – 1954), reduce dalla campagna di Russia, che muore in Belgio, dove era emigrato per lavorare nel bar di uno zio. Nel 1987 la sua salma è stata rimpatriata e ora è sepolta a Verderio.


 

Anche i D’Anzul si insediano in cascina Brugarola, in alcuni locali del lato ovest, a destra, entrando, del portone d’ingresso.
 

Come quando abitava in Friuli, Giovanni continuerà a fare il contadino anche a Verderio.

Giovanni D'Anzul in cima al covone a cui sta lavorando con le figlie Gesuina, in centro, e Maria, a sinistra

Maria, dopo la morte del marito avvenuta nel 1959, sarà assunta come bidella alle scuole medie del paese, che allora avevano sede nel municipio di Verderio Superiore.
 

 Giovanni D'Anzul con la moglie Matilde Cerneaz; a destra le nipoti Daniela, seduta e Bruna Canciani; a sinistra una sorella di Matilde con una figlia.
Gesuina, classe 1930, è fidanzata con un altro friulano, Pietro Scubla, che fin dall'inizio era coinvolto con Bruno Canciani nell'idea di acquistare casa a cascina Brugarola

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GLI SCUBLA E I DEL FABBRO

Dopo il loro matrimonio, avvenuto nel 1955, Pietro Scubla (1925 – 2011) e Gesuina D’Anzul vanno ad abitare in alcuni locali, sopra i genitori di lei.
 

Pietro, figlio di Ottavio e di Luigia Pelizzo, è originario di Forame, una frazione del comune di Attimis.
 

 
Ottavio Scubla e Luigia Pelizzo

Durante la Resistenza, è partigiano della divisione Picelli che opera nell'alto Friuli. Partecipa alle azioni di Nimis, Povoletto e Savorgnano e, infine, all'insurezione.
 

Il libretto personale del "partigiano" Pietro Scubla

 Dopo la guerra lavora per un periodo in Slovenia, come addetto all'uso delle mine in una cava, mansione che svolge anche in Francia, dove emigra successivamente, forse nella zona di Besancon. Proprio lo scoppio di una mina gli provocherà la perdita di un occhio.
 

Il documento che permetteva a Pietro Scubla di lavorare in Jugoslavia
Tornato dalla Francia si stabilisce a Milano, dove abita il fratello Angelo (che, una volta in pensione, verrà ad abitare a Verderio), e lavora come cameriere in un bar della galleria Vittorio Emanuele. Quando si sposa svolge ancora questo mestiere, ma in seguito lo lascia e trova impiego a Villasanta presso la “Lombarda Petroli”.
 

Dal suo matrimonio con Gesuina nascono due figli, Dino (1956) e Mariano (1961).

Pietro e Gesuina con il flglio Dino
 
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Nel 1958 si trasferiscono  a Verderio, provenendo dal Belgio, Attilio Scubla (1917 – 1999) fratello di Pietro, con la moglie Noemi Del Fabbro (1922 – 2014) e due figli, Severino (Rino) del 1947 e Marina del 1950.
 

 
Attilio Scubla

 
Noemi Del Fabbro


Attilio lavora prima come muratore e poi come custode presso la ditta “Portoni Perego”, a Verderio, sulla via per Cornate.

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Con Attilio giungono a Verderio anche i suoi genitori, Ottavio e Luigia Pelizzo, che abiteranno con lui e la sua famiglia.


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Attilio e Pietro Scubla affittano, da Gianfranco Gnecchi Ruscone, alcuni terreni, che coltivano la sera, dopo il lavoro, e il sabato e la domenica

Libretto colonico di Pietro Scubla


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Abitavano già a Verderio, dal 1957, provenienti anche loro dal Belgio, due fratelli di Noemi Del Fabbro: Giuseppe, che arriva per primo e si sistema in cascina, sopra i Canciani, ed Egidio.
 

 
Giuseppe Del Fabbro


Giuseppe è marito di Giuseppina Pelizzo (1931). Dal loro matrimonio nascono sette figli.
 

 
Giuseppina Pelizzo con la sorella Giannina e due figlie


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Egidio si sposa con Bambina Cassago, una verderiese conosciuta al matrimonio di Bruno Canciani. Avranno tre figli.
Con i fratelli Del Fabbro, originari di Forame di Attimis, vengono a Verderio anche i genitori, Pietro e Caterina Filippic, e, nel 1961, la sorella Vilma, moglie di Renato Pelizzo.



Egidio Del Fabbro
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Nel gennaio del 1958 gli Scubla e i Del Fabbro, acquistano da Alessandro Sala, una striscia di terreno in via Verdi, dove negli anni successivi costruiscono le rispettive case, ancora oggi abitate dai loro discendenti.


PELIZZO, VIRGILIO, MISCORIA, MOLINARO E BRUNO DEL NEGRO

Renato Pelizzo (1925 – 2014), anch’egli originario di Forame di Attimis, lavora come operaio alla ditta "Aceroid" di Ronco Briantino.
 

 
Renato Pelizzo


Nel 1963 vengono a Verderio, per fare i custodi della cascina Bergamina, Giulia Pelizzo (1916 - ?), sorella di Renato, con il marito Giuseppe Virgilio da Remanzacco (UD), giardiniere.

***

Sappiamo, a questo punto, che in momenti diversi sono giunti a  Verderio i fratelli Renato e Giulia Pelizzo, Luigia Pelizzo, moglie di Ottavio Scubla, e Giuseppina Pelizzo, moglie di Giuseppe Del Fabbro. Provengono tutti da Forame ma fra loro, stranamente, non c'è un legame di parentela.

***

Giuseppina Pelizzo è la terza di quattro sorelle. Le due maggiori, Teresa e Noemi, vivono ancora ad Attimis.
 

 
Giannina, a sinistra e Giuseppina Pelizzo in una fotografia recente


La minore, Giannina, classe 1943, durante una delle sue visite estive alla sorella Giuseppina, conosce Emilio Villa (1935 – 1999), il lattaio di Verderio Superiore. Nel 1966 si sposano e avranno tre figlie, Romina, Manuela e Viviana. 

Giannina a Verderio - presso abitazione della sorella Giuseppina - qualche giorno prima del matrimonio
 
Giannina racconta che per lei fu  più facile che per le altre friulane inserirsi in paese, sia perché aveva sposato un verderiese, sia perché lavorando nella latteria del marito aveva più occasioni di incontro con gli altri abitanti.

Giannina ed Emilio, la coppia in mezzo, con amici di Verderio
***
 
Nel 1973, dopo aver trascorso quasi quarant’anni all’estero, in Germania e in Inghilterra, quando è già in pensione viene a Verderio Enzo Miscoria, cugino dei Del Fabbro, con la moglie Fiorina e le figlie Violetta e Annamaria. Onorino e Dante Canciani gli costruiscono la casa, in via in via 25 Aprile.

***

Nel 1967, da Forame di Attimis, si trasferisce a Verderio Giovanni Molinaro con la moglie Ada Del Fabbro e due figlie. Ada lavorerà per alcuni anni come bidella delle scuole elementari.

***

Abita a Verderio per un certo periodo, proveniente da Varese, anche Bruno Del Negro,   amico di Pietro Scubla. Bruno è celibe. Dopo la sua morte, viene riportato al paese di origine, Attimis, e lì sepolto.


CON IL FRIULI UN LEGAME MAI INTERROTTO

Per alcune delle famiglie, i rapporti con i parenti rimasti nel paese di origine non si sono mai interrotti.
 

I Canciani  possiedono ancora una casa a Faedis e mantengono rapporti con alcuni parenti, soprattutto del ramo materno, rimasti in Friuli. Le occasioni d’incontro sono le vacanze e gli eventi famigliari come i matrimoni. Non hanno mai potuto conoscere, invece, alcune famiglie con cui il legame di parentela è abbastanza stretto, ma che sono emigrate all’estero da molti anni.
 

Anche gli Scubla, ormai tutti di seconda generazione, possiedono ancora una casa in Friuli, dove si recano per soggiorni di vacanza.
 

Festa di anniversario dei nonni di Giannina (la bambina in prima fila a sinistra) e Giuseppina Pelizzo
 
Giannina e Giuseppina Pelizzo hanno sempre mantenuto i rapporti con le sorelle rimaste ad Attimis, con visite annuali. Questo ha permesso loro di tener vivo l'amore per quella terra, e di trasmetterlo ai propri figli [2].
 

Un amore che accomuna gran parte dei friulani sparsi per il mondo, che si è manifestato in particolare dopo il  terremoto del 1976, quando grazie alle associazioni di emigrati, come ad esempio Fogolar Furlan, sono state raccolte ingenti somme che hanno notevolmente contribuito alla rapida ricostruzione.

 ***

Il dialetto friulano ormai è parlato quasi esclusivamente dalle persone più anziane, quelle nate in Friuli. I nati a Verderio, quasi tutti, lo comprendono ma non lo parlano.
Le sorelle Pelizzo parlano fra loro anche un dialetto slavo, conosciuto a Forame ma non ad Attimis, di cui Forame è frazione distante solo di pochi chilometri [3].


***

In alcune famiglie resiste ancora qualche piatto tradizionale.
 

Dante e Onorino raccontano della brovada, una specie di casöla, fatta però con rape bianche, messe a macero nella vinaccia per qualche mese poi fatte a strisce e cotte con il cotechino  vaniglia. Ora è più difficile che venga cucinata in casa, così Onorino va a mangiarla sopra Bellagio, da una famiglia di friulani, che la cucina nella propria trattoria.
 

 
La brovada (immagine presa dal web)


Il frico, un'altra pietanza tipica, facile da trovare in ogni ristorante del Friuli, viene ancora preparato anche in casa. È un tortino, a base di patate e formaggio - Montasio o latteria - cotti per circa un'ora, a fuoco lentissimo, in un soffritto di cipolle. Le opinioni dei miei interlocutori divergono sulle quantità dei due ingredienti base. Inoltre Dante dice che si può fare anche di solo formaggio e Onorino che gli si possono aggiungere i funghi. Severino ribatte però che così il frico diventa più duro. Interviene sull’argomento anche Giannina Pelizzo, che il frico lo cucina ancora: “La versione di frico con solo formaggio è la ricetta originale. Non veniva cucinata sul fuoco ma sul ripiano di ghisa del famoso "spolert" friulano, una “cucina economica”, fatta di mattoni, coperta da un ripiano di ghisa in cerchi concentrici. Le patate rendono più morbido il frico, ma la scelta di includerle era dettata più che altro da ragioni economiche: così facendo, il formaggio utilizzato era molto meno e quindi si risparmiava”.
 

 
Il frico (immagine presa dal web)


Onorino ricorda che per Natale sua mamma cucinava anche un piatto imparato nel periodo trascorso a Plezzo, il gnocco, di patate e farina, con all’interno, la susina, che viene condito con burro fuso, pane grattuggiato e noce moscata.
 

La gubana
 
Veniva un tempo preparata in casa, mentre ora viene acquistata già pronta, la gubana, il dolce tipico natalizio, equivalente al panettone. Contiene pinoli, fichi, uvette e noci e viene gustata cosparsa di grappa, possibilmente della valle del Natisone, luogo d’origine di questo dolce.

***

Per coloro che in Friuli sono nati e hanno trascorso infanzia e giovinezza prima di emigrare, rimane anche il ricordo di un mondo intriso di credenze magiche, verso le quali anche chi rimaneva scettico doveva fare i conti.
 

Si credeva alla presenza degli spiriti e per allontanarli si chiamava il prete a benedire.
 

Si ascoltava il rumore del fuoco che, ad esempio, poteva annunciare la morte di una persona.
 

Si danzava e pregava perché venisse la pioggia.
 

Si rendevano innocui i temporali, andando sul terrazzo a tagliarli con una roncola.
 

“Una volta il parroco - racconta Onorino - non trovava più il breviario. Allora ha chiesto in chiesa chi l’aveva visto e ha detto «chi lo troverà e non lo porterà morirà». Lui l’aveva appoggiato sopra un gelso e il gelso è morto”.

Carnevale a Forame - Interpretazione dei Promessi Sposi - Giannina Pelizzo è la prima a destra e interpreta Don Rodrigo - lei dice che c'era già la Lombardia nel suo futuro

 ***

Fino a qualche anno fa si è mantenuta, fra i friulani di Verderio, l’abitudine di trovarsi una sera alla settimana in casa di Dante Canciani per giocare“al due” (briscola chiamata), un momento di incontro per la piccola comunità.Poi però la tradizione si è interrotta.


UNA VISITA AL CIMITERO

Pressoché tutte le persone scomparse delle famiglie di cui abbiamo parlato, sono sepolte nel cimitero della località Inferiore di Verderio. Penso che questa storia non possa che finire con una visita a questo luogo
 

La famiglia Canciani ha una cappella al centro del lato meridionale, dove sono sepolti Giuseppe con la moglie Massimina Cotterli e la figlia Ida Maria. Il figlio Bruno, morto prima dei genitori, e la moglie Maria D’Anzul sono invece sepolti in un altro punto. .
 

La cappella della famiglia Canciani
 
Quelle che seguono sono alcune immagini delle altre tombe che ho rintracciato.


La tomba di Bruno canciani e Maria D'Anzul





















La tomba di Egidio Pelizzo

La tomba di Giovanni D'Anzul e Matilde Cerneaz
























 QUESTA RICERCA

Ospite in casa di Dante Canciani alla cascina Brugarola, ho appreso gran parte delle cose che ho  raccontato dalle parole di Dante stesso, di suo fratello Onorino, di Mariano e Severino Scubla. Una piacevole chiacchierata finita con una fetta di gubana, abbondantemente irrorata di grappa. Grazie.
 

Severino Scubla
 
La gubana che mi hanno offerto

 
Fondamentale è stata la collaborazione di Mariano Scubla, che ha trovato i contatti con le persone, ha procurato la gran parte delle fotografie e “tappato i buchi” del testo man mano che procedevo nella stesura. Grazie.
 

Mariano Scubla
Sul finire della ricerca, ho rivolto alcune domande, e chiesto di integrare quanto già avevo scritto, a Romina Villa e a sua mamma, Giannina Pelizzo. Mi hanno risposto inviandomi alcune fotografie e una lunga lettera che ho inserito in parte nel testo e in parte nelle note. Grazie.

Romina Villa


***

Preziosa è stata la visita al cimitero, che mi ha permesso di trovare le fotografie e, soprattutto, le date di nascita e di morte che mi mancavano.
 

So di averlo già detto su questo blog, ma lo ripeto comunque. Sembra che il ricorso sempre più diffuso alla cremazione abbia fatto nascere la tendenza a conservare in modo privato le ceneri dei defunti (addirittura, mi dicono, a trasformarle in diamanti!). Si rischia così di far perdere ai cimiteri il ruolo, che sempre hanno ricoperto, di luoghi della memoria delle comunità locali, dove per molto tempo veniva conservato il ricordo delle persone che in paese avevano vissuto. Sarebbe un peccato, un vero peccato.


NOTE

Queste tre note sono brani della lettera che Romina Villa mi ha inviato e che ha scritto in collaborazione con sua mamma Giannina Pelizzo.
 

[1] “I friulani sono cittadini del mondo. Era una regione poverissima e l'emigrazione era l'unica via possibile per sopravvivere. Gigantesche comunità di friulani si trovano in Canada e in Argentina. Molti in Francia e in Belgio. L'emigrazione (anche temporanea) è stato un fenomeno presente fino ai tempi recenti. Giannina dice che oramai i friulani ce l'hanno nel sangue e lo trasmettono. Nella mia famiglia per esempio, mia sorella Manuela ha sposato un americano e vive negli Usa. Mio cugino Ivano, uno dei sette figli di mia zia Giuseppina, ha sposato Jolanda, che è messicana. Come vedi, la sensibilità tutta friulana per il mondo vive tuttora”.
 

[2]“Io, le mie sorelle e i miei cugini amiamo molto il Friuli. E' una splendida terra, troppo a lungo sacrificata per motivi politici. Fino all'esistenza dell'Ex Jugoslavia era la regione di guardia. Esistevano caserme in tutti i paesi. Solo quello. Cambiate in tempi recenti le cartine geopolitiche, il Friuli è una regione che ha potuto manifestare il suo potenziale economico, storico-artistico e gastronomico. Io ho ricordi vividi e bellissimi delle mie vacanze in Friuli da piccola, interrotte dopo il disastroso terremoto del 1976”.
 

[3]“Mia mamme e sua sorella Giuseppina, non solo parlano il dialetto friulano, ma anche un dialetto slavo. Devi sapere che Forame (frazione di Attimis) sorge in un punto più alto rispetto ad Attimis. Inoltre sono località molto vicine alla frontiera. Questo dialetto slavo veniva parlato a Forame, ma non ad Attimis, nonostante le due località distino tra loro pochissimi km. Questo te la dice lunga sull'isolamento delle frazioni a quel tempo. Giannina ha iniziato a parlare prima il dialetto slavo e poi il friulano. A scuola cominciò a parlare l'italiano. Fra loro sorelle parlano soprattutto friulano, ma spesso le ho sentite, tutte e quattro insieme, mischiare le due lingue. Molto divertente, perché una fa una domanda in friulano e l'altra risponde in slavo o viceversa.  Noi figlie di Giannina non lo parliamo, io - se mi impegno - lo capisco in parte”.

Marco Bartesaghi



LA RIVOLUZIONE IN CASA GAVAZZI. La storia d’amore tra Andreina, figlia di Andrea Costa e Anna Kuliscioff, e Luigi , discendente della famiglia dei grandi industriali lombardi. Autore Davide Frontini

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Quella che vi presento è una storia d'inizio novecento, dove due mondi, molto distanti fra loro, forse contrapposti, si incontrano grazie all'amore fra un ragazzo, Luigi Gavazzi, e una ragazza Andreina Costa. Lui membro di una delle più importanti famiglie della borghesia lombarda; lei figlia di due rivoluzionari, Andrea Costa e Anna Kuliscioff. Lui cresciuto in un ambiente profondamente cattolico, lei in una famiglia nient'affatto religiosa.
Questo studio è stato realizzato da un amico, Davide Frontini, che, molto gentilmente, ha acconsentito alla sua pubblicazione sul blog. Lo ringrazio di cuore e auguro a tutti buona lettura. M.B. 


LA RIVOLUZIONE IN CASA GAVAZZI. La storia d'amore tra Andreina, figlia di Andrea Costa e Anna Kuliscioff, e Luigi,discendente della famiglia dei grandi industriali lombardi. Autore Davide Frontini








“Si fermò un attimo sulla soglia, alta, fiorendo nel chiuso abito grigio, il bel volto raccolto nel velo che avvolgeva il cappellino di paglia”.  




Questo l’incipit de La Gironda, romanzo scritto da Virgilio Brocchi nel 1909 [La Gironda, Mondadori, 1945]. Quella descritta è Sofia Dalmi, la protagonista: figlia di socialisti, il padre Paolo è eletto al Parlamento, è innamorata di Guido Dorbelli, rampollo di una delle più importanti famiglie della borghesia milanese. Belle époque che vira al tramonto, un’Italia attraversata da tensioni sempre più forti, un amore intrappolato tra le trincee della lotta di classe; amore impossibile, romantico, sullo sfondo agitato di una società lacerata: un perfetto clichè che si intreccia con le ambizioni del romanzo sociale.

Virgilio Brocchi

Antonio Gramsci lo legge in carcere - lo passa in rassegna insieme a un altro romanzo storico, Il Diavolo a Pontelungo di Bacchelli. Nella sua lettera del 7 aprile 1930 esprime un giudizio lapidario: “vale molto poco, è dolciastro, tutto latte e miele, sul tipo dei romanzi di Georges Ohnet”[Lettere dal carcere, Einaudi, p. 122]. Il raffinato materialismo gramsciano, probabilmente, non digerisce l’inevitabile omnia vicit amor.
 






Oggi ci appare come un innocente oggetto preistorico: ci annoia, certo, ma non ci scandalizza, semplicemente non ci parla. Racconta però una storia, e quella storia ci interessa.

 
Georges Ohnet


È lo stesso Gramsci a rivelarcela: La Gironda “narra le vicende per le quali Andreina Costa sposa il figlio dell’industriale cattolico Gavazzi e il succedersi dei contatti tra i due ambienti cattolico e materialista e come gli attriti vengano smussati”.
 

Sofia Dalmi, la damigella nascosta sotto il cappellino di paglia, nella realtà, è quindi Andreina Costa-Kuliscioff, figlia di Andrea Costa, anarchico rivoluzionario e poi primo socialista a entrare nel nostro Parlamento, e Anna Kuliscioff, esule russa e, insieme al compagno Filippo Turati, figura di spicco del socialismo riformista. Il nostro Guido Corbelli, invece, è ispirato alla figura di Luigi Gavazzi, di quei Gavazzi industriali setaioli, ma poi anche banchieri, amministratori e politici, la cui storia è per molti versi la storia dell’industria italiana a cavallo del secolo.

Brocchi diventò poi amico di Anna Kuliscioff e seguì le vicende di questo matrimonio così bizzarro. Seguì il percorso della figlia Andreina, l’intensificarsi della sua fede cristiana e fu testimone diretto della scelta monacale di due dei suoi figli: Guido e Annamaria, i due primogeniti, approfondirono radicalmente il percorso religioso materno divenendo, rispettivamente, frate benedettino e carmelitana scalza.
Come si vede la storia raccontata dal romanzo non esaurisce l’interesse suscitato dalla storia vera, una storia dall’innegabile valore simbolico. I nonni rivoluzionari e i nipoti monaci offrono certo materiale per un racconto con il quale leggere tante cose, non ultima un brandello significativo del Novecento italiano.
Il nostro racconto non è così ambizioso e si accontenta di seguire il percorso di questo improbabile intreccio. Piuttosto che svelare il significato nascosto di una storia dal troppo invitante valore simbolico, ne segue l’improbabile svolgersi e lascia ai protagonisti la parola - le lettere di Anna Kuliscioff a Andrea Costa, l’immensa e preziosa corrispondenza con Turati; il diario di Luigi, scritto nei terribili giorni che precedono una morte sempre più vicina, e quello di Andreina, scritto invece nelle drammatiche settimane che seguirono; le vivide testimonianze dei nipoti.
Nemmeno noi, però, sapremmo sfuggire al fascino irradiato dalla figura di una di questi protagonisti, e alla presa in conto dell’importanza che ebbe nello svolgimento della vicende che racconteremo: Anna Kuliscioff, il suo insegnamento morale, il suo esempio esistenziale, agiscono nella profondità e nelle pieghe degli avvenimenti paradossali e bizzarri che racconteremo.
 

Anna Kuliscioff e Fipillo Turati
Dietro la figura di questa donna bella e intelligentissima, dal carattere deciso e dall’estremo coraggio, amolti è sembrato di scorgere una vena di misticismo. Lei stessa, raccontando la vita delle sue compagne russe fuggite all’estero spinte dai suoi stessi ideali, ha parlato di una fede umana venata di misticismo. La dimensione mistica, poi, è di sicuro quella che sembra legarla più da vicino alle scelte, all’apparenza così lontane, dei nipoti.
Questa constatazione, però, ha poi offerto lo spunto per interpretazioni un po’ troppo schematiche e necessariamente riduttive. Il racconto dei fatti, la parola lasciata ai protagonisti, hanno lo scopo di far emergere invece la complessità e la casualità di una storia sulla quale Anna Kuliscioff ha lascito un segno più profondo e complesso di quanto lascia intendere un riferimento un po’ troppo semplicistico al suo misticismo.


ANNA KULISCIOFF
 

Anna (Anja) Rosenstein nasce a Moskaja, nei pressi di Sinferopoli, in Crimea. Sappiamo con certezza solo che nasce il 9 gennaio, perché sull’anno i biografi si devono ancora mettere d’accordo: 1854 o 1857? Anche se molti indizi fanno supporre il ’54 (troppe cose avrebbe fatto troppo giovane), Anna ha sempre fatto risalire la sua data di nascita al ’57.
La sua è una ricca famiglia di commercianti ebrei e la sua infanzia scorre serena. I suoi la educano secondo principi liberali abbastanza inusuali. I rapporti con il padre sono ottimi, e tali resteranno per tutta la vita – con lui si incontrerà spesso negli anni del suo esilio.
È intelligente, pronta, sensibile. Negli anni del liceo a Sinferopoli studia la musica e le lingue. Nell’ottobre del 1871 lascia la famiglia e il suo Paese per Zurigo, dove si iscrive al Politecnico (la data di nascita 1857 si scontra qui con una prima difficoltà: studente universitaria a 14 anni?). La Svizzera è luogo di elezione per i numerosissimi esuli russi. Ne incontra molti, con i quali stringe rapporti e amicizie. L’ambiente è eclettico e polifonico. Agli anarchici seguaci di Bakunin si affiancano i “propagandisti” legati ai fratelli Zebunev, i quali privilegiano gli strumenti dell’educazione e della propaganda e ai quali Anna si avvicina.
Dopo qualche timida apertura nel decennio precedente, lo zar Alessandro II decide di mettere un freno al diffondersi delle pericolose idee che, dall’esterno, penetrano i confini russi. Nel 1873 impone a tutti gli studenti di lasciare le università estere e tornare in patria.
Anna, rivoltata e furiosa, torna quindi a casa insieme a un giovane studente, Petr Makarevic, diventato nel frattempo suo marito. Sono gli anni nei quali condivide gli ideali del movimento dell’andata verso il popolo, momento di utopia rivoluzionaria nutrito dall’idea di conoscere e poi modificare la realtà contadina. È un’esperienza fondamentale che la segnerà per sempre: si immergerà con tutta se stessa nelle condizioni reali, drammatiche, delle plebi contadine con uno spirito di dedizione e devozione che lei stessa, riferendolo alle sue compagne, definirà mistico.
Il movimento è duramente represso e praticamente annientato nel 1875.
Nel 1877 viene è coinvolta nel cosiddetto “delitto al vetriolo”: un affiliato del gruppo al quale appartiene, dopo aver tradito i compagni denunciandoli alla polizia, viene da loro sfigurato e ucciso. Anche se non si conosce bene il suo grado di coinvolgimento, resta che per la prima volta Anna si trova di fronte al problema di dare la morte o di riceverla.
Il 14 aprile 1877 lascia la Russia con il passaporto della sorella per tornare in Svizzera.


ANDREA COSTA
 

Andrea (Antonio Baldassarre) Costa, nasce a Imola, in casa Orsini, il 30 novembre 1851. Il padre, Pietro, era un bell’uomo molto intelligente, benché quasi analfabeta, di profonda e praticata fede cattolica. La madre, Rosa, figlia del popolo altrettanto cristiana e devota, morì molto presto, nel 1858.
Andrea bambino e adolescente è quindi cresciuto in un ambiente di intensa religiosità – frequenta il catechismo, la scuola parrocchiale e la domenica serve messa. A scuola va benissimo e don Domenico, sacerdote umanista che ne cura l’educazione morale, coglie subito l’eccezionalità della sua intelligenza. Consiglia il padre di fargli proseguire gli studi; Pietro accarezza l’idea di un figlio prete, progetto accantonato in fretta.
Andrea, infatti, al liceo viene in contatto con le prime sensibilità anticlericali, così diffuse e potenti in questa antica regione pontificia. Nel 1870, poi, si trasferisce a Bologna dove si iscrive all’università. Nella città emiliana respira per la prima volta l’atmosfera di quel positivismo che lo segnerà per sempre. Con Giovanni Pascoli segue le lezioni del Carducci e insieme si infiammano per il poeta ancora in trincea e per il suo ribelle razionalismo, il suo furente anticlericalismo, per le sue idee repubblicane.
 

 
Andrea Costa

Nel 1871 scoppia a Parigi la Comune. Emergono le prime crepe tra i mazziniani al tramonto e le nuove leve socialiste e anarchiche. Costa starà con questi ultimi, influenzato dal pensiero di Bakunin, grazie al quale entrerà poi in contatto con Carlo Cafiero.
La politica lo appassiona e lui ci mette l’anima: è un propagandista infaticabile e un efficiente organizzatore, diffonde il verbo anarchico per tutta la Romagna, e oltre – nelle Marche, in Toscana. Con Bakunin si schiera contro Marx e la prima internazionale; nel settembre del 1872, insieme a Cafiero e Malatesta, fonda la Federazione italiana dell’Internazionale anarchica. 
È in questi anni che prende parte a una serie di moti improvvisati e violenti un po’ dappertutto nel Paese: acquisterà una fama internazionale, ma anche la garanzia di una costante sorveglianza da parte della polizia e di un’infinita sequela di arresti. In carcere studia come un pazzo, impara l’inglese, il francese e il tedesco - e qualcosa anche di russo… La dimensione internazionale del suo progetto politico si coniuga bene con la necessità di sfuggire alla patrie galere: nel 1877 lascia l’Italia.


ANNA, ANDREA, FILIPPO
 

Freschi esuli e fuggiaschi, Andrea Costa e Anna Kuliscioff si incontrano nell’agosto del 1877, in Svizzera. Partecipano entrambi a una serie di congressi dell’internazionale anarchica – a Saint-Imier, Verviers, Gand. S’incontrano poi di nuovo a Parigi, l’11 dicembre, giorno che verrà poi sempre evocato come il giorno “sacro” del loro amore.
Vivranno insieme, in rue Aboukir. Per sopravvivere vendono fiori, il resto del tempo lo dedicano all’organizzazione politica. Costa segue le tracce di Guesde e del suo collettivismo anarchico, ed è molto legato a Malon, eroe della Comune ma già da tempo avviato a un profondo ripensamento riformista. Anna diventa segretaria della sezione parigina della Federazione anarchica francese e, insieme a Costa, collabora alla rivista Egalité. È intelligentissima e bella, impossibile non notarla – da Londra Marx chiede di lei nel marzo del 1878.
Il 22 dello stesso mese l’idillio finisce: i due giovani vengono arrestati insieme a numerosi altri compagni. Questo primo arresto darà la cifra della loro relazione, vissuta più attraverso le lettere scritte della celle rispettive che concretamente consumata (Costa, in modo particolare, dovrà subire la meticolosa caccia all’anarchico diffusa nell’Europa del tempo). Anna si rifugia in Svizzera, a Ginevra e poi a Lugano. Il progetto, però, studiato con il compagno nei loro giorni parigini, è quello di trasferirsi in Italia e svolgere lì la loro attività politica.
E infatti arriva in Italia, a Firenze, alla fine il 30 settembre 1878. E’ immediatamente arrestata (2 ottobre) e condotta nel carcere di Santa Verdiana, proprio quando Costa, libero per un’amnistia, si trova a Lugano. Resterà in carcere tredici mesi, fino al novembre del 1879. L’anno è importante: nell’agosto Costa scrive una lettera Ai miei amici di Romagna pubblicata su La Plebe (3 agosto 1879): è la lettera della svolta. Costa non rinnega le esperienze, i tentativi e le lotte del passato, rivede però le rigidezze del volontarismo ideologico e spinge per una maggiore aderenza alla realtà per comprenderne le forme, le dinamiche e meglio agire su di esse: “Noi trascurammo così fatalmente molte manifestazioni della vita, noi non ci mescolammo abbastanza al popolo: e quando, spinti da un impulso generoso noi abbiamo tentato di innalzare la bandiera della rivolta, il popolo non ci ha capiti, e ci ha lasciati soli.  […]. Rituffiamoci nel popolo e ritempriamo in esso le nostre forze”. Il succedersi delle delusioni per i fallimenti delle insurrezioni anarchiche spingono verso un  nuovo programma politico, non estraneo alla visione e alle riflessioni parallele dell’esule russa, e a partire dal quale Costa definirà il percorso che lo porterà, nel 1882, ad essere il primo rappresentante socialista nel parlamento italiano.
Intanto però i due amanti sono lontani e, di nuovo, solo le lettere garantiscono una continuità al loro rapporto. Nel gennaio del 1880 Anna esce dal carcere e i due si ritrovano. Sono a Bologna dove, a casa di Federico Sutter, si reca un gruppo di amici emiliani. La polizia sorveglia e il 22 aprile saranno nuovamente arrestati. Nelle lettere di quel periodo emerge la sua disponibilità e la collaborazione all’azione di Costa, ma spuntano anche nuove e più private esigenze, il desiderio di maternità: “Anna vive pienamente la sua vita di donna e desidera per amore un bambino che la unisca ancora di più al suo uomo”. Del resto la grandezza del personaggio sta proprio “in questo suo essere compiutamente, anzi dolcemente donna e insieme fermamente votata a una causa politica: non accetta di essere “madre e sposa” soltanto, ma nemmeno accetta la rinuncia ad una vita privata, all’amore, alla maternità”[Addis Saba, p. 31].
Per questo è poi difficile stabilire con esattezza l’inizio e il contenuto della crisi. Il rapporto con Costa progressivamente peggiora, le lettere sempre più risentite e deluse lo dimostrano. Anna misura la differenza tra la situazione drammaticamente arretrata e completamente bloccata della sua Russia e lo scenario politico europeo. Con il nuovo Costa condivide la necessità di accettare la forma di governo liberale come base di partenza per un programma di profondo cambiamento. Quello che li divide, però, è il diverso contenuto attribuito a questa condivisa strumentalità: per la Kuliscioff gli elementi liberali dello Stato sono necessari per garantire la possibilità di una propaganda (la sua andata verso il popolo), mentre per Costa costituiscono invece la garanzia di una conquista del potere [vedi: Pietro Albonetti in, “Saggio introduttivo”, Lettere d’amore a Andrea Costa (1880.1909), Feltrinelli, 1976].
Gli ultimi mesi del 1880 sono però un banco di prova soprattutto per i loro rapporti personali. Lei, coinvolta, innamorata, ne uscirà profondamente delusa: lui, assorbito dall’attività politica, sempre da un’altra parte. Per Anna è un periodo di ripiegamento privato, di ripensamenti profondi.
Nel 1881 si trasferisce comunque a Imola, dai Costa. Cerca di adattarsi all’ambiente piccolo borghese e  clericale nel quale riesce comunque a muoversi con la solita delicatezza e a stringere legami affettivi con il padre di Andrea, con la sorella. Alla fine dello stesso anno, l’8 dicembre, nasce Andreina: “Il nome, crediamo, è stato scelto da Anna non solo, come appare subito, per una dichiarazione di paternità e quindi anche d’amore, ma anche per un atto d’orgoglio. Già Andrea era padre di un altro bambino, Andreino, il figlio di Violetta, la fidanzata anconetana del Costa; ebbene, anche lei straniera, intellettuale, la diversa, è donna, ha saputo essere madre, ha offerto ad Andrea il suo dono” [Addis Saba, p. 54]. In verità la bambina viene registrata, con il nome di Andreana (Rosa, Rosalia), solo dal padre. Il riconoscimento materno, posticipato con tutta probabilità a causa della “delicata” posizione dell’esule russa, avverrà solo dieci anni più tardi.
Anna però non può essere la “sposa romagnola”, la casalinga madre e compagna. La bambina ha appena un mese quando lascia Imola per la Svizzera. È l’inizio della fine del rapporto con Costa; l’inizio, ennesimo, di una nuova vita.
Appena arrivata a Berna chiede di essere ammessa a frequentare la facoltà di Medicina. I suoi nuovi studi la riporteranno poi in Italia, a Torino (dove frequenta i corsi di Lombroso, cui diventerà amica di famiglia), a Padova e a Napoli, dove si laureerà nel 1886. Sono anni difficili, di estrema difficoltà anche economica. Studia, legge e si informa restando sempre politicamente attiva, ma in questi anni è soprattutto mamma.
A Napoli arriva nel febbraio del 1884. Quello napoletano è il periodo più triste. Vive in un albergo, prima di trovare un piccolo appartamento grazie all’intercessione dei suoi nuovi amici, i Bovio. Costa passa i primi di maggio, ma ormai questi incontri inframmezzati di lunghe assenze, di lettere sempre più svelte e superficiali, sfibrano un rapporto che ormai si trascina. Fortunatamente c’è Andreina: “La Nina è cara e bella e m’ama veramente, che cosa si può desiderare di più?”[lettera a Costa, 15 giugno 1884, LAC, p. 286].
A Napoli, però, Anna incontra Turati. Si erano conosciuti per lettera: la Kuliscioff aveva mobilitato il mondo socialista, e non solo, a favore di una grande colletta in favore degli esuli russi e dei perseguitati dallo zarismo. Bianca Pittoni, una giovane socialista amica di Anna e Turati, racconta come Filippo, dopo la morta di Anna, tornava in continuazione su quell’incontro:“Sai, io rimasi veramente senza parola. Anna era bellissima […] un’apparizione di luce…”[in Addis Saba, p. 89]. Anna, invece, dopo pochi giorni di conoscenza scriveva a Colajanni:“L’armonia tra genialità e cuore è così rara, e questo è il dono raro di Turati. L’anima inasprita si riposa incontrando delle nature come la sua e principia a riconciliarsi un po’ col genere umano che nella peggior parte degli individui è una brutta bestia” [Addis Saba, p. 92]. Come sappiamo questo incontro segnerà la vita di entrambi.
Quasi contemporaneamente si consumava la definitiva rottura con Costa. Anna per qualche giorno è in vacanza a Como e di lì, il 4 luglio 1885, gli scrive: “E’ certo che non mi sarà possibile di regolare ogni mio passo secondo i tuoi desideri, dovrei allora rinunciare alla mia libertà, simulare una soggezione che non è umiliante soltanto quando è reciproca e determinata dall’intensità dell’affetto. Né io, né te abbiamo colpa di quello che è stato conseguenza dei nostri temperamenti e delle condizioni in cui vivevamo. Ma certo avremmo colpa se volessimo ribellarci contro le fatalità, che sono conseguenze del passato, e voler mascherare vincoli artificiali. Se il tuo desiderio, che sarebbe meglio di esser morti l’uno per l’altro, non è realizzabile per quella parte di legame che mantiene fra di noi la bambina, credo che possiamo almeno soddisfare a quel diritto di libertà individuale ed a quel bisogno di sincerità che è nelle nostre idee e nei nostri sentimenti. A questo patto anche il raffreddamento non genererà disgusti; non ucciderà spero la benevolenza. E con questo desiderio ti saluto e ti stringo la mano”[Lettera a Costa, 4 luglio 1885]. Anna ha voltato pagina e il congedo è sublime.
Turati le propone di trasferirsi a Milano. Anna rifiuta decisa a portare a termine i suoi studi. Si specializza in ginecologia: nella sua tesi di laurea la Kuliscioff ha ipotizzato l’origine batterica delle febbri puerperali, contribuendo così ad accelerare quella scoperta che salverà milioni di donne dalla morte per infezione post-partum. Si laurea nel novembre del 1886 (tra i 209 laureati è l’unica donna).
A questo punto, sì, può trasferirsi a Milano. Trova casa in via San Pietro dall’Orto n. 18. Turati sta con loro tutto il giorno, andando solo a dormire dalla madre e c’è, ovviamente, anche Andreina. Tenta di entrare all’Ospedale Maggiore di Milano, ma non la prendono in quanto donna. Apre allora uno studio privato, presto preso d’assalto da una marea di povera gente, che poi trova modo di assistere anche fuori dall’orario di lavoro. Mario Borsa, cui Anna curò la vecchia madre, l’ha fissata in una viva descrizione: “Molte povere case della vecchia Milano la vedevano spesso salire, gracile e leggiadra, fino a lassù in alto, al terzo o quarto piano. Erano operaie e bambine, giovinette ammalate, mogli, madri, sorelle di modesti impiegati e professionisti. Tutta gente in pena. La visita della dottora era sempre attesa come una benedizione, non era infatti la visita di un medico. Era qualche cosa di più. La scienza ha scarse risorse, ma una buona parola può essere un balsamo e Anna Kuliscioff la diceva come le sapeva dire lei. Diventava così la consolatrice, l’amica, la confidente di coloro che soffrivano e dei loro cari”[Addis Saba, p. 97]. Anna diventa per tutti la dottora dei poveri.
Finalmente laureata, specializzata, “libera sposa” con Turati e madre di Andreina, Anna a Milano si stabilisce definitivamente. Nell’autunno del 1891 con Filippo si trasferiscono nell’appartamento di Portici Galleria n. 23, dove vivrà fino alla sua morte.


I GAVAZZI

La storia della famiglia Gavazzi è, in un certo senso, la storia industriale ed economica lombarda degli ultimi tre secoli. Ma non solo: Guido Vergani ricorda un vecchio adagio milanese secondo il quale, se si prende a caso una famiglia che conta, male che vada si troverà un Gavazzi almeno nel giro dei cugini. Caratteristiche della famiglia sono in effetti, oltre alla longevità (i primi Gavazzi risalgono al ‘400), le sue profonde e diffuse ramificazioni, imputabili a una filiazione sempre numerosa e a una politica matrimoniale particolarmente accorta. Furono innanzitutto setaioli, quando l’industria serica lombarda fioriva in tutto l’alto milanese, la Brianza e le prime valli prealpine; cattolici convinti, ma non necessariamente schiacciati su posizioni clericali, tanto che il rapporto con le organizzazioni ecclesiastiche non fu sempre facile, e, infine, attenti non solo alla dimensione industriale della loro attività, furono anche banchieri e politici.
Come detto, i primi esponenti della dinastia Gavazzi risalgono al XV secolo. Ne troviamo le prime tracce a Canzo, un paesotto della Vallassina incastrato tra le montagne abbracciate dai rami del Lario, tra Lecco e Como, un poco sopra Erba. Risalendo verso nord si può salire sino al Ghisallo e precipitare poi lungo la discesa che scivola verso il lago e conduce alla rocca di Bellagio. Al centro del paese, circondato da un quadrato di verde, un busto ricorda il cittadino illustre, forse un po’ dimenticato: il “nostro” Filippo Turati è nato qui il 26 novembre 1857. Nel borgo vecchio, invece, resistono robusti i resti delle antiche dimore Gavazzi, da dove tutto cominciò.







La casa abitata dai Gavazzi a Canzo

Canzo, in effetti, si trova al centro di quella che fu una delle più importanti vie della seta, quella che da Milano, passando per Erba, risaliva la Vallassina per raggiungere poi Bellagio. Di lì, risalendo le acque del Lago di Como fino a Colico, il percorso proseguiva per Chiavenna, porta di accesso per la Svizzera e quindi la Germania.
Possiamo dire che la vera storia comincia solo all’inizio del ‘700, quando Carlo Francesco Gavazzi (1688-1733), commerciante, si trasferisce proprio a Chiavenna: a Canzo si produceva, ma il vero centro commerciale era questa città al confine con i Grigioni dove, non a caso, risiedevano molte delle famiglie setaiole più importanti della Brianza lecchese e comasca (i Casanova e gli Omega; i Dell’Oro, gli Agudio e i Bovara). Le notizie su questo primo importante esponente della dinastia sono pochissime. Di sicuro si sa che l’attività commerciale fu fruttuosa e che riuscì a tessere una rete di conoscenze e di legami che la famiglia seppe in seguito mettere a buon frutto.


Il figlio di Carlo Francesco, infatti, fu chiamato da una di quelle famiglie amiche, i Bovara, a dirigere una delle loro più importanti filande, quella di Parè (un piccolo borgo vicinissimo alla città di Valmadrera) . A Pietro Antonio (1729-1797) si può certo far risalire l’ascesa industriale dei Gavazzi: dopo aver diretto, con ottimi risultati, la filanda Bovara, decise di avventurarsi in proprio acquistando a Valmadrera alcuni filatoi. Nasceva così l’impresa “Pietro Gavazzi S.A.”, nucleo dell’attività industriale intorno al quale si costruiranno le fortune della dinastia.  


La filanda Bovara a Parè
Altra figura fondamentale fu il figlio di Pietro Antonio, Giuseppe Antonio Gavazzi (1768-1835), il quale sviluppò e migliorò la produzione delle filande valmadreresi e allargò questo nascente impero industriale acquistandone di nuove - a Bellano, per esempio .

 
Giuseppe Antonio Gavazzi







Lo stabilimento Gavazzi a Bellano, in seguito sede del cotonificio Cantoni


Nel periodo napoleonico Giuseppe Antonio divenne uno dei maggiori produttori di seta, e negli anni Venti dell’800 la sua filanda (detta il filandone) risultava già come una delle più importanti in Lombardia.

 
Foto dall'alto della villa e dello stabilimento Gavazzi a Valmadrera


I Gavazzi ormai si erano stabiliti a Valmadrera. Giuseppe Antonio, forte delle fortune che si stavano accumulando, acquista allora diversi terreni e, dalla contessa Teresa Casati Confalonieri, il palazzo che diventerà la residenza principale della famiglia.


 
Villa Gavazzi a Valmadrera


Lo amplia, lo migliora e lo ingrandisce grazie al sapiente intervento dell’architetto e amico Giuseppe Bovara, il quale interviene anche nei progetti di miglioramento delle filande. 


L'architetto Giuseppe Bovara
Se, come è stato scritto, l’ideologia di fondo della famiglia Gavazzi si caratterizza per “severo conservatorismo cattolico con forti venature autoritarie, non privo peraltro di interessanti sensibilità e genuine aperture sul piano sociale”[voce Dizionario biografico degli italiani], allora possiamo dire che fu proprio Giuseppe Antonio il primo a definirne i contorni. Si occupò delle condizioni di lavoro dei suoi dipendenti, della loro educazione – organizzò scuole professionali per i bambini, asili per i figli delle lavoratrici. A Valmadrera fece quello che più tardi fecero i Crespi a Canonica d’Adda o i Rossi a Schio: sperimentò il modello di “città sociale”, una città di fatto amministrata dall’imprenditore che ne controlla la vita sociale ed economica promuovendo lo sviluppo di strutture sociali e scolastiche.

Se però volessimo rintracciare la figura centrale di tutta la storia Gavazzi, dovremmo allora riferirci a uno dei sedici figli di Giuseppe Antonio, Pietro Gavazzi (1803-1875), quello che non a caso in famiglia viene chiamato Pietro “il Grande”. Operò in anni difficile per l’industria 

 
Pietro Gavazzi


lombarda della seta, colpita dalle ripetute malattie dei bachi. Non si limitò ad accrescere le unità produttive e gli impianti industriali, ma introdusse nelle sue fabbriche una nutrita serie di miglioramenti tecnologici. Con tutta probabilità la sua grandezza consistette nella capacità di far sì che la sua impresa venisse pienamente investita dalla rivoluzione industriale in corso, della quale seppe trarre tutti i vantaggi. Acquistò una filanda a Desio, fu banchiere e ricoprì cariche politiche – nel 1848 fu uno dei membri del Governo Provvisorio di Lombardia e, come tale, uno dei firmatari dell’annessione alla Monarchia di Sardegna.


La filanda Gavazzi a Desio
Di lui si ricorda anche la vita privata, e in particolare il suo matrimonio con Ernestina Pascal, figlia naturale del vicerè Eugenio Beauharnais.
 


Ernestina Pascal

Con Pietro la grande famiglia si divide, al ramo valmadrerese si aggiunge quello di Desio. In questa città della Brianza, infatti, dove aveva già acquistato una filanda, Pietro assegna ai suoi ultimi figli, Egidio e Pio, la direzione della neonata impresa industriale: il 16 



Pio Gavazzi


gennaio 1870 nasce la Egidio & Pio Gavazzi. Tra tutti i figli fu proprio Egidio (1846-1910) il più rappresentativo, quello che più degli altri continuò la grande tradizione industriale dei suoi avi.


Egidio Gavazzi
Nel contesto dell’industria lombarda dell’epoca, la Egidio & Pio Gavazzi rappresenta un’eccezione, non solo per la dimensione e la modernità dei suoi impianti, ma anche per il tipo di produzione intrapresa. Egidio sceglierà di specializzarsi nella produzione di seta per ombrelli e riuscì a espandere il suo mercato anche a piazze difficili come quelle inglesi e francesi.
 

 
Lo stabilimento della Egidio & Pio Gavazzi a Desio


Sposò Giuseppina Biella e, come da tradizione, ebbe una famiglia particolarmente numerosa, composta di undici figli. I maschi vennero coinvolti a vario titolo nelle numerose attività di famiglia, alle quali, dal 1909 si aggiunse l’attività bancaria: Egidio Gavazzi favorì la creazione di una Cassa Rurale, sulle cui fondamenta nascerà poi il Banco di Desio 

 
Giuseppina Biella


Particolarmente impegnato sia nell’attività bancaria sia direttamente nella produzione industriale, il terzogenito, il “nostro” Luigi Gavazzi.

ANDREINA COSTA E LUIGI GAVAZZI 

Il matrimonio tra la figlia dei miscredenti socialisti e il rampollo della famiglia cattolica e borghese si celebrò nel 1904. All’inizio sollevò qualche polemica giornalistica e qualche imbarazzo nei rispettivi campi, ma presto tutto si risolse nel migliore dei modi. Talmente bene e talmente in fretta da lasciare poco spazio allo spunto romanzesco: anche se sulla carta gli ingredienti c’erano tutti, nella realtà la storia di Luigi e Andreina non poteva alimentare la fantasia dello scrittore.
 

 
Andreina Costa e Luigi Gavazzi


Di tutto ciò Brocchi era perfettamente consapevole. Giovane militante socialista conobbe Anna Kuliscioff al congresso di Firenze del 1897, dove la incontrò insieme a Turati:“La rivedo sotto il cappello a cencio, con quel suo inesprimibile sorriso, luminoso di arguzia, di bontà e d’affettuosa ironia, alto più della gente che gli faceva ressa intorno. La signora Kuliscioff pareva sollevarsi sulla personcina per posargli la mano sulla spalla; ed ecco egli Le parlò. Odo la sua voce che non mutò mai né tono, né timbro, né dolcezza quando diceva: Anna!”[In memoria, p. 114].
Dopo la pubblicazione del libro, Brocchi divenne frequentatore assiduo dell’appartamento che Anna condivideva con Turati, al numero 23 dei Portici della Galleria in piazza Duomo, appartamento nel quale la Kuliscioff si trasferì a partire dall’autunno del 1891 – le stesse stanze che ospitavano la sede dalla storica rivista Critica sociale e quindi frequentate dai nomi più illustri della politica e della cultura del tempo. Questa l’emozione della prima volta: “Mi batteva il cuore quando l’ascensore mi depose all’ultimo piano dinanzi all’”appartamento” di Anna Kulsicioff. Premei il bottone del campanello senza accorgermi che la porta era accostata, non chiusa. Un piccolo andito, e di là un’anticamera fatta più angusta da un alto armadio che occupava tutta una parete: si scorgeva a destra una fila di stanze luminose; a sinistra, quasi di fronte a chi entrava, lo studio-salotto che aveva per pareti a sud e a ponente due vetrate; quella di mezzogiorno pareva bloccata dal fianco aquilonare e dalle abbaglianti guglie del Duomo; nell’angolo formato dalle due vetrate posava un largo divano di velluto verde. Vi stava seduta, quasi rannicchiata, la signora Anna, e una raggiera di sole battendole sui capelli già scoloriti ne traeva un vago bagliore d’oro”[V. Brocchi, Luce di grandi anime, Mondadori, 1961, p. 114]. A quell’epoca era già malata. Alla tubercolosi polmonare rimediata nel carcere fiorentino di S. Verdiana nel 1878, si aggiunse un’artrite deformante “che prima le aveva deformato le mani, a poco a poco l’aveva attanagliata alle caviglie, le aveva anchilosato le ginocchia, così che quando ella, venendo dal tinello attraversava il salotto, pareva trascinarsi come una rondine ferita"[Ivi, p. 123].
Tornando al romanzo, lo stesso Brocchi racconta come “ero ancora insegnante a Bologna quando dopo Le aquile, Emilio Treves pubblicò La Gironda, il secondo romanzo della mia trilogia sociale. Ettore Janni lo definì “storia d’amore in campo rosso”: sarebbe esatto se si aggiungesse “romanzo dell’eresie socialiste”, nel quale la passione politica colora, senza determinarla, una doppia storia d’amore; l’amore di una timida figliola di ricchi industriali per un giovane medico socialista; e l’amore di una giovinetta di famiglia socialista per un giovanotto di ricca famiglia cattolica”[ivi, p, 113].
Brocchi ci rivela quindi un elemento taciuto nelle poche righe della stroncatura gramsciana: La Gironda narra, oltre a quella della figlia di Costa e Kuliscioff, un’altra storia, una storia che si spinge un po’ più in là nelle pieghe del conflitto sociale rendendo l’amore davvero impossibile. Succede infatti che l’ardimentoso, virilissimo militante socialista cugino di Sofia, Andrea Cerri, s’innamori, corrisposto, della dolcissima, ma quanto delicata e timorosa Gilda, sorella del Corbelli – per altro legato al Cerri da profondissima amicizia. Luigi e Andreina, il loro amore sereno e tranquillo, si collocano allora sullo sfondo, lasciando ad Andrea e Gilda il compito di interpretare i rispettivi ruoli dell’eroe coraggioso e dell’eroina romantica, bellissima e indifesa. Gli ideali socialisti di lui, i vincoli famigliari di lei; le liaisons dangereuses intrecciate dall’intrigante zia e la presenza ingombrante di un cugino promesso sposo di Gilda; la malattia e la morte di Andrea: ecco i fili con i quali il Brocchi intreccia il suo romanzo sulle eresie socialiste.


Abbandoniamo allora il romanzo e torniamo alla storia vera. Come detto, il matrimonio si celebrò nel 1904, a settembre. La grande famiglia di socialisti milanesi entrò in subbuglio, le malignità si sprecarono; i giornali soffiavano sul fuoco. Una lettera di Anna a Turati ci restituisce bene il clima: “Mio carissimo, per compiere il mio calvario ci è voluto anche il can can dei giornali. Ieri “L’Italia del Popolo” da vera canaglia, volendo colpire me, diede la notizia del fidanzamento di Ninetta con l’aggiunta del matrimonio religioso, dove si rannicchiava la freccia velenosa. Il Suzzi del “Sera” mi mandò non so quale suo reporter per sapere quel che c’è di vero. Io risposi che del vero c’è che i giovani si sono promessi e si sposeranno; in che forma poi, ne sono arbitri essi stessi, e la mia figlia, avendo 22 anni, è libera di agire anche al di fuori della mia volontà. […] E qui tutto sarebbe finito, se il “Corriere”, stupidamente, non avesse oggi accompagnato la notizia con due righe ben ridicole, e cioè che, se è vero matrimonio religioso, la vittoria sarebbe della famiglia Gavazzi"[Lettera di Anna Kuliscioff a Filippo Turati, 22 marzo 1904].


La polemica, però, presto si tacque; le acque tornarono calme e la coppia cominciò così la sua vita tranquilla tra il palazzo Gavazzi di via Brera a Milano [il palazzo non esiste più, distrutto dai bombardamenti nella notte tra il 7 e l’8 luglio 1943. Al loro posto edifici anonimi] e la grande casa di Desio. Luigi si immerse da subito negli affari e nelle numerose attività amministrative e assistenziali. Andreina si prese cura dei cinque figli - Guido (1905), Annamaria (1907), Ernestina, (1908), Egidia (1910) e Pietro (1913). La tranquillità famigliare fu interrotta nel 1914, quando Luigi si ammalò: una nefrite che lo portò alla prematura morte nell’aprile del 1917.


In memoria di Luigi Gavazzi
Come vedremo, quella che ancora nel 1909 poteva risultare al massimo come una vicenda quasi romantica, prese con gli anni la piega di una vicenda esemplare, ad alto contenuto simbolico capace di attirare l’attenzione dei molti per la sua evoluzione imprevista e, in un certo senso, sorprendente – dove non poté il romanzo, riuscì la storia.
Sorprendente, innanzitutto, fu la reazione delle due famiglie. Chi si aspettava la fragorosa collisione tra due mondi opposti restò deluso. L’unico ad opporsi fino in fondo fu Andrea Costa, nonostante gli interventi decisi e lapidari di Anna Kuliscioff. Lo scambio di lettere nei giorni del fidanzamento sono spesso violente. Costa rimprovera all’ex compagna di averlo tenuto all’oscuro e lontano. Anna risponde con fermezza: “Carissimo Andrea, se tu sapessi tutta la storia del fidanzamento di Ninetta, se tu sapessi quanto ho sofferto in questi ultimi quindici giorni, t’assicuro che avresti trovato, se non altro, una parola di compassione e non di offesa per me. […] E ti prego di un’altra cosa; qualunque fossero i tuoi dubbi, di una cosa stai sicuro ed è, che alla Ninetta fu sempre instillata la massima stima, ed il rispetto pel suo padre; l’affetto che ha per te non hai potuto instillarlo che tu, e ti prego caldamente di risparmiarmi per l’avvenire le allusioni offensive, perché sono ingiuste e non meritate” [Lettera di Anna Kuliscioff a Andrea Costa, 22 marzo 1904]. Aveva cresciuto la figlia in perfetta solitudine e spesso nelle più difficili condizioni, certo non poteva accettare rimproveri di sorta. Con Andreina Andrea ruppe i rapporti, praticamente non si rividero più. Rimanevano le lettere, che continuavano a circolare, e le notizie di rimando riferite da Anna. Continuò a chiedere e ricevere notizie dei nipoti, dai quali però non si fece mai chiamare nonno. Nipoti che praticamente non lo conobbero e non lo frequentarono mai – il vero nonno fu Filippo Turati (“Filipin”, come lo chiamavano con voce lombarda), compagno della loro amatissima nonna Anna.


Nemmeno tra i Gavazzi si alzarono barricate. Qualche malcontento tra gli zii e i fratelli di Luigi, già pienamente attivi nelle numerose attività industriali, commerciali e finanziarie della famiglia; forse qualche sopracciglio aggrottato tra le sorelle - l’energica Ernestina Belgiojoso, 

Ernestina e Fanny


l’inappuntabile, e un “poco fredda”, Fanny Dubini – ma niente di più. Il tentativo di spedirlo in America per affari fallì miseramente: Luigi tornò con l’intatta determinazione di sposare Andreina e ai Gavazzi non restò che arrendersi all’evidenza.

Del futuro genero Anna ha da subito un’impressione positiva, opinione che si rafforzerà dopo il matrimonio e col passare degli anni. Una lettera al nipote Guido, scritta a tre anni dalla morte del padre, ce ne offre la conferma: “sono unita nel pensiero d’amore e di devozione a te, alla tua mamma e al tuo impareggiabile papà che ti veglia dall’alto e certo di aiuterà perché tu ti faccia un uomo probo, onesto, nobile come lo era lui…”[Utopia profezia, p 34].
Tra le numerosissime e più che quotidiane lettere che Anna e Filippo si scriveranno negli anni della loro relazione, la giovane coppia fa l’oggetto di preoccupazioni frequenti, di interesse genuino. Luigi è spesso in viaggio per lavoro. Quando capita a Roma rende visita al Turati, il quale lo conduce per musei o lo aspetta per una visita al Parlamento. Se Andreina è con lui incombe invece il gradito obbligo del pranzo in casa degli affezionatissimi Bissolati, Leonida e la moglie Carolina.
Ma i “nonni” Anna e Filippo intrecciano anche con i piccoli Gavazzi un rapporto di complice affettuosità. Il rapporto sarà particolarmente stretto con i due primogeniti, Guido e Annamaria. La loro intelligenza e la loro passione per lo studio furono di sicuro un canale privilegiato per entrare in sintonia con la grande nonna Kuliscioff.
Andreina fu subito ben accolta dalla grande famiglia borghese. Dalle impressioni che si ricavano dalle lettere e dai diari, sembra che anche i Gavazzi accettarono con facilità la moglie innamorata e la madre premurosa. Il padre di Luigi, Egidio, e la madre, Giuseppina Biella, l’accolsero come una figlia. 


 
Egidio Gavazzi


Giuseppina Gavazzi Biella
 
A rompere gli indugi fu quest’ultima. Luigi, dopo il fallito viaggio della speranza cui i Gavazzi sottoposero l’erede nella speranza di un improbabile ripensamento, è di nuovo in America ed è allora con una lettera che Andreina gli racconta dell’avvenuto incontro con Giuseppina Gavazzi Biella. Tramite un biglietto consegnatole dal sacerdote che la stava preparando al battesimo, don Pietro Stoppani, Andreina riceve appuntamento dalla futura suocera nella chiesa del Carmine, in centro a Milano. Andreina riferisce dell’appuntamento in una lettera a Luigi, in quei giorni in America: “Io arrivai prima, ero commossa e agitata come poche volte nella vita; appena entrò, capii che era lei, mi guardò con la sua buona faccia sorridente e io le andai incontro, mi baciò”[Non solo seta, p. 391].


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NONNI RIVOLUZIONARI E NIPOTI MONACI

Ma perché, allora, raccontare questa storia? Il fatto è che nelle pieghe di questa nuova, strana famiglia borghese, la contaminazione socialista finì per produrre effetti imprevisti, conseguenze del tutto inaspettate.
Andreina, cresciuta in un ambiente che, se non fu mai grettamente anticlericale, fu di certo abitato da un positivismo agnostico, da un umanesimo razionalista e integralmente secolarizzato, sposando il cattolico Gavazzi ne abbracciò integralmente la fede. Di più, intorno alla profonda devozione con la quale si avvicinò ai suoi compiti di moglie profondamente innamorata e di madre attentissima, definì un percorso religioso che, specie dopo il dramma della morte del marito, sfiorò un vero e proprio misticismo.
L’amore dei genitori, la loro profonda unione cementata da una fede sempre più profonda come difesa di fronte alla tragedia, influenzarono di certo i cinque figli, tutti ancora molto piccoli. In particolare i primi due, Guido e Annamaria, i nipoti vivaci e intelligenti, i prediletti cui nonna Anna riferisce quasi quotidianamente nella sua corrispondenza con Turati.
Guido, che alla morte del padre volle prenderne il nome e cominciò quindi a chiamarsi Luigi, divenne poi Egidio, meglio: Don Egidio, abate di Subiaco. Annamaria, la figlia che ad Andreina ricordava di più la madre Anna, scelse, se possibile, una strada ancor più radicale: divenne Maria Angela, suora carmelitana presso il Carmelo di Arezzo, convento creato anche grazie ai lasciti del suo passato Gavazzi.
Eterogenesi dei fini? Fallimento delle ideologie? Rivincita di Dio? Che storia racconta questa vicenda paradossale, questo ribaltamento così perfetto? Un cerchio che si chiude, o l’espressione meravigliosa della pura casualità?
Di sicuro non c’è spazio per restare indifferenti. In buona parte grazie anche ai protagonisti – che si parli della storia politica o di quella industriale, è di una parte importate della storia d’Italia quella di cui si parla. E, per di più, di un periodo storico cruciale: con l’Ottocento finisce un mondo, quel mondo liberale che definiva una certa democrazia, elitaria e notarile; una certa economica, nazionale e liberista, pre-imperialistica; una certa modalità di pensare al mondo, la fiducia nel progresso e nella scienza, nella possibile composizione di una società più giusta e più ricca. Quello nuovo, tutto da costruire, verrà dopo. Nel frattempo la straordinaria effervescenza della tabula rasa, del conflitto aperto, dello scontro violento. Crisi vissute come tragedie, illusioni di palingenesi purificatrici credute o fatte credere. Fughe in avanti e tragiche disillusioni, sfinimenti e balsamici ritorni alle origini. Scenario mondiale di cui l’Italia sarà eccezionale laboratorio.
Di questa Storia la nostra storia è rappresentazione esemplare, straordinaria mise en abîme. Elemento centrale, motore e anima, senza dubbio la figura eccezionale di Anna Kulsicioff. La sua passione politica, la lucidità intellettuale; il suo coraggio e la sua forza di donna appassionata, di madre. La complessità del suo percorso, la giustezza delle sue posizioni – sempre, e al di là dei limiti nei quali il suo pensiero poteva muoversi; dell’ansia e della precipitazione che poteva guidare il movimento dei suoi ideali profondi e immutati. La capacità di gestire, con la stessa coerenza e la stessa grandezza, la declinazione politica della sua visione del mondo e gli affetti di intimi, i legami più privati; la capacità di connettere la visione rivoluzionaria di un mondo migliore con la giustizia da applicare qui e ora, in prima persona; la costante sfida al maschilismo e al pregiudizio, la pervicace volontà di imporre la verità del proprio pensiero, e la devozione assoluta dell’amante, la presenza affettuosa della compagna; la vita intellettuale e politica in primissima linea, e la preoccupazione quotidiana, lacerante, per la figlia.
La nonna rivoluzionaria e i nipoti monaci: che storia è? Di nuovo, è la fine di un’illusione troppo grande, un cerchio che si chiude, o piuttosto la straordinaria eccezionalità di una vicenda puramente privata, famigliare?
La Kuliscioff è il personaggio centrale di una storia che ha contribuito a scrivere. Inevitabile, proprio per questo motivo, che qualsiasi lettura che di quella storia si voglia dare debba fare i conti con il giudizio sulla sua figura.

Mino Martelli, nel suo libro intitolato Andrea Costa e Anna Kuliscioff. Rivelazioni sulla coppia da nuovi documenti, sostiene una tesi molto semplice: la storia della famiglia Costa Gavazzi è la storia della rivincita di Dio. Ciò che lega i protagonisti lungo le tre generazioni,“è la storia dei valori di giustizia e liberà  ricercati lungo un secolo da Andrea Costa e Anna Kuliscioff nell’anarchia e nel socialismo, dalla figlia Andreina nella religione cattolica, dai nipoti monaci nell’ascetismo cristiano”[p. 107]. Ma, ecco la tesi di Martelli, il fatto è che “i nonni Andrea e Anna si fermarono a metà strada della ricerca, quindi, della conquista. La figlia e i nipoti giunsero al termine”. Prosegue poi: “la prima generazione lottò contro chi possedeva troppo, la seconda per il necessario, la  terza per non possedersi né possedere. La prima generazione proclamò la libertà dell’uomo anche da Dio; la seconda, la libertà dell’uomo in Dio; la terza, la libertà di Dio nell’uomo, che è assoluta”[p. 107]. Certo, a tutte e tre le generazioni va riconosciuto un unico titolo, quello dell’eroismo. Ma se quello della prima fu un eroismo sociale, e quello della seconda un eroismo domestico, solo quello della terza, essendo un “eroismo senza aggettivi che si chiama santità”, fu vero eroismo. L’eroismo religioso come unica vera e completa forma di eroismo: per quanto gli altri possano essere validi e nobili, non raggiungono comunque l’assoluto.
La posizione di Martelli è una posizione coerentemente cristiana ed è esplicitamente assunta come tale. Al di fuori di questo orizzonte, però, la sua analisi risulta fortemente ideologica e a tratti schematica. Il filo rosso che lega “i rivoluzionari” e“i santi”, in definitiva, sarebbe un comune sentire religioso, un afflato mistico negato e soffocato nei nonni e poi progressivamente emerso e pienamente vissuto dai nipoti. Una religiosità insita e costante nella personalità e nella cultura di Costa e della Kuliscioff che Martelli riporta alla luce grazie alle “rivelazioni” annunciate nel titolo.
Quanto al primo, in verità, ci si limita a ricordare la famiglia di profonda fede cattolica, il rispetto per la religione pur nella rivendicata fede positivista, qualche senile malinconia per gli antichi dì di festa a carattere religioso - “Era festa e non si andava a scuola; il sole splendeva limpido; eravamo vestiti da festa. Che felicità! Tutto ciò è passato ed è bene che sia passato. Ma, purtroppo, noi non abbiamo sostituito nulla, che abbia l’attrattiva, l’universalità, la facoltà di elevazione che queste cerimonie avevano” [Martelli, p. 61] - oppure considerazioni intorno all’idea, per altro assai diffusa, secondo la quale “nel campo morale il Socialismo completa il principio cristiano: non fare agli altri ciò che non vuoi che a te sia fatto, col monito: nessun diritto senza dovere, nessun dovere senza diritto…”[Martelli p. 60].
Più complicato, e interessante, il discorso intorno alla religiosità della Kuliscioff. Che nella rivoluzionaria russa albergasse un potente afflato mistico è indubbio – del resto è lei stessa a riconoscerlo quando, con Virgilio Brocchi, cerca di spiegare la così radicalmente diversa esperienza della figlia: “la generazione rivoluzionaria e positivista, che ha esaurito le energie vitali destinate alla spinta in avanti, spesso trasmette ai figli le energie spirituali  - anzi mistiche – rimaste in essa latenti, ma segretamente operanti, come ogni forza che non esplicata si accumula. […] Parlo di misticismo religioso, ma non è detto che anche la nostra fede umana non si veni di misticismo. Tutte le giovani compagne che con me fuggirono dalla Russia per studiare medicina nella Svizzera erano misticamente ebbre di fede nella redenzione sociale. E mistiche come le più ardenti cristiane furono le mille e mille ragazze nichiliste che hanno affrontato la morte e sofferto inenarrabili supplizi”[Luce di grandi anime, p. 118]. Il fatto è che questa dimensione fortemente sentita e vissuta, l’impossibilità di ridurre tutto al semplicismo materialistico, non assume, come vorrebbe Martelli, connotati trascendenti e quindi religiosi. Certo, l’intera sua esistenza è abitata da una dimensione sacrificale, che influenzerà tutte le sue scelte e che finirà per costituire, presso i suoi cari, il più potente lascito spirituale, ma è una dimensione troppo esposta all’accettazione tragica della nostra troppa umanità per essere semplicemente ricondotta a una trascendenza di matrice cristiana.
Altro limite nell’interpretazione di Martelli è quello di non intrecciare a sufficienza la vicenda famigliare delle tre generazioni con lo sfondo storico sul quale sono costrette a muoversi. Per fare un passo avanti è allora utile recuperare la testimonianza di Tommaso Gallarati Scotti.
Come racconta lui stesso, “nel dicembre 1959 ricevetti da comuni amici la notizia, che mi era sfuggita dai giornali, della morte di Andreina Costa, vedova di uno dei miei migliori amici di giovinezza: Luigi Gavazzi. Si era spenta, ormai vecchia, santamente, col luminoso sorriso della fede, assistita dal figlio padre Egidio Gavazzi, benedettino, abate di Subiaco. L’annuncio di quel pio trapasso si ripercosse in me in modo particolare, perché ridestava un ribollire di passioni politiche del principio del secolo, cui avevo partecipato, ma soprattutto per la conoscenza diretta con le varie figure del dramma spirituale cui la soave donna era stata il centro”[Interpretazioni e memorie, p. 378]. A riattivare i ricordi e indurlo poi a nuove considerazioni fu però l’incontro con un vecchio amico, diventato Presidente della Repubblica: “Alcuni anni or sono, essendo stato invitato a un pranzo intimo al Quirinale da Luigi Einaudi, egli mi raccontò che la mattina stessa l’abate di Subiaco gli aveva prestato il giuramento dei vescovi, e che avendogli Einaudi ricordato le sue amicizie personali con membri della famiglia Gavazzi, “sì” aveva risposto il monaco “ma per parte materna mio nonno era Andrea Costa e mia nonna Anna Kuliscioff”. Questo franco richiamo al dramma storico e spirituale delle sue origini, era parso altamente significativo al presidente della Repubblica, il quale rimase più impressionato quando gli dissi che anche la sorella di padre Egidio si era fatta suora di clausura nelle Carmelitane scalze”[Interpretazioni e memorie, p. 381-382]. Il vivo e orgoglioso ricordo del nipote per i nonni, insieme alla radicale inversione di senso che, rispetto ai nonni, sembrava aver dato alla sua visione del mondo; la conferma di questo ribaltamento generazionale nella scelta altrettanto radicale della sorella, certo non erano elementi tali da lasciare indifferenti.
Con la finezza del memorialista teso a cogliere il senso del mondo che lo circonda, Gallarati Scotti sottolinea quella che definisce come l’ansia di tre generazioni. Innanzitutto è colpito da una straordinaria coincidenza, quella che lega il dramma spirituale di Kuliscioff e dei suoi discenti a quello di un’altra “figlia della tempesta”, Eleonora Duse: “Anche la Duse, un giorno, si era trovata con la sua Enrichetta mutata, diversa, non più sua; posseduta da una fede religiosa che non riusciva a comprendere da che, da dove le fosse venuta… E anche i due figli di Enrichetta – a vent’anni – erano stati chiamati dalla stessa voce misteriosa, ed erano entrati nel medesimo ordine dei domenicani” [p. 382]. Entrambe le donne “appartenevano a una rivolta ideale che non può confondersi col socialismo scientifico, quale dottrina che tutto pretende spiegare come risultato di una evoluzione storica e un adattamento dell’ordine sociale ai bisogni materiali dell’uomo”. Si trattava, in effetti, di un “movimento degli spiriti che penetrava tutto il secolo XIX, coinvolgendo la politica, la religione, la filosofia, la poesia, l’arte, il teatro. Fermento-tormento – ricerca a cui Cristo, anche se apparentemente rinnegato, non era estraneo – perché ovunque vi è travaglio di coscienze ivi è implicita l’ispirazione cristiana”. Ritornando poi al caso specifico di Anna Kuliscioff, sulla scorta, come detto, della testimonianza diretta (“dramma interiore che ho potuto seguir da vicino – partecipe appassionato ed attento del segreto processo delle idee e delle fedi attraverso tre generazioni”), Gallarati Scotti sottolinea come Anna Kuliscioff si era lanciata all’assalto di tutto il vecchio mondo “con un senso quasi mistico, persuasa che come da un incendio, sarebbe emersa alla fine una umanità purificata. Ma sul declino dei suoi giorni (interpretando alcuni suoi discorsi) mi parve cominciasse a dubitare che una fede cristiana ben intesa potesse dare agli uomini ciò che il socialismo non poteva dare… E della felicità interiore raggiunta da Andreina si rallegrava come di cosa sua, poiché – diceva – nell’educazione l’aveva sempre volta verso idee di giustizia e di amore della verità e dei poveri, che sono la base stessa della vita cristiana. Poi venne la terza generazione in cui le passioni e l’angoscia dell’ava si risvegliarono con anelito diverso. Lo slancio vitale delle origini li sospingeva ancora. Era una generazione inquieta che nei migliori e più pensosi aveva sete di assoluto e di rinuncia. La ricerca ansiosa della verità continuava in essi – ma altrove era la loro pace”[Interpretazioni e Memorie, p. 383].
In definitiva, il misticismo della Kuliscioff, la cui dimensione cristiana era implicita (anche se apparentemente rinnegata non era estranea la ricerca di Cristo), si era alimentato della fede secolare ottocentesca in una possibile redenzione sociale realizzata nella storia. Il nuovo secolo, le mutate condizioni, le relative disillusioni, avevano inaridito le speranze, cosicché, quasi naturalmente, la sua inesauribile fiamma spirituale l’aveva spinta verso l’inevitabile ricongiungimento a Dio. Questa fiamma, questa stessa indomita ricerca, si era poi trasmessa, attraverso Andreina, ai nipoti che, quella stessa fame di assoluto, erano finalmente riusciti a saziare nella pace della trascendenza assoluta.
Rispetto a quella di Martelli, l’analisi di Gallarati Scotti è intellettualmente più raffinata e storicamente più consapevole. La spiegazione, però, è la stessa: il paradosso apparente, la bizzarra eterogenesi dei fini dei nonni rivoluzionari e dei nipoti monaci trova un perché nell’intreccio tra la dimensione collettiva - la fine della speranza rivoluzionaria e il riflusso ideologico -, e quella più individuale – il seme religioso racchiuso nel misticismo della grande nonna russa che, grazie alle mutate condizioni, trova poi modo di esprimersi completamente nei nipoti monaci.

La nostra vicenda è indiscutibilmente fatta per attirare l’attenzione. C’è un’evidente dimensione esemplare, una strana circolarità che spinge e leggervi un senso. Senza contare che i protagonisti, da una parte come dall’altra, sono figure centrali, loro stesse cariche di significati profondi. Per questo è facile, troppo facile, derivarne il senso che più ci piace, quello che meglio ci racconta la storia che vorremmo raccontata.
Quello che non convince nelle interpretazioni di Martelli e Gallarati Scotti è il loro contenuto “balsamico”. Quella di Andreina Costa Kuliscioff e Luigi Gavazzi è la storia della possibile soluzione del conflitto sociale in un momento storico nel quale l’ipotesi rivoluzionaria è ancora concreta, quando ancora riscalda gli animi, o li terrorizza. Con toni e sensibilità diversi, entrambe ci propongono uno schema, quello della rivincita di Dio. Quello schema non va tanto rifiutato per il suo contenuto opinabile e, da un punto di vista storico, un poco superficiale, ma per il suo essere, appunto, uno schema.
La loro è la storia di una Storia che ha una direzione e che, come tale, si mangia i suoi protagonisti, li strumentalizza e li riduce. Questo risulta evidente nel caso della Kuliscioff. Certo, il suo mito non viene apparentemente scalfito e, anche per i nostri interpreti, l’esule russa rimane figura eccezionale, straordinariamente affascinante. In una storia che la supera lei incarna la figura dell’eroina tragica, abitata da una passione nobile e coerentemente vissuta, ma passione sbagliata cui, alla fine, essa stessa dovrà misurare la vacuità. Nei suoi ultimi anni di vita il misticismo che aveva alimentato la fede terrena si scontra con la dura lezione della realtà e Anna non può che arrendersi all’evidenza di una forza più grande di lei. Martelli, riferendosi a quanto raccontato dalla figlia Andreina, sostiene che in punto di morte le ultime sue parole fossero rivolte a Dio.
Certo, nello schema della rivincita di Dio, il finale è perfetto. Ma, appunto, lo schema è sin troppo perfetto per essere vero. Fortunatamente non è nemmeno l’unico. Marina Addis Saba, in una sua documentata biografia, ne riporta uno diverso: “Sino ad un’ora prima di morire allontana per l’ultima volta la siringa ed esclama: “E’ inutile, è inutile! Perché volete allungarmi l’agonia?” e aggiunge: “E’ proprio difficile anche morire!”. È lucida dunque sino all’ultimo per comprendere la durezza della vita e della morte, la durezza del distacco: lei stessa alla fine vuole baciare i più cari e infine si spegne: sono le 13,45 del 29 dicembre 1929[Addis Saba, p. 437]. Se fosse un romanzo, certo, preferiremmo questo secondo finale. Il fatto è che anche nella realtà ci sembra più coerente e in sintonia con il personaggio che emerge dalle carte a disposizione – essenzialmente l’immenso carteggio con Filippo Turati, ma anche le appassionate lettere a Andrea Costa, i numerosi suoi articoli (spesso non firmati) su Critica sociale. Tanto nella dimensione pubblica quanto in quella privata, emerge la figura di una donna estremamente coraggiosa, abitata da una visione generosa e appassionata della vita. Questa visione, però, è definita all’interno dei limiti di un’umanità considerata nella sua irriducibile, sublime, prosaicità. Si è spesso sottolineato il contenuto mistico della sua militanza politica, sottolineatura che coglie nel segno solo se correttamente intesa: il suo misticismo non si piega mai alla devozione a un senso trascendente, alla visione di una riconciliazione ascetica, ma è piuttosto l’espressione di una pervicace fiducia nell’umano del quale si considerano drammaticamente i limiti; di una ribadita volontà di restare ancorati a questa terra esaltandone tutte le potenzialità e misurandosi con tutti i suoi limiti. In definitiva, non si potrebbe sbagliare di più legando la grandezza della Kuliscioff a un misticismo inteso come distacco dal mondo. Anche la sua ribadita credenza nell’aldilà appare, se osservata da vicino, come la declinazione di un agnosticismo tragicamente inteso.
Anche noi siamo convinti che raccontare questa storia significhi raccontare, in qualche modo, del testamento, del lascito intellettuale di Anna Kuliscioff. Siamo però anche convinti che sia necessario liberarsi dal vincolo dell’attribuzione di un senso ad ogni costo alla storia che raccontiamo: solo così riusciremo a cogliere davvero la dimensione e la grandezza di quel testamento. Testamento che non fu solo intellettuale, ma soprattutto esistenziale: all’intellettuale, alla militante e alla femminista non si contrapposero mai l’amante e la compagna, la madre e la nonna. In Anna la vita procedette sempre in un miracoloso insieme retto da un forza e un’intelligenza eccezionali. È la sua vita che entra in quella dei suoi cari, che la modifica e la influenza. Ciò che disse e ciò che scrisse non entrò mai in contraddizione con quello che fece, con il modo in cui visse: gli esiti paradossali del suo esempio, forse, non sono così bizzarri quanto sembrano.
E poi c’è la storia, l’assoluta contingenza del suo procedere, la casualità degli eventi. Uno in particolare: la morte di Luigi Gavazzi. In che termini questo episodio drammatico segna il clima, modifica i legami tra marito e moglie, il rapporto con i figli? Nella perfetta libertà del vuoto possiamo disegnare sulla sabbia gli schemi più convincenti: la scelta radicale del ritiro dal mondo dei nipoti, da una parte; la devozione mistica della nonna alla causa di una società più giusta, più libera, dall’altra. Nel vuoto, sulla sabbia. Nella realtà, invece, tra il punto di partenza e quello d’arrivo c’è tutta una vita, di più: ci sono due generazioni. E poi ancora una serie infinita di scelte possibili, di ipotesi mancate e di puro, semplice caso.
I fili da tirare, le conclusioni da trarre, i cerchi da chiudere: sì, ma dopo. Prima lasciamo che la storia ci sveli i suoi segreti.



IL SANTUARIO GAVAZZI

La coppia si stabilisce a Desio, nella grande casa di famiglia. I primi anni sembrano trascorrere serenamente. Andreina è completamente assorbita nella cura dei cinque figli. Della calorosa accoglienza ricevuta, in particolare da parte del suocero, Egidio Gavazzi, troviamo conferma in una pagina del diario di Andreina: “Caro e buon Papà Egidio, che mi accolse nella sua casa con un sorriso e un affetto che non dimenticherò mai e che più di tutti mi incoraggiò alla nuova vita nell’ambiente sconosciuto”[Diario Andreina, 12 febbraio 1918].
Luigi, dopo un breve periodo di tirocinio, decide di dedicarsi alla fase produttiva della fabbrica di Desio, lasciando al fratello Simone la cura dell’amministrazione: “Fu alla fabbricazione, alla visita e al controllo delle stoffe da ombrello che dedicai la maggior parte della mia attività e del mio tempo, poco riservandone alla parte commerciale già molto curata da mio fratello Simone, stabilmente impiantato a Milano”[Diario Luigi, 25 febbraio 1917]. Assumendo in pieno anche l’onere di essere un Gavazzi, si occupa poi anche della cosa pubblica, un obbligo cui si sottopose non ricavandone un gran piacere: “L’uomo d’azione si ricordi che le istituzioni pubbliche ed amministrative sono lo spegnitoio di ogni buona fiamma riformatrice!”[Diario Luigi, 6 marzo 1917 – pomeriggio].
Per lavoro è spesso a Roma, dove reca regolarmente visita a Turati che ce lo descrive in preda a frequenti disturbi allo stomaco - gli stessi che mettono in apprensione la moglie. Turati in una lettera alla Kuliscioff: “Il Luigi è veramente un po’ giù, e il male lo capisco anch’io che è di carattere nervoso, tant’è che, quando per es., era con me, stava bene. Non mi pare che il viaggiare gli giovi”[Carteggio Turati Kuliscioff, Tomo III, p. 712]. Ne è lui stesso consapevole: “Gli anni 1910 – 11- 12 – 13 non furono lieti per me. I miei gravi disturbi di stomaco mi facevano soffrire assai. Ero di umore triste, irascibile, noioso. Andreina ebbe per me ogni sorta di attenzione, di bontà, di pazienza, cedendo con prontezza meravigliosa alle mie talora irragionevoli pretese […]”[Diario Luigi, 23 febbraio 1917].
Si riferisce alle costanti richieste fatte alla moglie di raggiungerlo, a Roma, come visto, ma anche a Rapallo, dove spesso soggiorna proprio per contrastare i suoi dolori. I due vivono i distacchi come adolescenti innamorati. Si scrivono e si cercano in continuazione. Anna li osserva non nascondendo un certo compiacimento. Ce la immaginiamo affondata nel suo verde divano in piazza Duomo, al riparo dal penetrante grigiore meneghino, rispondere a Turati, a Roma con Andreina appena giunta assecondando le suppliche del marito: “Spero che oggi la Ninetta, se non era troppo stanca, sarà andata a cercarti in compagnia del suo consorte, il quale davvero non sembra un marito dopo 8 anni di matrimonio. Tempesta quella povera tusa di telegrammi e fin con tre lettere al giorno, perché essa venga a raggiungerlo, mentre per lei lasciare la sua nidiata fu un vero dolore”[CTK, p. 678].
E la nidiata è già importante: a Desio Andreina ha lasciato i suoi bambini, che nel 1912 sono quattro, mancando solo il piccolo Pietro, che nascerà l’anno successivo. La nonna ha già avuto modo di abituarsi all’idea, con estremo piacere. Sale spesso in Brianza, nelle grande casa borghese, dove passa sempre il Natale: “E’ nonna tenerissima, esentata da cure materiali dalla fragilità della sua salute e dal benessere che circonda la figlia cha ha intorno balie e cameriere, ma si interessa dei bambini, del loro peso, del loro appetito anche come medico, ma soprattutto inizia a stabilire rapporti di comunicazione con ciascuno di loro quando sono un po’ più grandi e cominciano a dire le prime parole. Come tutte le nonne questa bionda socialista racconta ai bambini le favole del suo paese lontano, insegna loro filastrocche in russo e persino in dialetto meneghino”[Addis Saba, p. 206]. Non è difficile immaginare che anche in questo tranquillo interno borghese il mondo finisse per girare intorno a lei.
Quella dei Gavazzi è una famiglia cattolica. La religione è un elemento centrale nella loro educazione e nei rapporti che intrattengono con la comunità che li circonda, nella definizione delle loro scelte politiche come nell’approccio alla loro attività imprenditoriale. Luigi, in questo, è un perfetto rappresentante della sua famiglia. Andreina, come visto, si avvicina tardi alla religione. Il sentimento religioso entra nella sua vita insieme all’amore. Abbraccia la fede insieme al nuovo mondo, alla sua nuova famiglia. Per entrambi il sentimento religioso è vissuto, tutto sommato, in piena coerenza con un’attività mondana pienamente assunta – l’imprenditore e l’amministratore, la moglie e la madre. Non è però in questa dimensione ordinaria che crescono i piccoli Gavazzi.
Nel 1914 Luigi si ammala. Viene immediatamente diagnosticata una nefrite, patologia grave, a quei tempi mortale. L’equilibrio si spezza, la quotidianità si interrompe. Nel quarto anniversario di quella terribile data, il 12 aprile, Andreina ricorda ai figli come il loro padre fosse stato con loro a Milano a vedere al Cinematografo la Passione di nostro Gesù Cristo: “Era partito contento di condurvi a un divertimento e si sentiva benissimo. Io non diedi importanza al sua malessere credendo fosse una leggera infreddatura. Era invece il principio della fine!”[Diario di Andreina, 12 aprile 1918].
La famiglia è costretta a trasferirsi in Liguria – prima a Varazze e poi, stabilmente, a San Remo. È in quel preciso momento che si attiva una religiosità intesa, fonte di speranza e di conforto, garanzia e collante per un legame che si rafforza nel dolore. A quel punto, come ricorda Luigi, la sua casa assumerà i contorni di un Santuario, “dove la generazione novella viene senza fatica, anzi con senso di sollievo e di gioia, imbevuta di religiosità profonda, di fede sicura e quindi di rettitudine e di felicità nell’adempimento di ciascuno ai propri doveri”[Diario Luigi, 23 febbraio 1917].



I DIARI DI LUIGI E ANDREINA

Di questa intensificazione religiosa, di questo vero e proprio abbandono del mondo, abbiamo testimonianza nei diari dei coniugi Gavazzi.
Quello di Luigi è scritto nei mesi immediatamente precedenti la sua morte, tra il febbraio e l’aprile del 1917. Le pagine sono attraversate da una forte carica drammatica: la consapevolezza della morte imminente, la lotta quotidiana contro il dolore, lo sconforto e la disillusione riguardo l’impotenza della medicina, il rimedio della preghiera, la fede come unica speranza. Il senso tragico è intensificato della situazione circostante, con il racconto della prima guerra mondiale che irrompe dalle pagine dei giornali.
Luigi è lucido e la sua analisi in qualche caso preveggente. Dal suo doloroso isolamento osserva la spirale drammatica, il cristallizzarsi sanguinoso di uno scontro che non può che risolversi in tragedia. Il suo mondo e il mondo esterno, la dimensione politica e quella esistenziale: su entrambi i fronti un senso della fine la cui unica forma di ribellione è un poderoso intensificarsi della fede.
È interessante notare con quale spirito si avvicina all’idea di tenere un diario: “Cos’è mai questa mia idea che mi sorge oggi nella mente di scrivere il mio giornale? Condannato dai miei acciacchi a vegetare tra le quatto mura della mia camera senza o con pochissima speranza di un avvenire migliore, cosa potrò io mai notare di interessante, di piacevole a leggere in questo mio giornale? Mi limiterò credo a notare giorno per giorno i miei pensieri, i ricordi del passato, le impressioni quotidiane che suscitano in me gli avvenimenti storici che si stanno svolgendo, le speranze vive e fervide che l’animo mio nutre per un salutare risveglio, nel popolo italiano, del sentimento religioso, fonte di felicità, di reale progresso; noterò con soddisfazione e con gioia le grandi consolazioni che mi manda quotidianamente il Signore a conforto dei miei mali fisici; lo sviluppo promettente dei miei cari figlioli, le opere buone, le infinite delicatezze, le amorevoli cure, che mi prodiga quell’angelo di bontà e di tenerezza che è la mia Andreina. Essa è certamente per me la fonte più abbondante di gioia e di consolazioni, ed io non ringrazierò mai abbastanza la Provvidenza di avermi dato una compagna così assennata, così amorevole, capace di tanto spirito di sacrificio!”[Diario di Luigi, 22 febbraio 1917].
Il diario, quindi, si pone come testamento intellettuale e personale, testimonianza civile del Gavazzi dirigente e cittadino e, insieme, come lascito educativo per i figli e ultima, sentitissima dichiarazione d’amore alla moglie.
Su tutto la fede, la devozione a un vincolo ultraterreno che è il solo a dare davvero senso alle cose del quaggiù: “Di quante cose abbiamo bisogno per farci santi? Di una cosa sola: volerlo. Sì, purché lo vogliate, potere essere santi: non ci manca altro che il volere. […] Nella vita dei santi, che la Chiesa ci propone a modello, vedremo talvolta dei fatti straordinari e della azioni strepitose: ma dobbiamo ritenere che non sono questi fatti, né quelle azioni, che li abbiano fatti santi; bensì la loro fedeltà nel servizio di Dio, e nell’adempimento dei doveri del loro stato”[Le “letture cattoliche” di don Bosco, Liguori, 1984, p. 203]. Le parole sono di don Bosco e non sono qui citate a caso: fedeltà nel servizio di Dio e adempimento dei doveri del proprio stato sono coordinate all’interno delle quali si definisce quell’ascetismo inframondano di declinazione cattolica che costituisce il nucleo del testamento intellettuale del Gavazzi.

In termini generali questa tensione ideale a forte connotazione religiosa fornisce la base per un’educazione che si vuole agli antipodi e controfigura  alla spinta individualistica e all’etica del successo, avversione che caratterizza il sentire profondo dell’intera famiglia – tanto da costituire, per altro, uno dei più evidenti elementi di congiunzione tra le tre generazioni. Un insegnamento però complesso, con implicazione politiche e sociali.
Una componente essenziale del modello salesiano delle origini è la volontà di adattamento ai nuovi ordinamenti statali liberali, anche in nome di un principio di autorità di tipo provvidenziale. Certo, un adeguamento al codice liberale relativo, “plastico”, il cui corollario è la netta distinzione tra le funzioni di comando, riservate alle classi alte, e le funzioni produttive, riservate alle classi popolari – come se con la fine del temporalismo venisse meno anche l’antica struttura gerarchica e l’idea di progresso venisse assorbita tramite un’idea di divisione del lavoro rigidamente intesa. Il circuito salesiano incideva proprio alimentando questa distinzione grazie a forme religiose imbevute di elementi devozionali e nuovi modelli etici sia di tipo lavoristico, sia volontaristico. Due le direttrici: da un lato, l’interiorizzazione di regole di precisione, di disciplina, di ordine, di collaborazione, di senso del tempo, adeguate a un lavoro organizzato in un contesto dotato di rigorose norme interne – tutti elementi che prefigurano l’organizzazione della fabbrica moderna; dall’altro, la ricerca di un equilibrio stabilizzatore tra l’idea di lavoro come fattore di identità e autopromozione personale e la predicazione di un’etica di status dai connotati inevitabilmente conservatori. L’orizzonte di santità cui si faceva riferimento sopra trova qui la sua ispirazione profonda.
Tutti questi elementi emergono chiaramente nella personalità di Luigi Gavazzi, almeno per quello che le pagine del suo diario ci raccontano: il paternalismo “moderno”, fondato sull’idea del lavoro ben fatto; gli obblighi di status e i relativi impegni nel volontariato; una certa idea di ordine e di stabilità.
L’attività imprenditoriale nella “Egidio & Pio Gavazzi” comincia per Luigi nel 1909. Come abbiamo visto, lascia al fratello Simone l’attività amministrativa concentrandosi sulla produzione: “Nessun godimento, nessun piacere maggiore può il mondo offrirci di quello intimo, grande, inesplicabile che ci è offerto dal lavoro industriale e commerciale specialmente se, come quasi sempre avviene, l’opera solerte e continua è largamente compensata dal guadagno e dal fiorire dell’industria”. Un’idea alla quale tiene molto è quella della produzione perfetta: “La produzione perfetta! Ecco la meta che deve prefiggersi ogni buon industriale!”. In definitiva, l’idea del lavoro ben fatto, la quale però acquista il suo vero senso se agganciata a una visione più alta, a una particolare etica del lavoro: “Io penso (e in questo credo di esprimere un concetto originale non condiviso dalla maggioranza dei miei colleghi) che l’industriale non è puramente e semplicemente un faiseur d’argent, ma è destinato dalla provvidenza a compiere una importantissima missione moralizzatrice nel tempo stesso in cui produce ricchezza per sé e per i suoi collaboratori (impiegati e operai). Fedele a questo concetto io ho sempre cercato di improntare i miei rapporti coi dipendenti al maggior possibile spirito di carità evangelica”[Diario di Luigi, 26 febbraio 1917].

Un’etica lavoristica che si accompagna all’obbligo fortemente sentito nei confronti della dimensione assistenziale e solidaristica: “Io credo che il ricco è obbligato dalla legge divina a beneficiare il povero. Oltre alla soddisfazione che si prova nel fare il bene, sta il fatto che i comandamenti di Dio e della Chiesa, ci fanno obbligo formale si soccorrere il prossimo in proporzione alle nostre sostanze”. Un obbligo cristiano cui però deve accompagnarsi l’assunzione di responsabilità sociale, civica e politica insieme. La beneficenza non basta, occorre stabilire quale sia la sua forma migliore e più efficace: “La risposta è non solo difficile ma impossibile a formularsi. Sono encomiabili tutte quelle forme di beneficenza che rispondono a un bisogno sentito. E quindi è da lodarsi tanto chi distribuisce ai poveri generi alimentari, come chi dà loro danaro, tanto chi pensa alla fanciullezza abbandonata, come chi ha cura dei vecchi e dei cronici, delle povere madri di famiglia, degli orfani ecc. Verità intuitive sulla quali non val la pena di soffermarsi. È sotto un altro punto di vista che occorre ben distinguere tra beneficenza e beneficenza: il lato morale!”. Una forte coscienza di status cui deriva una precisa responsabilità educativa:“Io deploro tutte le forme di beneficenza che non hanno contenuto moralizzatore. Sollevare le miserie materiali è un dovere e un piacere, ma guai a noi se in pari tempo non facciamo servire il nostro aiuto munifico ad elevare il tono morale del beneficiato, guai a noi se facciamo completa astrazione delle facoltà moralizzatrici della beneficenza. Nello stesso momento in cui beneficiamo un povero, è nostro dovere dargli qualche avvertimento morale, domandandogli di adempiere con maggiore sollecitudine ai suoi doveri verso Dio, riprenderlo nei suoi difetti capitali, incoraggiarlo a ben fare e fargli capire che saremo larghi di aiuto con lui se egli dimostrerà di apprezzare i nostri savi suggerimenti. Chi dà, acquista il diritto di parlare con la massima libertà, il suo atto materialmente proficuo, gli vale la ricompensa e la stima del beneficiato, il quale è propenso ad ascoltare e a seguire chi gli fa del bene. Di questa fortunata disposizione d’animo del beneficiato, deve approfittare il benefattore per prendere due piccioni con una fava: beneficiare materialmente, migliorare moralmente. L’uomo benefico che rinunci ai suoi diritti nel campo della propaganda morale fa opera stolta”. Il precipitato stabilizzatore e conservatore emerge quindi con chiarezza: “Così, per esempio, la beneficenza in questi tristissimi tempi di lotta di classe, deve sempre avere di mira di attutire i contrasti tra ricchi e poveri, tra classi dirigenti e proletariato. In quale modo? Non si può esporre una regola generale, ma basta avere sempre presente il principio: l’applicazione pratica viene da sé e può consistere in una parola affettuosa, in un avvertimento energico, in una precisa disposizione secondo i casi e secondo le circostanze”[Diario di Luigi, 8 marzo 1917].
Anche dal punto di vista più specificatamente politico l’ispirazione salesiana gioca un ruolo importante: da un lato nell’ispirazione vagamente neoguelfa che individua nella sede papale e nel centro istituzionale della cristianità l’autentico fattore di identità nazionale; dall’altro nell’esaltazione del ruolo della vera religione, e nel rispetto della sua dottrina, come fattori di benessere terreno per gli individui e le istituzioni sociali.
Tutti questi elementi sparsi, corredo di un’educazione ricevuta e insieme di una visione del mondo individualmente elaborata, vengono poi attivati, intensificati e quasi trasfigurati negli ultimi giorni della malattia - la devozione religiosa, prima vissuta nei termini mondani della responsabilità civica e nella dedizione professionali, viene  ora a caricarsi di una dimensione integralmente extramondana; il tutto mentre il precipitare della guerra alimenta un radicale pessimismo, un sentimento di vanità che giustifica l’ipotesi di un definitivo abbandono del mondo: “Dopo un notte tempestosa, una mattina magnifica. Il mare è ancora agitato ma il cielo è sereno, l’aria è trasparente e tranquilla. Io risento subito il vantaggio di questi cambiamenti di tempo; mi pare di essere più leggero, di respirare più liberamente; sento assai meno tutti i miei incomodi e malanni! È del resto un fatto innegabile che da qualche tempo a questa parte sto decisamente meglio. A cosa devo attribuire questo mio miglioramento? Alla cura Kneipp? Sarebbe un po’ azzardato e prematuro crederlo. All’avvicinarsi della primavera? O Piuttosto non vuole essere questo benessere l’effetto benefico di tante preghiere? […] Amo credere che il Signore si ricordi di me, vile verme di questa terra, e vuole concedermi un po’ di tranquillità e di gioia”. Qualche giorno dopo: “Mi convinco ognor di più che non dalla scienza degli uomini posso aspettarmi qualche cosa di buono, ma solamente dall’intervento del soprannaturale io posso ancora sperare un po’ di sollievo!”[Diario di Luigi, 21 marzo 1917]. Il passaggio si è ormai consumato, la fede religiosa non alimenta più una regola di vita attiva elevandosi a solo e unico conforto, unica vera fonte di speranza per una guarigione che ormai è solo nella mani di Dio.
In questo trapasso, in questa impennata mistica, è importante sottolineare la forma particolare la devozione al Sacro Cuore: “Domani si compie il triennio dall’inizio della mia malattia. Sarà festeggiato, per modo di dire, qui e a Milano con preghiere e Messe. Ho speranza di ottenere una Messa dal Cardinal Ferrari. Ne sarei contentissimo perché lo credo un santuomo e ritengo che il Signore ne accoglierà benevolmente le preghiere. Del resto il cuore mi dice che se non subitamente sarò però presto alquanto sollevato dalle mie sofferenze. È il Cuore di Gesù che parla? Non lo so; questo però è certo, che nelle mie piccole necessità quotidiane non ho mai invocato invano il mio caro Sacro Cuore il quale, specialmente in questi ultimi giorni, mi è stato largo di piccole grazie morale e materiali. Dunque abbiamo Fede e coraggio e la speranza conforti i nostri cuori oppressi!” [Diario di Luigi, 11 aprile 1917]. La devozione al Sacro Cuore è uno dei luoghi nei quali meglio si esprime quel sentimento di abbandono del mondo che negli ultimi suoi giorni di vita Luigi è il risultato di un intrecciarsi continuo tra tensione ascetica e disincantato pessimismo civile.
In seno alla Chiesa cattolica è a partire dal XII secolo, e in particolare all’interno della mistica tedesca, che si è sviluppata una forma di spiritualità inspirata al cuore di Gesù. Da un punto di vista strettamente teologico, l’oggetto di questo culto è sia il cuore di Gesù visto come simbolo del suo amore, sia Gesù stesso che, nel simbolo del suo cuore, si rivela agli uomini: “Si dice “cuore” ma si intendono gli atteggiamenti interiori costanti, che delineano il volto di Dio nel volto di Cristo, per giungere, attraverso la duplice via della grazia sacramentale e dell’imitazione, a modellare il cuore dei devoti sul cuore di Cristo, perché è il Salvatore dal cuore trafitto in croce, e per il dono del suo Spirito, che nasce anche un uomo dal cuore nuovo”[dal: Dizionario Enciclopedico di Spiritualità].
Questa particolare forma di devozione, però, ha acquistato anche una forte dimensione politica, in particolare a partire del XIX secolo, ossia da quando vengono rispolverate le visioni di Margherita Maria Alacoque, mistica del monastero della Visitazione di Paray-le-Moniel in Borgogna. Nel 1689 l’Alacoque, riferendosi a una delle sue visioni, affermò che volendo regnare nei palazzi dei principi in riparazione della umiliazioni subite durante la Passione, il Sacro Cuore ha scelto Luigi XIV, re di Francia, come esecutore di questo disegno. Se il sovrano francese avesse adempiuto a quattro condizioni (l’edificazione di una festa liturgica del Sacro Cuore, l’impegno presso il papa per la proclamazione della festa liturgica del Sacro Cuore, la consacrazione della Francia al Sacro Cuore e l’inserimento della sua immagine nella bandiera nazionale), egli sarebbe diventato il nuovo luogotenente della Chiesa - avrebbe abbattuto  e ristabilito il santo impero cattolico capace di sconfiggere tutti i nemici di una ricostituita cristianità. Luigi XIV non esaudì le richieste e, nella sua interpretazione tardo ottocentesca, il castigo divino nei confronti della monarchia borbonica si manifestò nell’esplosione della Rivoluzione francese esattamente un secolo dopo.
È però con Pio IX (il quale, non a caso, provvede alla beatificazione di Margherita Maria Alacoque) che il culto si lega alla ricomposizione di una società soggetta alle direttive della Chiesa contro i nuovi grandi nemici: il liberalismo e il socialismo. Seguirà poi un’interpretazione fortemente reazionaria espressa dalle correnti del cattolicesimo intransigente: non solo la Rivoluzione francese costituisce la punizione inviata da Dio ai Borboni per non aver ascoltato la richiesta divina trasmessa dalla beata, ma la Provvidenza lascerà il flagello della rivoluzione ancora ben operante nel mondo contemporaneo, che continuerà a corrompersi raggiungendo il disastro sociale. Tutto questo a meno che non intervanga un atto di pubblica consacrazione e riparazione capace di riportare a un vero stato cristiano. Nei giorni terribili della Comune c’è un episodio che viene interpretato nel suo valore simbolico come lampante conferma di questo schema: l’unica, anche se provvisoria, vittoria riportata contro i prussiani, è quella ottenuta dalle sole truppe francesi che recavano il Sacro Cuore nel loro stendardo. Alla fine della guerra, a Montmartre verrà innalzata la Basilica del Sacro Cuore.

Per quello che però maggiormente ci interessa, è nel corso della prima guerra mondiale che la devozione al Sacro cuore manifesta i suoi più espliciti risvolti politici: ambienti cattolici di diversi paesi (in Italia il Gemelli e il gruppo intorno all’Università cattolica) non la proporranno solo come pratica consolatoria nel generale disastro bellico, ma indicheranno nel pubblico riconoscimento di una formale consacrazione nazionale al Sacro Cuore – ossia: accettazione del ruolo direttivo della Chiesa sul Paese – l’indispensabile premessa della vittoria. Conseguente sarà la posizione di Benedetto XV durante le fasi del conflitto: egli mostrerà la necessità di una subordinazione di tutti gli Stati alle indicazioni del papato, come il solo deterrente per gli irriducibili contrasti, come unica garanzia per una pace giusta e duratura.
Il 21 febbraio Luigi sfoglia le pagine de Il Giornale d’Italia che riportano una pausa nelle azioni belliche. Lucidamente osserva:“Non bisogna illudersi: l’umanità è alla vigilia della sua più dolorosa passione”.


Senatore Lodovico Gavazzi (1857 - 1941)
Riferisce di una lettera scritta al cugino Ludovico Gavazzi in quegli stessi anni senatore del regno. La sua posizione pacifista è eterodossa, ma le giustificazioni inappuntabili:“A cosa serve, a cosa porta questo inutile bagno di sangue? Non si è forse capito che nessuno potrà veramente prevalere?” E, se questo è vero, allora “perché non intendersi, perché non sottoporre la questione all’arbitrio del pontefice?” Qualche giorno dopo, in seguito al riprendere del conflitto e dell’entrata in scena dei sommergibili tedeschi, si chiede: “Verrà o non verrà la carestia? […] Io aspetto ansiosamente qualche solenne e pubblica manifestazione del Pontefice. Certo egli lavora nascostamente e silenziosamente: ma se agisse ora apertamente avrebbe con sé il mondo intero! Speriamo, speriamo!”   [Diario di Luigi, 6 marzo 1917].
La stessa fede nutrita dal pessimismo che caratterizza anche la sua repulsione per qualsiasi speranza rivoluzionaria. Il drammatico spettro della Comune docet: “Le cronistorie di quell’epoca dolorosa per la Francia, è interessantissima. Quante aberrazioni, quanti spropositi, quanti delitti perpetrati in nome del progresso e della libertà! E il povero popolo, sempre ignorante e sempre turlupinato, fatto zimbello della passionalità e partigianeria di pochi imbroglioni, muove l’animo alla compassione e allo sconforto! Possibile che l’umanità sia sempre così bambina, così ingenua? Quando comprenderà il popolo che non nelle ribellioni violente, ma nel tranquillo e lento lavorio dei tempi, nell’ordine e nella pace può l’umanità progredire verso più alti destini e la società evolversi e migliorarsi? L’anarchia, l’empietà, i moti violenti, non giovano a nulla anzi risospingono l’umanità verso la barbarie e verso la miseria! Eppure tante lezioni a che hanno giovato? Il popolo è ancora oggi impulsivo, irrequieto, ribelle, si lascia ancora oggi sedurre dalle lusinghevoli promesse dei demagoghi ed è sempre pronto a versare il proprio sangue per la più ingannevole utopia di cui gli venga fatta balenare come possibile la realizzazione”[Diario di Luigi, 15 marzo 1917].
La malattia, la progressiva perdita di fiducia e lo spettro della morte ogni giorno più concreto: Luigi riversa nella devozione religiosa l’unica possibile speranza. All’intensificarsi della sua fede corrisponde l’edificarsi di un “santuario” nel quale l’angoscia del malato si alimenta di pessimismo politico. Il testamento spirituale che i suoi figli ricevono è quello concepito da un uomo che ha completamente abbandonato il mondo, un mondo rispetto al quale, ormai, si sente sempre più lontano.



Il tono e il contenuto del diario di Andreina sono completamente diversi. Inizia a scrivere il 5 giugno 1917, a un mese e mezzo di distanza dalla morte del marito. Il senso di perdita e il vuoto lasciato l’accompagneranno per sempre, ma certo quelli sono ancora giorni di soffocante dolore, di vera e propria disperazione.
Si aggrappa alla cura dei figli alla gestione del delicato equilibrio domestico come a un sacrificio, come a una vera e propria forma di devozione. La sera, quando finalmente si ritrova da sola, libera di abbandonarsi ai suoi pensieri, ecco che la pagina bianca e la scrittura le regalano gli unici momenti di sollievo. La morte, la speranza di un ricongiungimento con Luigi, sono i soli pensieri capaci di alleviare l’intollerabile sofferenza. È in questi termini che entra in gioco la religione. Un rapporto non privo di una certa ambiguità: la certezza di una vita nell’aldilà usata per alimentare l’egoistica speranza di un imminente ricongiungimento. Dimensione strumentale della quale Andreina è consapevole, e che le procura profondi turbamenti.
Del resto è evidente che proprio nel complicato rapporto con la religione emerga un tratto essenziale del suo carattere, una fragilità cui non è estranea l’ingombrante presenza di una madre come la Kuliscioff. Anna la vede occupata, integralmente assorbita dai suoi doveri domestici e crede di poter interpretare questi come i segni di un suo “ritorno alla vita”. Andreina risponde: “Cara cara mia buona mamma, se credere questo ti tranquillizza sul mio conto, credilo pure, ma non è così, e non sarebbe certo questa la mia salvezza e il mio conforto. No! Più anzi riesco a distaccarmi da questa terra e più posso essere serena; quando piango, quando soffro di più? Quando mi abbandona l’idea della gioia che mi aspetta nel nuovo incontro col mio Luigi, e penso solo che di gioie terrene non ne avrò mai più! Non augurarmi dunque, mia buona mammetta, che di nuovo mi attacchi alla vita. Sarebbe la mia rovina e sono tanto convinta che non è in questa terra che dobbiamo trovare la gioia, che a nessuno dei miei figlioli auguro gioie terrene, a nessuno. Sono troppo amare tutte le gioie di quaggiù!”[Diario di Andreina, 28 luglio 1917]

Emergono qui con chiarezza la cifra e il senso che Andreina attribuisce al suo abbandono del mondo, alla sua devozione religiosa. Ma quello che risulta ancor più interessante è misurare qual è l’origine profonda di questa disposizione alla rinuncia. Sempre in quel passaggio del diario, Andreina ammette: “Mi spiace di dire questo per la mia mamma, ma è inutile, per persone mediocri come me non ci può essere nulla che sostiene moralmente se non la Religione. Grazie, grazie mio Dio, che mi hai fatto incontrare quell’Angelo che mi ha staccata dal mondo…”– dove l’angelo, ovviamente, è il suo Luigi  [Diario di Andreina, 28 luglio 1917]. Certo, è facile per noi pensare che questo senso di inferiorità sia attribuibile più a un’eccezionalità della madre che a una mediocrità della figlia, fatto sta che questo aspetto deve certamente aver giocato un ruolo. Ne abbiamo indirettamente conferma nella parole della stessa Kuliscioff. Nel difficile momento in cui deve comunicare a Costa il fidanzamento di Andreina con un Gavazzi, e del loro futuro matrimonio religioso, Anna usa queste parole: “Sì, hai ragione, è una gran malinconia di dover convincersi che noi non siamo i nostri figli, e che essi vogliono far la loro vita, astrazione fatta dei genitori, come l’abbiamo fatta noi ai nostri tempi. La malinconia non proviene da quel piccolo incidente di matrimonio religioso, ma dal fatto che la nostra figlia non ha né l’animo ribelle, né il temperamento di combattività. È una povera bimba buona, gentile, abbastanza intelligente, affettuosa, creata per la famiglia e per avere figli propri”. E poi ricorda il periodo nel quale, in carcere, riceveva quotidiane visite dalla figlia: “Essa non fu mai socialista, né miscredente: nel ’98 fece voto alla Madonna perché non fossi condannata, la Madonna non l’ascoltò, allora pregava un Dio astratto. Per essa, dunque, non c’era né tradimento alla propria coscienza, né dovere di coerenza che combatte sulla breccia per un ideale lontano in contrasto con la società”[Lettere d’amore a Costa, p. 343]. Parole affettuose, di estrema comprensione, scritte per di più con l’obiettivo di colpire nel segno: ammansire e convincere un padre furioso. Parole però che ci dicono anche che il senso di inferiorità, probabilmente, non era solo il frutto di una malsana proiezione.
Fino agli anni dell’incontro con Luigi la vita di Andreina è quella di “una ragazza affettuosa e sensibile, attaccatissima alla madre e a Turati, [che] sembrava non aver risentito dei traumi dell’infanzia, dell’allontanamento del padre, degli anni passati in collegio”[Addis Saba, p. 194]. La sua adolescenza trascorre quindi abbastanza serenamente, e lo stesso Luigi, nel suo diario, la ricorderà in quegli anni“avvezza a imperare, a comandare, a vedersi in ogni modo vezzeggiata dalla mamma sua desiderosa sempre di evitarle ogni amarezza, ogni disinganno”[Diario di Luigi, 23 febbraio, 1917].
Eppure, per quanto avvolta nell’affetto materno, dalla benevola e rassicurante presenza di Turati, e da un ambiente estremamente ospitale (tutta la “famiglia socialista” della madre sarà con lei sempre estremamente calorosa), Andreina evidentemente non si sente a casa. L’impossibilità di condividere la passione ideale, il mistico trasporto intellettuale di Anna, la lasciano sostanzialmente sola e, in alcuni casi, esposta alla difficile gestione della sua differenza. È quello che succede quando un episodio le farà comprendere per la prima volta cosa significhi essere la figlia di Anna Kulisciff e Andrea Costa.

Dopo il liceo Andreina si iscrive all’Università di Bologna: vuole fare il medico. Le cose sembrano andare per il verso giusto. Anna si spende per trovarle una sistemazione e, grazie alla mediazione di Prampolini, la Ninetta trova una stanza. Qualche giorno dopo, tuttavia, la padrona di casa si accorge che la ragazza è “socialista e senza religione”, e per di più nata da un rapporto irregolare. È un doppio choc: per Andreina, che sino a quel momento ha vissuto al riparo in un ambiente di amici che non le hanno mai fatto prendere in considerazione la sua situazione “irregolare”; ma è uno choc anche per Anna, nella quale affiorano assillanti rimorsi. Così reagisce alla notizia in una lettera a Turati: “La proprietaria di casa dove sta la Ninetta chiamò la padrona che le dà la camera, mettendole questo ultimatum: o via lei, o mandar via quella ragazza senza religione e socialista. La Ninetta, che si trovava così bene dov’è, piange, si dispera, sapendo ch’io non posso venir a Bologna col freddo che fa, e non so come andrà a finire questa imprevista seccatura”[Amore e socialismo. Un carteggio inedito, La Nuova Italia, 2001, p. 106].
Anna “è vissuta liberamente pagando il prezzo altissimo per conservare anche nel privato la sua coerenza socialista, non ha messo in conto però il prezzo che sua figlia, ignara, deve ora pagare al filisteismo della società”[Addis Saba, p. 196]. Nella stessa lettera scrive a Turati chiedendo di intervenire e di esercitare qualche pressione mettendo in gioco l’autorevolezza e il peso della sua carica parlamentare: la cosa, in effetti, finirà per sistemarsi.
Per Andreina la scelta di Bologna aveva anche significato dimenticare Luigi: “ella aveva già capito, forse, quanto fosse difficile nella sua condizione di irregolare aspirare ad avere una sua vita di donna, sposarsi, avere dei figli soprattutto col ragazzo cui si sentiva legata”, ossia quel Gavazzi rampollo di una delle più importante famiglie della borghesia milanese. “Dopo l’episodio di Bologna la situazione si fa grave, Ninetta non regge all’urto e manifesta i sintomi di un disagio psichico sempre più acuto”[Addis Saba, p. 196]. Anna interviene, cerca di distrarla. Nella primavera del 1901 passano insieme qualche giorno a Firenze e, dopo l’estate, un altro tentativo: Andreina si iscrive a Roma, sempre alla Facoltà di medicina. Vive in casa Bissolati, con Leonida e Carolina che la trattano come una figlia. In quei giorni Anna spera che Costa, deputato in Parlamento, possa trovare qualche momento da dedicare alla figlia. Ma il padre non sarà un grande sostegno:“Ninetta non riesce ad ambientarsi a Roma nella pur accogliente casa dei Bissolati; eppure tutto l’entourage socialista, considerandola una sorta di mascotte, ha usato alla figlia di Anna, di Costa, di Turati, ogni sorta di gentilezza […]. Ma la ragazza, lontana da Milano, si rendeva conto che il suo sentimento la portava verso un suo compagno di liceo, un ragazzo che sembrava assolutamente proibito per lei sognare come marito”[Addis Saba, p. 197].
Alla fine non regge e torna a Milano. Anna si rende conto della sua sofferenza, non volendo confidarsi con Turati nel timore di esagerare sempre troppo con le sue preoccupazioni materne, scrive a Bonomi: “Andreina ha tanto dolorato e fu in preda a malinconie ultramorbose”. Constatare tanto dolore alimenta il suo rimorso: [Lettera di Anna Kuliscioff a Bonomi del 4 ottobre 1903, cit. Addis Saba, p. 197].

Nell’estate del 1903 Anna aggiorna Costa: “Ora pare che stia un po’ meglio, ma in complesso quella povera bambina, nonostante l’aspetto florido, ha i nervi deboli, esauriti, malati. Forse le capitasse la fortuna di voler bene a qualche giovine, se potesse avere una sua famiglia, chi sa se non si sentirebbe più contenta nella vita? Il guaio però è ch’è troppo attaccata a sua madre, non si trova bene che a casa sua. […] Povera bambina! Così affettuosa e buona, che proprio meriterebbe d’essere un po’ contenta nella vita, come sarei felice, se la vedessi a posto, non tormentata dal pensiero, ch’è una povera spostata. Povera Ninina!”[LAC, p. 340].
Probabilmente Luigi aveva già ricominciato a frequentare Andreina e, chissà, magari Anna sta cominciando a preparare il terreno. In ogni caso la notizia del fidanzamento arriva per lei come una straordinaria liberazione. Pensa alla felicità della figlia e l’origine sociale del fidanzato le interessa molto poco. A Costa, con il quale ha in quei giorni dei violenti scambi epistolari, lo descrive così: “Il giovine è buono, simpatico, operoso, lavoratore, ha 24 anni ed è innamorato, come vidi pochi giovani che siano capaci d’esserlo”. Ancor più dettagliata la descrizione che ne dà a Turati in una lettera del 17 marzo 1904: “Mio Filippo, vorrei raccontarti di tutte le mie agitazioni, e delle notti insonni di quasi tre settimane, ma te le dirò a voce. Oramai mi pare posso dormire tranquilla, perché le cose per l’avvenire della Ninetta pare s’avviano bene, sebbene fino a oggi ne avevo dei dubbi. Il giovine è il Gavazzi, che tu vedevi durante due anni in casa, quando studiava colla Ninetta nella II e III liceo; egli s’innamorò allora e rimase fedele. Ora ha 24 anni, è dottore in chimica, ed ha una sua azienda con un brevetto di invenzione propria. Lavora con slancio e tenacia, malgrado i milioni del padre”. I dubbi e le preoccupazioni riguardo la reazione dei Gavazzi, elemento che aveva scatenato i dubbi di Anna, vengono meno: ora la questione fu la sua famiglia, ma egli era deciso, che, se non davano il consenso, si sposava lo stesso. Ieri fu una lunga conversazione con genitori che gli dissero: che la tusa, s’è prescelta da lui, dev’essere una brava ragazza, che loro la tratteranno come gli altri figli che escono fuori di casa, che ammogliato la famiglia sua sarà parte della famiglia loro. […] Stamattina la madre andò col ragazzo a scegliere l’anello di fidanzamento, ed oggi è avvenuto il primo sposalizio simbolico col primo anello della catena coniugale. E’ un ragazzo buono, allegro, simpatico, ma soprattutto quel che mi rallegra è che è innamorato e lavora”[Carteggio TK, Tomo II, p. 162].

Tutto questo ci offre qualche elemento in più per comprendere come il possibile scontro di civiltà tra la miscredente socialista e il cattolico conservatore abbia invece creato le premesse per un menage famigliare assolutamente cordiale, un interno borghese con nonna Anna piacevolmente accolta nella casa di Desio, o nella residenza in riviera; ospite sempre gradita e perfettamente integrata. Il matrimonio di Andreina significava per lei la fine di un incubo, l’epilogo di un lungo travaglio alimentato dal senso di colpa: “Dacché la Ninetta non è più un’infelice spostata, ma ha trovato l’affetto d’un giovine buono, affettuoso, lavoratore, attorniata da una famiglia particolarmente modello, che le vuole bene, come ad una figlia propria, t’assicuro che l’anima mia si è rasserenata. Non desidero e non aspetto più nulla nella mia vita, morirò serena nella speranza che la vita della nostra figlia trascorrerà piana e lieta, come lo fu in questi tre anni di matrimonio. Piansi molto nella mia vita ed ora, a 50 anni, mi pare arrivata in porto a riparo da tempeste, che spero non si ripercuoteranno più nel mio cantuccio, e la mia nave, molto avariata, non avrà che da calare lentamente in fondo, dove non si sente più nulla”[LAC, p. 346]. Qualche anno dopo (1915), in una lettera a Turati descrive il suo soggiorno a Desio – Luigi è già ammalato, ma in quei giorni sembra stare meglio: “Il tempo qui è splendido, Luigi va migliorando di giorno in giorno, e bisogna vedere come si è rifatto durante queste tre settimane, dacché cominciò il miglioramento; i bimbi festeggiano il “nonnino” con grandi effusioni e vorrebbero ci stesse almeno un mese; la Ninetta è lietissima di sentirsi per pochi giorni bambina anche’essa: e per coronamento di tutto anch’io, in questa temperatura di 20°, sto molto meglio. Sono ospitata nella grande stanza da letto, dove pranzammo pel Natale, ho il bagno caldo alla mattina, e tutto sommato si sta molto bene. […] I fioeu ti salutano tanto, i bimbi ti ricordano sempre, e Guido fa il progetto di andare con te in montagna”[Carteggio TK, Tomo III, p. 6].

Quanto ad Andreina, l’amore per Luigi riempie un vuoto. La calda accoglienza in casa Gavazzi offre un rifugio sicuro, i figli il progetto di un futuro sereno, finalmente abitato di quotidiana, tranquillizzante, normalità. La religione, in questo preciso momento, è ancora solo il filo rosso che lega la trama di questa esistenza ritrovata intrecciandone il racconto: all’inizio, la fede accompagna e sostiene una vita nella quale l’amore per Luigi è ancora la dimensione esclusiva.
Poi la malattia rompe l’equilibrio, così come rompe la perfezione del quadro famigliare. È a questo punto che irrompe una nuova, potente, ispirazione religiosa. Luigi, alle prese con la gestione della sua improvvisa infermità, con la drammatica rinuncia alla sua vita attiva e costretto a confrontarsi con lo spettro della morte, ne ricostruisce l’evoluzione in una pagina del suo diario: “Particolarmente interessante e consolante in quel periodo di tempo è il risvegliarsi e intensificarsi in modo eccezionale del sentimento religioso nella mia Andreina. Essa è sempre stata, io credo, un’anima profondamente mistica, nonostante sia cresciuta in un ambiente areligioso per quanto non anticlericale. Fanciulletta ancora e giovinetta, studentessa di liceo e di università, essa sentivasi spesso trascinata alla chiesa da una forza ignota, ed ivi se non pregava ignorando le sublimi formule delle preghiere cristiane, trovava cionondimeno la via che innalzava l’animo suo verso il Creatore, in un inno silenzioso di amore, di speranza e di fede. Non invano scorre in tutti noi il sangue dei Santi e dei Martiri che ci generarono. Non si cancella d’un tratto l’impronta che nell’animo nostro hanno impresso le innumerevoli generazioni di credenti che ci hanno preceduto e dalle quali direttamente procediamo. Quando Andreina, all’epoca del nostro matrimonio (1904) ricevette il battesimo dalle mani di S. E. il Card. Arciv. Di Milano, essa non si accinse ad una formalità necessaria e inevitabile, ma sentì subito l’importanza e la serietà dell’atto, e se non ebbe forse, fin dai primissimi tempi, il dono di una fede completa e illimitata, pure fin dall’inizio della sua vita cristiana, intuì la bellezza della nostra Religione ed il soave conforto ch’essa sola può darci nelle avversità della vita. […] A poco a poco, la grazia Divina inondò il cuore e la mente di lei, la fede si fece in lei sempre più gagliarda e sicura, si avvicinò con sempre maggiore frequenza ai Sacramenti, ritraendone sempre maggiore fervore e serenità d’animo. I dispiaceri, come spesso avviene, accentuarono la sua inclinazione per una vita intensamente religiosa”. Luigi ricorda come già alcune prove – la morte del padre e dell’amato suocero, entrambi nel 1910 - avessero contribuito a fare di Andreina quella femmina forte del Vangelo che intende la vita come “una sublime battaglia contro le nostre prave tendenze, contro le insidie del mondo, contro le innumerevoli avversità, che seminano di spine la via che conduce alla perfezione della beatitudine! Che la Religione e solo la Religione abbia contribuito a questo salutare perfezionamento nell’animo della mia Andreina, niuno può metterlo in dubbio. Io certamente non ero in grado di infondere nessun sentimento buono, nell’animo di chi era dalla necessità costretto ad avvicinarmi e a subire le deplorevoli odiosità del mio carattere reso irascibile e ingrato dalle mie tristi condizioni di salute. La mamma sua buona ed affettuosa sempre, ebbe in quel periodo rare occasioni di trovarsi con lei e non avrebbe ad ogni modo potuto esercitare una azione profonda su di un animo decisamente orientato verso idealità troppo diverse dalle sue. Il mio parentorio, benevolo sempre anch’esso e pur fortemente simpatizzante per lei, non avrebbe tuttavia né osato, né potuto imprimere alcun indirizzo al suo cuore, alla sua anima. Fu dunque la preghiera, la fede, furono le pratiche religiose che assistettero e sostennero la mia Andreina” [Diario di Luigi, 23 febbraio 1917].

Eppure la dimensione “mistica”, la devozione sacrificale e l’integrale adesione alle fede, ma anche alla pratica cristiana, Andreina le raggiunse solo negli ultimi anni della malattia di Luigi, quando cioè, con tutta la famiglia, si trasferirono a Villa Bracco a San Remo:“Come ho detto in principio, fu qui a San Remo, nei primi giorni del nostro arrivo, che il [suo] sentimento religioso si accentuò quasi improvvisamente a edificazione mia, dei parenti, di quanti furono testimoni di questa magnifica rinascita di fervore e di fede. Fede tranquilla ma forte, sicura benignamente contagiosa. Io stesso ne fui influenzato benevolmente e se non potei per le mie condizioni di salute aspirare a giungere come essa arrivò in breve, alla Comunione quotidiana, alla denotazione quotidiana e alla preghiera intensa e sempre viva in ogni istante di tranquillità e di affanno, in ogni lieta e triste circostanza, pure è innegabile che anch’io, a partire da quell’epoca fui, per imitazione e per contagio, più fiducioso in Dio, più sereno, più rassegnato ai decreti della Provvidenza e sempre più confortato dalla frequenza ai Sacramenti”. Un “contagio” che non si limitò al marito ma che coinvolse tutto il nucleo famigliare, trasformandolo in una sorta di “santuario”: “Al Signore Iddio nostro siano rese grazie da tutti noi per il bene che egli ci ha procurato, lasciando cadere abbondanti i frutti della sua grazia sull’anima prediletta della mia Andreina, frutti di grazia che da lei si diffusero a me, ai miei figlioli, a tutta la mia casa, la quale sempre per merito di lei e per la bontà infinita del Signore, assume qualche volta agli occhi dei profani, il carattere di un santuario dove la generazione novella viene senza fatica, anzi con senso di sollievo e di gioia, imbevuta di religiosità profonda, di fede sicura e quindi di rettitudine e di felicità nell’adempimento di ciascuno ai propri doveri” [diario Luigi, 23 febbraio 1917].
La fede è anche speranza di guarigione. La famiglia si stringe, i legami si rafforzano, con la preghiera che ne detta il tempo.
La morte, però, per quanto tenuta lontana, scongiurata, rimossa, inesorabilmente arriva. Dalle pagine del diario la restituzione di un dolore straziante che raggiunge momenti di estrema drammaticità. In un’apparente continuità con una fede integralmente intesa, Andreina rafforza la sua volontà di distacco dal mondo. Ma un distacco così totale, una ricerca di annullamento così assoluta, da entrare in contrasto con gli obblighi di questo mondo, con gli imperativi di una vita terrena pur cristianamente intesa.
Ecco allora che proprio la religione diventa elemento di lacerante contraddizione, fonte di tensione tra la volontà di ricongiungimento nell’aldilà e il dovere materno intrappolato nelle pieghe del quaggiù: “Che fonte inesauribile di miglioramento la religione cristiana! È una continua autoanalisi, rinuncia, mortificazione, distacco dalla terra! A saperla seguire in tutta la sua meravigliosa bellezza come si sarebbe buoni ed elevati!”[diario, 11 luglio 1917]. Una disciplina, una ricerca di elevazione nella sofferenza che è esattamente ciò che Andreina cerca e trova nella religione cristiana: “Sono anche oggi inquieta, ho bisogno di piangere, vorrei piangere, vorrei essere in una di quelle crisi di dolore acuto […]. È strano, è inspiegabile, ma sento il bisogno di soffrire! Se sono in un momento di tregua nel dolore, nei dispiaceri, nelle disillusioni, ne soffro”. Si mescolano qui, anche i sensi di colpa, dei quali forse non si è mai liberata, relativi alla sua vita precedente, quella vissuta nell’indifferenza di Dio: “Vorrei piangere, piangere la mia felicità perduta, gli anni persi, nei quali non sapevo confidare in Dio ed ero solo attaccata alla terra […]. Ah Signore, fammi soffrire!”[diario Andreina, 10 luglio 1917].
Il dolore, la sofferenza, la volontà di annullarsi non sono evidentemente estranei all’idea della morte: “Desidero la morte per unirmi a te, mio Luigi, confesso che penso solo a te! Finché tu non c’eri ad aspettarmi non l’ho mai desiderato, benché non mi abbia mai spaventato”. Ma è davvero coerente con l’autentica devozione cristiana un desiderio di questo tipo? La possibile contraddizione è colta dalla stessa Andreina: “Non è dunque per amor di Dio che desidero di morire! Potrà il Signore essere contento di questo attaccamento a Lui per mezzo tuo?”[diario, 11 luglio 1917]. Evidentemente no. Per questo il grande sforzo, il quotidiano compito sarà quello di tenere a bada queste terribili debolezze: “Oh Signore, che pena dover desiderare quello che non si desidera! […] Fatemi pure sempre soffrire, ma, per carità, sia sempre lontana da me ogni tentazione, ogni cattivo pensiero!”[diario Andreina, 8 luglio 1917].

Evidentemente tutto ruota intorno al terrore di veder messo in discussione il dovere materno, l’incapacità di coglierne con esattezza la priorità: “Tutti dicono che è peggio in questi casi non avere figlioli, e perché? Se io fossi sola andrei in un convento, come sarei allora unicamente con Dio e col mio Luigi, che fusione completa! Così invece…"  [diario di Andreina, 6 luglio 1917]. Se il dolore prende il sopravvento, se la forza viene meno, ecco i cattivi pensieri, le tentazioni che si cerca di scongiurare: “Lo penso e lo dico: cosa ci sarebbe da augurare di meglio ai nostri figlioli, se non di morire? Un cristiano non può desiderare nulla di meglio. Cosa sono le gioie terrene? Una meteora luminosa dalla quale più duramente si ripiomba nel dolore dilaniante. Dunque? La morte nell’età dell’innocenza, col paradiso assicurato, che cosa ci può essere di più bello? Sì, io ho il coraggio di augurarlo ai miei figlioli! Come sarebbe felice il mio Luigi e che cara piccola famiglia si comincerebbe a ricostruire in Cielo senza più tema di separazione. Ma io li potrò raggiungere? Questo dubbio è terribile! Oltre le mie colpe presenti, le passate mi saranno cancellate? O Signore, aiutami a fare penitenza, mandami dolori, pene, fammi soffrire qui, ma prendimi con te al momento della mia morte! Sacro Cuore confido in te!” [Diario di Andreina, 11 luglio 1917].

L’orizzonte dentro il quale Andreina elabora il suo lutto è dunque questa religiosità intensa venata di un misticismo esasperato, eccessivo. Qualche mese dopo riacquisterà l’equilibrio necessario e si renderà conto del contenuto troppo intimo delle sue parole, delle controindicazioni derivanti dal voler comunicare ai figli un dolore troppo grande: “Ho fatto bene a sospendere in settembre le mie note troppo dolorose, e che non potranno essere utili ai miei figli, quando le leggeranno dopo la mia morte”[diario di Andreina, 12 febbraio 1918].
Certo, derivare la realtà del clima famigliare nei mesi successivi la morte di Luigi dalla pagine del diario di Andreina sarebbe un errore. Quando le sue parole non si abbandonano alla disperazione, quando la scrittura non è solo medicina, balsamo notturno, allora emergono descrizioni di un clima famigliare che resiste alla profonda ferita. Le giornate scorrono, frequenti sono le visite dei parenti Gavazzi, le incursioni di Anna e Filippo.
Resteranno a San Remo fino al 1922, anno nel quale torneranno prima a Desio, poi nella casa milanese di via Brera. Non è difficile arrivare alla conclusione che, in ogni caso, quegli anni, e in particolare i primissimi mesi dalla morte di Luigi, furono di estrema importanza per la formazione del carattere dei piccoli Gavazzi. In particolare di Guido e Annamaria i quali, nel 1917 avevano rispettivamente dodici e dieci a anni. Sempre dal diario di Andreina ricaviamo qualche indicazione.
Sin dal primo giorno le pagine del diario di Andreina sono dedicate ai figli: “La mia Annamaria è stata presa stasera da una strana paura di morire. Povera stella! Si crede cattiva e perciò non fatta per il cielo. Dice che ha tanti cattivi pensieri. Povera mia bambina! Non è mai stata tanto buona come lo è ora! Dopo la morte del sua caro papà è uno studio continuo di migliorarsi, una autoanalisi continua come la potrebbe fare una donna, e certo meglio di una donna, di dominare il suo carattere piuttosto vivo e impetuoso! Tutto questo sforzo lo fa per il desiderio di darmi consolazione e si essere buona per farmi piacere. Come piangeva! Ho cercato di mettere la cosa un po’ in ridere, le ho detto che lei è proprio fortunata perché ha la sua povera mamma che la desidera di qui, e il suo paparino che l’attende in cielo. Perciò, se resta come se va, può essere contenta!”. Il fratello reagisce diversamente: “Guido è in un momento poco felice, lo riconosce anche lui, ma non sa vincere il suo carattere revêche e poco affettuoso. Anche lui ne è addolorato. Lo affido al Sacro Cuore e a te, mio Luigi”[5 giugno 1917]. Qualche giorno dopo ricevono la visita della zia Ernestina Belgiojoso , sorella maggiore di Luigi. 


Ernestina Gavazzi Belgioioso

Con lei i nipoti, figli dei suoi altri due fratelli, Giuseppe e Gino: “Il mio Guido è stato oggi più buono e Annamaria si è addormentata senza malinconie. L’arrivo dei cuginetti ha fatto, in modo diverso, bene a tutti e due” [diario Andreina, 8 luglio 1917]

Giuseppe Gavazzi
Guido è irruente, irascibile; Annamaria inquieta, ansiosa. Entrambi profondamente legati al resto della famiglia, sviluppano in modo diverso il senso di responsabilità nei confronti della madre e dei fratelli più piccoli. A scuola sono molto bravi, e già il padre se ne felicitava. Nel suo diario ricorda quando, nell’ottobre del 1915, la malattia gli consentiva ancora di seguire i loro pregressi nello studio: “Mi occupo ancora con amore degli studi di Guido e Annamaria e mi compiaccio dei loro rapidi progressi. Guido frequenta il ginnasio pubblico ed è segnato fra i migliori alunni. Annamaria va alla scuola delle suore […], ed ha una brava maestra […] che in poco tempo sa infondere nella mente della bambina una quantità di utili cognizioni e contribuisce a sviluppare rapidamente in lei quell’amore allo studio, alla scuola, al lavoro, che si accentueranno sempre più in futuro!” [Diario di Luigi, 23 febbraio 1917]. Una vivacità intellettuale che sorprendeva entrambi i genitori quando capitava loro di constatarlo: “E che gioia e meraviglia era per Luigi l’entusiasmo col quale [Annamaria] si accingeva a ogni studio! Ogni volta che lo constatavamo ci guardavamo e dicevamo sorridendo che noi non eravamo proprio stati così! Tanto Guido che Annamaria assomigliano per questa passione per lo studio alla loro Nonna!”[Diario di Andreina, 9 luglio 1917].
Detto questo resta, insormontabile, il confronto con una madre che ha deciso di abbandonare questo mondo, che li educa al costante pensiero dell’aldilà come unico orizzonte di senso, che inculca loro il senso del sacrificio e della rinuncia. Il 16 luglio 1917 Andreina porta i figli in visita alla Madonna del Carmelo: “Sono contenta di aver messo tutti sotto la sua speciale protezione i bambini, soprattutto il mio Guido. Caro Guido! Dopo la visita a don Albino è tutto cambiato, è tornato calmo, dolce, buono. È straordinario l’ascendente buonissimo che questo umile sacerdote ha sul mio Guido! Ah, se questo mio figliolo lo sapesse imitare nel suo completo distacco dalla terra e nella sua dedizione completa al servizio di Dio! Quanta vera felicità si può ritrovare da una vita orientata così! Se il mio Guido avesse la vocazione per diventare un buon Sacerdote, come ne sarei contenta! Io non gli auguro di meglio su questa terra!”[Diario di Andreina, 19 luglio 1917]. Frasi che non lasciano indifferenti, specie se si conosce il seguito. L’aspetto interessante, però, sta nell’emergere di una cifra educativa costante: l’esaltazione per tutto ciò che ci sottrae a questo mondo e la costruzione di una vita proiettata nell’aldilà – “quanta felicità in una vita orientata così!”.
 

 
Andreina, in centro, con i figli


Il diario lentamente verrà abbandonato. Il suo valore terapeutico sempre meno cogente. Significativa però l’ultima pagina, scritta nel febbraio del 1921. Guido ha già cambiato il nome, prendendo quello del padre: “In questi giorni di carnevale tutti i suoi compagni si sono mascherati e sono andati in giro a fare i buffoni. Anche a te, Luigi, era venuto questo desiderio. Benché la cosa mi piacesse poco, pure non la ostacolai pensando, come sempre penso, che se il Signore non l’approvava avrebbe trovato lui il mezzo di impedirla. Stasera, avevi già fatto le prove, tutto era già pronto […] quando tutt’ad un tratto hai detto: “non vado più”. “E perché?”, ti ho chiesto io. “Per formarmi il carattere”, mi hai risposto”[diario di Andreina, 8 febbraio 1921].


I NIPOTI MONACI

Come detto la famiglia Gavazzi, dopo la morte di Luigi, restò a San Remo. Solo nel 1922 tornarono a Desio, dove restarono solo un anno, prima di trasferirsi nella casa di via Brera, al numero 18. A Milano fu più difficile vivere nel “guscio”, tanto più che nella casa della nonna Giuseppina si tenevano di frequente feste e ricevimenti.
Il secondo Luigi, come lo chiamava sua mamma (Luigi II come lo chiamavano invece in famiglia) si iscrisse al Politecnico di Milano, dove si laureò in ingegneria elettrotecnica nel 1927. 


Guido (Luigi II) Gavazzi, in piedi, con i cugini
Decise di entrare nell’impresa di famiglia e si trasferì in Trentino, tra le Valli Passiria e Ridana, vicino al Brennero , dove la famiglia Gavazzi possedeva una miniera. Vi rimase fino a quando, nel novembre del 1931, vestì l’abito monastico assumendo il nome del nonno paterno, Egidio, ed entrando nel convento di S. Giovanni, a Parma.


La miniera Gavazzi

Ecco il racconto della sua vocazione: “Un’analisi delle circostanze che possono aver assecondato la volontà del Signore non l’ho forse mai fatta. Se ci ripenso, ricordo che la miniera era in fase di stanca, ma questa non era una ragione: avrei sempre potuto lavorare nella filanda di Desio, oppure al lanificio Rossi , in cui avevamo una forte compartecipazione. 

Il lanificio Rossi di Schio
 
È un fatto che in quegli anni condussi una vita appartata, fuori dal mondo. E poi il lavoro era pericoloso. Quando ero salito in miniera, ero orientato verso il matrimonio: c’era una ragazza, ma per fortuna non ero compromesso. Poi un giorno ci fu un infortunio gravissimo. Un guardafili della teleferica cadde da grande altezza e si ruppe la spina dorsale. Sentii una voce del cielo che mi disse: Questa strada non è la tua, a quest’anima ci penso io, ma tu mi aiuterai a salvarne altre” [Non solo seta. Storia della famiglia Gavazzi, p. 401].
Più tardi ricorderà: “non ho scelto niente, è il Signore che mi ha preso per il colletto”. Di certo una certa importanza rivestì l’abate Caronti, padre spirituale di sua sorella Annamaria.
Nel 1931 entrò quindi nel monastero benedettino di Parma, dove il 13 novembre fu ordinato sacerdote. Lasciò tutti suoi averi all’Abbazia. Come sappiamo, con questa scelta assecondava un antico desiderio materno, e infatti mamma Andreina scriverà: “Non voglio passare la giornata senza dirti… tutta la tenerezza che ho in cuore per te. Sei sempre stato per la tua bontà e per il tuo attaccamento la mia consolazione e il mio conforto… E anche ora sei tu che mi dai la consolazione più grande che si possa dare a una mamma. Non pensare alle mie lacrime; sta sicuro che sono felice, felice di darti al Signore… Certo mio Luigi, sento già la tua preghiera che mi aiuta; continuala, te ne prego, perché non so ancora essere alla tua altezza. Vi aspirò però con tutta l’anima per essere sempre più vicina a nostro Signore e a te, mio caro figliolo. Ti abbraccio con tutta la mia tenerezza. Mamma”[Non solo seta, p. 402].



Andreina con il figlio, futuro Padre Egidio
Nel 1947 venne trasferito da Parma a Subiaco in qualità di consultore dell’Ordine per l’Italia, nel 1951 venne eletto abate coadiutore con diritto di successione nello stesso monastero. Nel gennaio del 1952 venne eletto abate e, per finire, nel 1964 abate ordinario. In questa veste partecipò al Concilio Vaticano II.

Due immagini di padre Egidio Gavazzi. Nella seconda insieme a papa Paolo VI
Quando tornarono a Desio Annamaria era all’ultimo anno di liceo, che completò a Monza nel 1924. Si iscrisse alla facoltà di Ingegneria che, esattamente come nonna Kuliscioff, abbandonò per Medicina. Si laureò nel 1932.
Nella seconda metà degli anni Venti militò nella FUCI (Federazione Universitaria Cattolica italiana)  – quella che passò alla storia come la FUCI di Righetti e di Montini. Furono loro, del resto, a volerla presidente del circolo fucino di Milano tra il 1926 e il 1929.
 

Anna Maria Gavazzi


Nel 1929 incontra l’abate Caronti, che diviene il suo direttore spirituale. Fu lui a consigliarla di attendere qualche tempo prima di dare definitiva forma alla sua vocazione religiosa. Tutti coloro che la conoscevano seppero solo in seguito che nel settembre del 1938 era entrata nel Carmelo di Firenze.
Annamaria divenne definitivamente carmelitana scalza il 24 marzo del 1939 e assunse poi il nome suor Maria Angela dell’Eucarestia e del Volto Santo nel 1943. Il giugno successivo si trasferì ad Arezzo, nella ex Villa Redi  acquistata con il suo contributo e trasformata nel Carmelo di S. Teresa Margherita. 


 
Il Carmelo di S.Teresa Margherita di Arezzo


Qualche notizia in più ce la offre suo cugino, Franco Gavazzi: “Non potendo dotare il suo convento di Firenze del suo privato patrimonio, per il preciso divieto delle regole, ha acquistato – col pieno consenso del Padre Abate Caronti, protettore dell’Ordine - una villa ad Arezzo per fondarvi un altro convento; ora essa è là senza velo e senza clausura, sempre per speciale concessione del predetto Abate, e sorvegliare i lavori della fabbrica, eseguiti sotto la direzione… dell’Ing. don Egidio Gavazzi, frate benedettino!” 
Nel 1961, a 54 anni, fu sorpresa da un ictus. Si spense ad Arezzo, “in odore di santità”, il 16 febbraio 1975.


Suor Maria Angela


Cosa lega i nipoti monaci e i nonni socialisti? Un tenero, profondo affetto. Una stima e un trasporto che superano, senza nemmeno prenderle in considerazione, le profonde differenze. Suor Maria Angela: “La nonna era una donna intelligentissima, straordinaria. […] Ho in mente un ritratto a pastello che avevamo a Desio; ricordo che l’autore, una volta, venne e lo ritoccò con le mani . Il viso era dolce, ma serio; i capelli biondi risaltavano sullo sfondo roseo. Quando nacqui la nonna stava già con Turati. Un gran brav’uomo: noi lo chiamavamo Filippìn. Per la mamma fu un vero papà”[non solo seta, p. 409].
Stesse parole, o quasi, dal fratello: “La nonna è la persona più intelligente che abbia incontrato nella mia vita”. Ma il piccolo Guido era anche il nipote prediletto di Turati. A Milano, tra via Brera e piazza Duomo, sono due passi a piedi. Le visite a nonna Kuliscioff e a Filippìn sono quasi quotidiane, si intreccia un legame forte, intimo.
Il giovane Luigi è all’origine della fuga, o meglio, dell’espatrio, di Turati – don Egidio tiene a sottolineare: “non ho mai ammesso la parola fuggire”. Nelle sue frequenti visite in casa dei nonni, si era accorto che da una delle finestre si poteva agevolmente passare nel caseggiato vicino. Da lì Turati riuscì a sottrarsi alla sorveglianza della polizia che stazionava sotto il portone e cominciare il viaggio che lo avrebbe portato, passando da Savona, in terra francese. Per qualche giorno Luigi finse di fare visita al vecchio ammalato e la polizia non si accorse di nulla.
Quando decide di farsi monaco, il futuro don Egidio scrive a Turati: ha in mente il trauma prodotto a nonno Costa dalla notizia del matrimonio di sua mamma; la fine dei loro rapporti, l’ultimo, drammatico incontro sul letto di morte. Teme la stessa reazione in Turati, si preoccupa della sua mancata risposta. Allora sale a Parigi, per incontrarlo, per spiegarsi, per chiedere la sua benedizione. Lo incontra invecchiato e stanco: “quando mi vide gli risero gli occhi e mi venne incontro serrandomi in un braccio. Io ero molto commosso, perché avevo interpretato il suo silenzio come un segno di disapprovazione per il difficile passo che mi accingevo a fare. Invece egli mi disse con la sua voce buona e serena: “Se questa è la tua volontà è giusto che tu la segua. Ricordati però che la vita è lunga e spesso col passare degli anni gli uomini cambiano”. Appurata la mia convinzione, non ebbe niente da obiettare. Poi dovetti partire. Turati mi accompagnò alla stazione: fu l’ultima volta che lo vidi” [non solo seta, p. 403].
Stessa liberalità in nonna Anna, che ricordava alle domestiche di andare a messa e che dopo la sua prima comunione gli chiede se fosse contento: “Sì, gli risposi. Lei tacque, ma nel suo sguardo dolcissimo affiorò una pena segreta, forse il dolore per una fede che non riusciva a possedere” [non solo seta, p. 403].
Suor Maria Angela, riferita alla nonna: “Si era laureata in medicina come la mamma e me. Prima si era iscritta a Zurigo in ingegneria, poi si laureò in medicina a Napoli. No, non credeva. Purtroppo, ma fece molta carità: saliva nelle case dei poveri, a Milano”[non solo seta, p. 409]. La guida alla spiritualità di suor Maria Angela fu  la fede nel carattere sacrificale della professione religiosa, che la spinse costantemente verso l’attuazione del nulla per il tutto e la spinse a rinunciare a ogni forma di agiatezza, a ogni forma di proprietà. Cosa c’è, se c’è qualcosa, di Anna Kuliscioff in questo integralismo della rinuncia, in questa dimensione sacrificale dell’esistenza?

Esiste una bellissima lettera scritta a Guidino, il nipote ormai cresciuto. È il 22 agosto, il giorno prima del suo compleanno:
“Mio carissimo Luigi, domani compirai 15 anni; e ti lascio immaginare quanti fervidi auguri di tutti quelli che ti vogliono bene […] accompagnano la tua adolescenza, e quanti voti facciano tutti perché la tua vita sia generosa di molte grandi soddisfazioni morali. Ma l’augurio più profondo e più intimo dell’anima mia è che tu stesso abbia la forza e la volontà di contribuire alla formazione del tuo carattere, che si determina e incomincia ad individualizzarsi appunto negli anni dell’adolescenza, in cui entri col quindicesimo anno compiuto. Sono gli anni più difficili, caro mio Luigi, e mi ricordo quanta fatica, e spesse volte quanti dolori ci costano per superare certi istinti di natura inferiore, qualche volta di egoismo, spesso volte di angolosità antisocievoli, di supponenza – se abbiamo la fortuna di maggiore intelligenza – di vanità e di ambizioni meschine. Mi ricordo che versai non poche lacrime, accorgendomi di peccare di uno di questi istinti, che non solo ci renderebbero, se non combattuti da noi stessi, dannosi e spiacevoli in famiglia e nella convivenza sociale, ma soprattutto poi recano dolori infiniti a noi stessi, perché rimaniamo isolati, privi di affetti, di amicizie e di tutto ciò che rende bella e nobile la vita. La grande massima per raggiungere una certa elevatezza d’animo e una certa nobiltà di cuore è esercitarsi di continuo a dare a tutti quello che si può, e non attendere né compensi, né restituzioni. La più grande felicità non si può raggiungerla se non prodigandosi per i propri cari, per i deboli, per i bisognosi, per tutti quelli che sono privi di conforto nella vita. Il mio augurio dunque? Di formarti una coscienza superiore, con una fede fervida e sentita, diretta al miglioramento ed elevazione propri, per adoperarli sempre e in ogni momento della vita pel bene di tutti […]. Ti bacio con tenerezza, stringendoti al cuore, e ti auguro saperti autoispezionare e autoeducare. Questo il mio più fervido augurio”[Dall’utopia alla profezia, p. 35].
La lettera è indirizzata al nipote cattolico praticante e quindicenne. Ne fa un interlocutore degno di confidenza e all’altezza del messaggio trasmesso: la complicità è implicita nella condivisa superiorità intellettuale. Ne rispetta il pensiero e la fede – che osserva curiosa – e di quella gli parla: non è il filosofo che diletta coi massimi sistemi, è la nonna che declina per il nipote la sua visione del mondo, che la offre sapendola regalo prezioso.
Come abbiamo visto l’ultima pagina del diario di Andreina è dedicata al racconto dell’episodio di Carnevale. Luigi, pronto per scendere e festeggiare vestito in maschera, alla fine rinuncia. Alla domanda del perché, risponde: “Per formarmi il carattere”. Andreina, felicissima del gesto, commenta: “Sono tanto contenta che il Signore abbia inviato al mio secondo Luigi questa ispirazione, e soprattutto che lui l’abbia seguita”. È l’8 febbraio del 1921, qualche mese dopo la lettera della nonna al nipote. Andreina non lo sa, ma c’è molto moltissimo della nonna in quel gesto maturo.


Davide Frontini

Si ringraziano i signori Agostino Gavazzi, per aver messo a disposizione i diari di Andreina e Luigi, e Gerolamo Gavazzi, per aver consentito di utilizzare le immagini del suo libro NON SOLO SETA. Storia della famiglia Gavazzi.


GEROLAMO GAVAZZI (a cura di), Non solo seta. Storia della famiglia Gavazzi, Edizioni Caproncino, Milano, 2003
CARMELO D’AREZZO, Dall’utopia alla profezia, Edizioni paoline, Roma, 1982
TOMMASO GALLARATI SCOTTI, Interpretazioni e memorie, Mondadori, Milano, 1960
MINO MARTELLI, Andrea Costa e Anna Kuliscioff. Rivelazioni sulla coppia da nuovi documenti, Edizioni paoline, Roma, 1980.
ADDIS SABA, Anna Kuliscioff. Vita provata e passione politica, Mondadori, Milano, 1993
ANNA KULISCIOFF, Lettere d’amore a Andrea Costa. 1880/1909, Feltrinelli, Milano, 1976 [Saggio introduttivo a cura di Pietro Albonetti]
Carteggio Turati-Kuliscioff, a cura di F. Pedone, 6 voll., Einaudi, Torino, 1977
Manoscritti di Luigi Gavazzi e Andreina Costa

TANGENZIALINA A VERDERIO? PREFERIREMMO DI NO

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DAL PARCO DEL RIO VALLONE AL P.A.N.E. di Marco Bartesaghi

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C’ERA UNA VOLTA …
 

C’era una volta, nelle terre di Cavenago, un buco grande … grandegrande … un buco enorme.
 




Quando gli abitanti - del paese e di quelli intorno e della grande città - cominciarono a buttarci i loro rifiuti pensarono che un buco così non sarebbe mai stato pieno.
Invece -un sacchetto oggi e uno domani, un camion prima e un altro dopo – puf!! il buco non c’è più!! finito!!

Era finito il buco ma – guarda un po’ – non erano finiti i rifiuti.
 

“E adesso dove li portiamo?” – “Mah, per ora portiamoli ancora lì”.
 




E così - un sacchetto oggi e uno domani, un camion prima e un altro dopo - è cresciuta una montagna.
Beh, insomma … diciamo una collina, che però, in quel di Cavenago può quasi considerarsi una montagna.
E lo sarebbe diventata, se a un certo punto non avessero detto:  

“Basta, fermiamoci, prima che ci venga tutto addosso!”.
 

Così Cavenago ha avuto la sua collina.
 

“Una collina di spazzatura? Ma che schifo!”
 

Certo, se l’avessero lasciata così.
 

 
Illustrazioni di Chiara Villa


Ma andate a vederla adesso, che è stata ricoperta di terra, che l’erba è cresciuta e sono stati piantati alberi e arbusti e c’è anche un bosco e un laghetto: è una signora collina!
Pensate che da lei è nato il parco del Rio Vallone, che prende nome da un torrente che le passa vicino.
A dir la verità, anche lui non è proprio un torrente …


LA COLLINA DI CEM Ambiente
 

Più o meno così è nato il parco del Rio Vallone.
Verso la fine degli anni ottanta, epoca in cui la raccolta differenziata era solo agli inizi e tutti i rifiuti venivano gettati in discarica, quella di Cavenago, situata nei pressi dell’autostrada e gestita da CEM Ambiente, era ormai esaurita.
 

 
La discarica in funzione (foto dal web)


Il comune di Milano, in difficoltà, premeva, però, affinché continuasse a operare e, in particolare, ad accogliere la sua spazzatura.
Per acconsentire il sindaco di allora,  arch.  Antonio Varisco, oltre a un giusto compenso economico per il suo comune, pretese che la collina che ne sarebbe risultata fosse alla fine “naturalizzata” e intorno ad essa sorgesse una zona protetta, un parco.


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Fare una collina non è facile (per quelle vere ci sono voluti secoli e secoli). Non basta fare un cumulo di rifiuti, coprirlo di terra, seminare l’erba e piantare gli alberi.
La collina sarà “pronta” quando la discarica - il suo scheletro - che ha cessato di lavorare nel 1994, sarà del tutto bonificata; quando cioè i rifiuti che la compongono saranno completamente mineralizzati.






 



Fino a quel giorno bisognerà continuare a smaltire il biogas prodotto dalla fermentazione dei rifiuti e il percolato, ossia i liquidi che si depositano sul fondo.
Per il trattamento del biogas, che, nei primi tempi, attraverso vie sconosciute penetrava in diverse cantine, soprattutto di Ornago, creando non pochi disagi e qualche pericolo, in collaborazione con il Politecnico di Milano è stato realizzato un impianto che permette di ricavare metano, e poi produrre energia elettrica e calore.
 




Per il percolato è stato realizzato un apposito impianto di depurazione, il cui prodotto finale viene immesso, come previsto dalle norme, nella fognatura comunale.

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Ora la collina è a un buon punto (“ottimo”, mi dice Andrea Pirovano, che fra poco vi presento): in parte è ricoperta da bosco, ospita alcuni piccoli orti e, nella parte alta, un vivaio di piante. 







Nella zona che si ritiene ancora un po’ critica, è stato realizzato uno stagno dove sono stati immessi dei pesci”sentinella”, gli storioni, che sono molto sensibili e morirebbero se ci fossero infiltrazioni inquinanti: resistono da anni, è un buon segno.
 






Insieme al “boscone di Ornago” e alle “foppe di Cavenago”, la collina è diventata un importante luogo di sosta per l’avifauna.



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Dal 2014 la collina è, saltuariamente, accessibile al pubblico: nel mese di maggio CEM organizza “Le domeniche in collina”, aperte alla cittadinanza; altre attività sono rivolte alle scuole e altre ancora sono organizzate dal Parco Rio Vallone. 





IL PARCO DEL RIO VALLONE
 

A voler essere precisi, è un Parco Locale di Interesse Sovracomunale; volendo essere altrettanto precisi, ma più sintetici, è un PLIS; “terra a terra” è il Parco del Rio Vallone.
Nasce nel 1992 su iniziativa dei comuni di Cavenago, Masate, Basiano, Bellusco e Ornago, che hanno voluto mantener fede alla promessa di costituire un parco, fatta quando la collina di rifiuti aveva cominciato a crescere. Più tardi, nel 2005, hanno aderito Mezzago, Sulbiate, Aicurzio e Verderio Inferiore (ora Verderio), , poi sono entrati Gessate (2007), Busnago (2010), Cambiago (2012) e infine Roncello nel 2014.


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L’adesione di un comune al parco non è immediata. L’iter prevede, in primo luogo, una delibera favorevole del Consiglio Comunale, che comprenda l’indicazione delle aree che si vogliono inserire; di conseguenza, è necessaria la modifica dello strumento urbanistico locale, per adeguarlo alla volontà espressa dal Consiglio.

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Il percorso di Verderio Inferiore ha avuto inizio tra il 1990 e il 1995, con la prima amministrazione guidata da Alessandro Origo. Per incoraggiare la scelta, a una seduta del Consiglio Comunale parteciparono l’allora presidente del parco, l’arch. Antonio Varisco -  quel personaggio, se vi ricordate, che da sindaco di Cavenago ne aveva proposto la nascita - e il direttore, ancor oggi in carica, Massimo Merati.
Quando al Consiglio Comunale toccò esprimersi, lo fece con voto unanimemente favorevole.


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Il parco si sostiene, innanzitutto, grazie ai contributi che i comuni versano annualmente. La quota, per ciascuno di essi, è proporzionale all’ampiezza del territorio inserito e al numero degli abitanti.
 




Queste entrate rappresentano solo una parte del bilancio dell’Ente. Altre significative risorse vengono acquisite attraverso l’adesione a bandi regionali o grazie ai contributi di fondazioni private e altri enti.
I più importanti sono quelli della Fondazione CARIPLO e del Consorzio Brianza Acque.
Con Fondazione CARIPLO è stato realizzato il progetto V’Arco Villoresi (Nota 1), il progetto A.P.R.I.R.E. (Azioni Per il Rafforzamento Integrato delle Reti  Ecologiche), e i progetti Tre Parchi in Filiera e il P.A.N.E.  di cui parleremo più avanti.


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Nel 2014 il parco aveva raggiunto la sua massima ampiezza, 1600 ettari, sennonché, nel 2016, le nuove amministrazioni comunali di Cambiago e Gessate hanno deciso di interrompere la loro adesione.
Una scelta che brucia come una ferita, soprattutto per quanto riguarda Cambiago.
“Per Gessate in questi anni abbiamo fatto troppo poco” mi dice ancora Andrea Pirovano, quasi a giustificare questo comune “Loro sono anche nel territorio della Martesana, così hanno deciso di aderire a quel parco, anche se ancora in fase di costituzione, e abbandonare il nostro … peccato!”
A Cambiago è stata tutta un’altra storia, perché sul suo territorio, negli ultimi due anni il parco ha speso circa 200.000 euro : 

  • Con la fondazione CARIPLO e il progetto V’Arco Villoresi, ha realizzato una rampa d’ingresso e un percorso in legno di un centinaio di metri, alzato di 50 cm, su una zona umida naturale a ridosso del canale Villoresi. La pedana in legno arriva ad un esagono di panchine da dove è possibile l’osservazione delle farfalle. La zona è lasciata incolta proprio per favorire la proliferazione di questi insetti.
  • Sempre tramite CARIPLO, spendendo 70.000 euro, ha comprato un bosco, a ridosso della zona industriale – “un postaccio che non ti dico” (Andrea) -, l’ha pulito, liberato dai rovi, e realizzato due aree umide.
    Cose ritenute inutili dalla nuova amministrazione comunale (“tutte quelle erbacce, era mica meglio fare una pista di motocross?” pare sia stato detto) che ha comunicato al parco la sua decisione di recedere dall’adesione. Adesso la situazione è strana: a Cambiago, su un’area privata, è stato realizzato un progetto (percorso in legno e punto di osservazione delle farfalle) con il finanziamento CARIPLO e la convenzione con il comune, ora fuoriuscito. In più il parco è proprietario di un’area (il bosco) in un comune che non è più suo socio.
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IL RIO VALLONE
 

Tutti conoscono il fiume Adda; molti, a livello locale, hanno almeno sentito parlare del fiume Molgora; quasi nessuno sa cosa sia il Rio Vallone.
 

 
La Roggia Annoni nei pressi di Cascina Bice, Verderio


È il tronco finale di un canale artificiale, una “roggia”, realizzata nella seconda metà del XV secolo (la concessione per la sua costruzione è del 27 aprile 1476) che portava l’acqua del lago di Sartirana ad irrigare i prati del fondo Bergamina, a Verderio (allora Inferiore), e poi proseguiva fino a sfociare, a Bellinzago Lombardo, nel Naviglio della Martesana.


Cascina Bergamina a Verderio
Il primo tratto, in origine si chiamava Roggia Verderio. Prese il nome di Roggia Annoni nel 1727, quando questa nobile famiglia milanese ne divenne proprietaria.
Dopo la Cascina Bergamina, lasciato Verderio, il canale entra nella provincia di Monza Brianza, dove prende il nome di Rio Vallone e prosegue verso sud solcando, in zone quasi sempre periferiche, i territori dei comuni che hanno dato vita al parco.
 

 
L'imbocco della Roggia Annoni al lago di Sartirana


Non più alimentato dal lago di Sartirana, la sua fonte principale, né da quelli di Novate, interrato da decenni, e di San Rocco, che ora scarica in Adda, il canale è ormai allagato solo quando piove. Se le precipitazioni sono intense, raggiunge anche notevoli portate, fino, a volte, a fuoriuscire dal suo alveo in alcuni punti critici del percorso.

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Il tracciato della Roggia Annoni ha perso la sua continuità. Fonte di secolari dissidi fra i suoi proprietari e quelli dei terreni attraversati, a causa delle inondazioni che provocava, è stata interrata in più punti. Non a Verderio, però, dove la si può seguire per tutto il suo sviluppo, partendo, all’incirca, dalla Cascina Assunta di Paderno d’Adda (2).
Ancora integro invece è il percorso del Rio Vallone, da Verderio a Bellinzago Lombardo, dove sfocia nel Naviglio.


CHIACCHIERANDO CON ANDREA PIROVANO, PRESIDENTE C.d.A DEL PARCO DEL RIO VALLONE
 

È il momento di presentarvi, come avevo promesso, Andrea Pirovano, da tre anni presidente del Consiglio di Amministrazione del Parco del Rio Vallone.
 

Andrea è un verderiese, classe 1956, con cui, se parlate di un argomento che lo appassiona, come in questo caso, rischiate di tirar notte.
 

E infatti il suo racconto parte da lontano, dai suoi ricordi di bambino:
“La Roggia Annoni è stata utilizzata fino agli anni sessanta del novecento. Io me lo ricordo bene, perché ho abitato alla Cascina Bice fino al 1964. Finché alla Bergamina ci sono stati i cavalli da corsa della Scuderia Alpina, i terreni erano coltivati a “prato stabile”, per produrre l’erba necessaria al loro allevamento. La Roggia forniva l’acqua per l’irrigazione.
Il prato stabile, se l’ambiente è giusto, il clima buono e se è ben irrigato, ti permette di tagliare il fieno tre, quattro e anche cinque volte all’anno: a maggio fai il maggengo, poi il nostrano, poi il terzuolo …”



I prati della Bergamina
D –Perché questo tipo di coltura è stata abbandonata?
RNon ci sono più stati i cavalli, ormai nessuno ha le mucche e così la gran parte dei prati stabili sono stati arati. Ed è stato un grosso danno.
 

D – Perché?
R - Il prato stabile non ha bisogno di grandi concimazioni e, comunque, anche quelle necessarie sono fatte con concime naturale, il letame; non serve fare il diserbo e gli animali, tipo i grilli, sono contenti.
Se invece fai il mais devi arare, fresare, dare il concime e poi seminare. Il seme deve essere trattato, se no te lo mangiano. Poi devi dare il veleno, poi un po’ di azoto, per dargli subito una spintarella. Quando la pianta è alta “così” (?) solitamente è a posto. Ma se hai l’attacco di nottua è un casino, perché questo insetto entra dentro il gambo, fa il buco, le piantine fanno “ puf” e crollano. Allora devi intervenire con gli anticrittogamici, che uccidono la nottua, ma anche gli altri insetti.
Nel dopoguerra, anni 50 – 60, i contadini che erano in affitto, siccome facevano la fame, avevano preferito andare a lavorare in fabbrica.
La coltivazione estensiva del mais è iniziata allora. Sono stati sradicati i gelsi - a Verderio ne avevamo 8500, altrettanti ne aveva Sulbiate e, di sicuro, ad Aicurzio e Bernareggio ce ne saranno stati in proporzione – e i pochi contadini rimasti hanno cominciato a lavorare la terra con grandi trattori. La conseguente cancellazione dei fossi e il fatto che con il mais il terreno la trattiene meno, ha fatto nascere il problema della regolazione dell’acqua piovana.

 




D – E questo, se non sbaglio è uno dei grossi problemi che dovete affrontare …
R Sì. Ed è sempre più difficile, perché il terreno è diventato come di cemento e non assorbe più. Le zone più critiche sono quelle di Sulbiate, Aicurzio e Bernareggio. Con Brianza Acque, che ha una certa disponibilità finanziaria, abbiamo pensato di costruire, sopra il CTR3 di Bernareggio, una vasca di contenimento, che raccolga l’acqua quando si è in presenza di forti eventi piovosi, e poi la smaltisca pian piano.
Vorremmo però, e questa è la seconda faccia del progetto, che la vasca non rilasciasse tutta l’acqua, ma ne mantenesse una parte, permettendoci di realizzare un’oasi naturale.

 

D – Bello …
R Un compito del parco, il principale, direi è quello di favorire la naturalità dell’ambiente. Progetti come quello di cui abbiamo parlato, vanno in questa direzione. Brianza Acque ci sta dando un notevole aiuto.
 

D – “Favorire la naturalità dell’ambiente”. Interessante. Come vi muovete?
R Ci muoviamo soprattutto in due direzioni: la difesa delle zone boscate e la creazione di zone umide.
Le prime, nel parco ormai sono pochissime, mentre, se si guardano le mappe catastali della fine dell’ottocento, si rimane stupiti di quanto fossero ancora estese. Boschi esistenti da secoli, che subivano un continuo rinnovamento, perché la legna serviva per riscaldarsi.  
 
 

D – In cosa consiste la difesa dei boschi? 
R Cerchiamo di salvaguardare le piante autoctone rimaste e di reintrodurle laddove sono scomparse. Il bosco più significativo del parco è il “boscone di Ornago”. Per la sua salvaguardia abbiamo stipulato una convenzione trentennale con il proprietario e speso molte risorse per liberarlo dalle piante infestanti, che avevano preso il sopravvento soffocando molte varietà preesistenti.
 

 
Il "boscone" di Ornago (foto da web)


D – Qualche esempio delle usurpatrici?
RLa robinia è un tipico esempio, che però almeno ha qualche pregio: fornisce la legna, mantiene le sponde, …
Il ciliegio selvatico invece è disastroso e si riproduce facilmente perché gli uccelli mangiano le ciliegie e poi espellono i nocciolini. Allora lo devi tagliare e mettere l’acido per farlo morire. Se non lo fai soffoca tutte le altre specie. Invece è bello vedere il sentiero nel bosco con le querce, i carpini, insomma, con tutte le piante che c’erano una volta.

 

D – Per quanto riguarda le zone umide?
R - Il nostro territorio era ricco di zone umide, di stagni. C’erano le cosiddette “foppe” in corrispondenza dei luoghi di estrazione dell’argilla. Quelle di Masate esistono ancora e sono molto significative, così come quelle di Cavenago che si trovano vicino alla sede del parco .
Avevano grande importanza naturalistica perché lì arrivavano i girini, le rane, i rospi, le salamandre, le bisce, gli uccelli: tutto un ciclo che adesso si è in parte perso. Abbiamo fatto delle indagini e scoperto che il parco, soprattutto nella zona sud dove c’è il canale Villoresi, è ancora ricco di anfibi, compreso il tritone crestato, una specie protetta dalla comunità europea. Nostro obiettivo è portare gli anfibi anche nella parte nord del parco, dove però gran parte delle zone umide si sono perse.
 

 
Foppe di Cavenago (foto da web)


D – Quindi dovete farne di nuove. Come?
R - Si scava un bacino e gli si fa il fondo con un telo impermeabilizzante o con argilla espansa di un certo tipo. Poi bisogna recuperare le piante acquatiche e piantarle. Per questo ci rivolgiamo al Parco del Monte Barro, che in un suo laboratorio coltiva le essenze tipiche del nostro territorio.
 

D – Come si sceglie il luogo dove realizzarle?
R - Gli anfibi vivono nell’acqua in gennaio, febbraio, marzo e aprile, poi escono e vanno nel bosco. L’ideale sarebbe quindi realizzarle vicino ai boschi, come abbiamo fatto a Ornago. Ne abbiamo fatta un’altra bella a Mezzago, dietro ai campi di asparagi e diverse altre più piccole e meno visibili.
Sappiamo progettare e realizzare le foppe, e avremmo anche i finanziamenti, ma mancano le aree perché è difficile che i proprietari le mettano a disposizione, anche se le tengono pressoché inutilizzate.



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Altri problemi del parco dipendono, mi racconta Andrea, dalla stupidità umana.
Alle foppe di Masate, un anno il faunista aveva rilevato un’ottima ovatura (deposizione di uova), segno di buona vitalità. L’anno successivo niente. Il Cobite Asiatico, un grazioso pesciolino che qualcuno s’era stufato di tenere nell’acquario, aveva fatto strage nella foppa dove era stato rilasciato e poi, sfruttando la sua capacità di vivere anche nella melma, era emigrato nella seconda e, ancora, nella terza, provocando anche lì disastri.
 

Altro esempio? Il gambero della Louisiana, importato perché più grande rispetto ai nostri e buono da mangiare. Però se scappa, o viene lasciato andare, e trova uno stagno, lo colonizza e ne distrugge la fauna. Esaurito il primo si sposta, ne trova un altro, poi un altro ancora e così via. Camminando su terreno asciutto riesce a fare anche 10 km al giorno.
La soluzione escogitata è quella di fare stagni più piccoli, che svolgano la loro funzione di accogliere gli anfibi da gennaio ad aprile, poi, con il caldo, si asciughino provocando così la morte degli animali infestanti.



CAMMINARE NEL PARCO

Il Parco del Rio Vallone ha pubblicato una cartina  che evidenzia una rete sentieristica di circa 40 km, suddivisa in 8 itinerari. 
Il principale, N.1, parte da Verderio e arriva a Gessate. Inizia a Verderio anche il sentiero N.7, che arriva a Cornate d’Adda. Gli appassionati  dei percorsi ad anello, alla fine del sentiero N.7 possono imboccare il N.6, Cornate – Sulbiate, per poi , all’incrocio, prendere verso destra il N.1 e tornare a Verderio.







Il retro della cartina contiene utili informazioni su vari aspetti naturalistici del parco. Con sintetiche descrizioni viene presentata la geologia del territorio ed elencati i corsi d’acqua che vi si incontrano; fauna  e flora sono oggetto di apposite schede, così come i più rilevanti aspetti del paesaggio naturalistico e le testimonianze della presenza umana: le cascine, gli edifici sacri e quelli industriali oggi considerati beni archeologici.

Castel Negrino, Aicurzio















 
Cascina Camuzzago, Bellusco, prima della ristrutturazione



 
La Commenda, Aicurzio












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La cartina oggi è pressoché esaurita; invece di procedere alla ristampa, è stato realizzato un sito telematico di facile consultazione con maggiori dettagli sul parco. Tramite il Webgis si possono visualizzare, scaricare, stampare, tutti gli itinerari che possono interessare.

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Il territorio del parco è toccato dal Cammino di Sant’Agostino, pellegrinaggio che tocca  50 santuari mariani della Lombardia. Fra questi il santuario della Madonna del Lazzaretto di Ornago.
Il cammino, lambisce il territorio di Verderio, attraversa Aucurzio e Bellusco, per poi raggiungere Ornago. 






DAL PROGETTO “TRE PARCHI IN FILIERA” AL PROGETTO P.A.N.E.
 

Il parco del Rio Vallone, quello del Molgora e quello della Cavallera, hanno iniziato la loro collaborazione realizzando il progetto “Tre parchi in filiera”. Lo scopo era quello di mettere a disposizione dei cittadini le produzioni agricole più significative dei loro territori, in particolare la patata a pasta bianca di Oreno, il grano del Molgora, gli asparagi di Mezzago. Sono inoltre stati coinvolti i produttori di miele e i coltivatori di zafferano e di micro ortaggi.
 

 
D - Cosa sono?
R - Sono mini ortaggi. Ad esempio, alcuni coltivano basilico in miniatura che però ha un profumo di una tale intensità che non è necessario usare un’intera piantina, ma solo un pezzettino. A fare queste produzioni sono tutti ragazzi giovani, pieni di entusiasmo.
 

D - Nell’iniziativa è stata coinvolta anche l’Azienda Agricola ai Boschi, di Verderio, che però non è nel territorio del Rio Vallone, bensì in quello del Parco Adda Nord …
RÈ vero, ma, dato che Verderio è sia nel parco Adda Nord che nel Rio Vallone, mi sono permesso di coinvolgerla. L’azienda, che produce bovini di razza limousine, è un allevamento modello, importantissimo per il territorio, per il discorso che abbiamo fatto prima sul prato stabile. In più sta tentando la conversione al biologico. Quest’anno, ad esempio, è stato piantato tanto favino bianco, un baccello che serve per fare mangime.
 

 
L'Azienda Agricola ai Boschi, Verderio


Qual è il suo problema? Che se vende direttamente al consumatore riesce a spuntare un certo margine di guadagno, se invece le richieste dirette non sono sufficienti deve vendere ai macelli ottenendo un minor guadagno, soprattutto se la mucca ha superato i 24 mesi di allevamento. Senza la vendita diretta ai privati l’azienda non riuscirebbe a reggere. L’azienda “ai Boschi” ha aderito al progetto e, grazie alle visite guidate in azienda e al rapporto instaurato con i G.A.S. (Gruppi di Acquisto Solidale), ha avuto, mi sembra, un buon incremento. A parte tutto questo, l’Azienda ai Boschi merita sostegno perché è un esempio di gestione al femminile.

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Da questa ed altre collaborazioni tra il Parco del Rio Vallone e quello del Molgora è nato il P.A.N.E., Parco Agricolo Nord Est. È nato però monco, poiché il Parco della Cavallera, che ne avrebbe dovuto far parte, smetterà di esistere alla fine del 2017.
P.A.N.E. vuole essere il corridoio ecologico che, collegando i grandi parchi regionali limitrofi, Lambro, Adda Nord, Curone e Parco Sud, facilita la variabilità genetica, grazie alla migrazione della fauna dall’uno all’altro territorio, altrimenti separati.  
 




A questo scopo Andrea Pirovano pensa che sarebbe importante far coincidere il confine di  P.A.N.E. con quello del parco Adda Nord, obbiettivo raggiungibile se il comune di Verderio fosse disposto ad aumentare, verso nord, l’area del suo territorio inserita in P.A.N.E.
Non sarebbe una buona idea? 


NOTE
(1)    V’Arco Villoresi:http://www.parcoriovallone.it/index.php?Mod=Pagina&Pagina=2422).
(2)    La Roggia Annoni su questo blog: http://bartesaghiverderiostoria.blogspot.it/search/label/Roggia%20Annoni


Marco Bartesaghi

IL PLATANO MONUMENTALE DI VERDERIO di Giorgio Buizza

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IL PLATANO

Il platano è una specie arborea molto comune e molto diffusa in Lombardia e nella pianura padana, ma ha una grande adattabilità ai suoli e ai climi ed è quindi diffuso a tutte le latitudini.
Questa specie è stata utilizzata, per la sua rapida crescita, per la sua adattabilità, per la sua forma tendenzialmente globosa, sia per delimitare le proprietà rurali e gli appezzamenti, ma è stata impiegata in passato anche lungo le principali strade nazionali per produrre ombra a beneficio dei viandanti (almeno fino a quando è stato possibile piantare alberi lungo le strade). Le strade si sono poi dovute allargare per l’aumento del traffico e in sostituzione dei filari di platani sono state dislocate un’infinità di tabelloni pubblicitari e sono stese corsie di asfalto, lasciando le strade in pieno sole.


Platano nei pressi di Cascina Bergamina, Verderio

I contadini della pianura, fino al secolo scorso, utilizzavano il platano per delimitare gli appezzamenti e per produrre legname a ciclo breve, 3 – 4 anni, ceduando periodicamente le ceppaie, adattando la coltivazione alla disponibilità dell’attrezzatura che era solitamente una roncola o un mannarino, attrezzi che funzionavano a “braccia”.
I grandi alberi non erano ben visti dai contadini perché producevano troppa ombra sulle coltivazioni che davano alla fine, per colpa degli alberi, produzioni inferiori. Erano invece piantati dai proprietari della terra che ne curavano lo sviluppo per ottenere, con il legname prodotto nel ciclo lungo, una integrazione al reddito e una biomassa utile per il riscaldamento delle case padronali.
Il film “l’albero degli zoccoli” racconta la vita difficile di un contadino liquidato brutalmente dal padrone per aver tagliato un albero per soddisfare un esigenza primaria in un contesto di estrema povertà, cioè fare gli zoccoli per i suoi bambini.
Il platano ha buona confidenza con l’acqua, tanto che il suo rapido sviluppo è legato alla presenza di una falda superficiale, di un fosso, di un fiume. Cresce bene anche sulle sponde dei laghi dove costituisce spesso un carattere distintivo del paesaggio.
Le radici non devono stare sommerse, ma devono potere trovare terreno fresco e umido a pochi metri di profondità. In queste condizioni il platano ha un rapido accrescimento sia in altezza che in diametro del fusto.


COME RICONOSCERE UM PLATANO

Il carattere più evidente è la squamatura della corteccia che si sfalda, con l’invecchiamento, formando placche di cellule corticali morte che poco alla volta si staccano dal fusto principale.
Il fusto del platano, in condizioni normali e di buona vigoria, presenta macchie brune (le parti prossime al distacco), macchie verdastre e grigie (le parti che stanno invecchiando e che si staccheranno dopo alcuni mesi) macchie giallastre o molto chiare formate dalla corteccia nuova, appena scoperta per il distacco delle placche più vecchie. Il tutto forma un disegno molto simile alla tuta mimetica.
 

Un altro albero della Cascina Bergamina, Verderio



Guardando più in alto, il carattere distintivo del platano è rappresentato dai fiori e dai frutti che si trovano quasi sempre nelle parti terminali dei rametti. Quello che si nota di più sono le infruttescenze (insieme di frutti) a forma di pallina di 3-3,5 cm di diametro, rugose, verdastre se acerbe, poi marroni a maturità, che rimangono sull’albero per tutto l’inverno, anche dopo la caduta delle foglie, sfaldandosi poi e liberando i singoli acheni (frutti) quando si forma la nuova vegetazione in primavera.
I fiori sono unisessuali; quelli femminili sono piccole palline picciolate di colore rossastro che accolgono il polline proveniente dai fiori maschili sovrastanti, che sono piccole infiorescenze di colore giallo.
 




Il platano si riconosce poi dalle foglie, palmato-lobate a 3 5 lobi, con inserzione alterna sul rametto, decidue, mediamente coriacee, che raggiungono dimensioni di 25 cm.
I botanici hanno individuato due specie originarie: il platanus orientalis originario del medio oriente e dell’Asia; il platanus occidentalis originario del nord America. Le due specie sono molto simili e molto vicine geneticamente perciò con la vicinanza in vivaio e col passare del tempo si sono incrociate tra loro.
Con molta probabilità i platani presenti nei nostri giardini e tutte le attuali produzioni vivaistiche sono tutti ibridi che vengono denominati platanus acerifolia o platanus hispanica.


 IL PLATANO MONUMENTALE DI VERDERIO

Il platano della Rotonda di Verderio è tra i pochi platani monumentali contenuti nell’elenco degli Alberi monumentali della Provincia di Lecco; tra questi è l’unico radicato in uno spazio aperto, pubblico, sempre accessibile. Tutti gli altri platani (elencati nella nota in calce) fanno parte del patrimonio arboreo di Ville private o visitabili solo occasionalmente.




I parametri dimensionali del Platano di Verderio, misurati nel 2016, sono:

  • Altezza m 34,50.
  • Circonferenza del fusto (misurato a 1,30 da terra) cm 550 pari a un diametro di cm 175.
  • Diametro medio della proiezione della chioma 30 m circa.
Le origini del platano di Verderio, al momento, non sono note: non si sa quando è stato piantato né da chi, perché in quella posizione, come è stato allevato. Si deduce che, nonostante sia stato esposto ai molti rischi derivanti dalla sua posizione sul bordo di una strada, non ha mai subito gravi incidenti o gravi manomissioni. Probabilmente in gioventù ha subìto alcune potature, anche di una certa entità, ma la sua buona salute e la buona disponibilità idrica gli hanno consentito di rimediare alle ferite causate dai tagli e riprendere a vegetare vigorosamente mantenendo una sagoma quasi naturale evitando il formarsi di cavità e marciumi del legno.





Prima che, per sveltire la circolazione dei veicoli, fosse realizzata la rotonda (a cura della Provincia di Lecco – 2004) l’incrocio tra via S. Ambrogio, via per Paderno e via dei Prati era regolato da un semaforo.

 
L'assetto stradale prima della costruzione della rotonda


Il Platano era sul lato destro della strada proveniente da Paderno, molto vicino al limite della strada e al semaforo. In Largo della Battaglia c’erano alcune zone asfaltate, ma gli spazi di parcheggio erano relativamente ristretti mentre erano prevalenti le superfici a prato.
 




Sotto la chioma del platano era posizionata la stele in granito, sormontata dalla croce, a ricordo della Battaglia di Verderio avvenuta il 28.04.1799 che vide contrapposte l'armata austriaca, comandata dal generale barone Vukassovich, e l'armata francese, alla cui testa trovavasi il generale Sérrurier. 




 
Il platano al centro della rotonda e la stele della Battaglia di Verderio sulla sinistra

 
Una seconda lapide, più recente, anch’essa murata in Largo della Battaglia ricorda la deportazione da Verderio ad Auschwitz dei componenti della Famiglia Milla, uccisi - perché ebrei - l’11.12.1943.

Il Platano era sicuramente presente alla deportazione dei Milla; non si sa se fosse già presente anche alla battaglia di Verderio: probabilmente no.
 

Per verificarne con maggiore precisione l’età bisognerebbe praticate un piccolo forellino di 2/3 mm per una lunghezza pari almeno al raggio cioè di almeno 85 cm.  Anziché effettuare una indagine invasiva, con qualche rischio di infezione, è preferire continuare a fantasticare sulla sua età e sulle sue origini.
 

Nonostante le numerose ricerche d’archivio, non si hanno immagini del platano giovane o giovanissimo: si possono quindi fare solo delle supposizioni in base alle sue dimensioni. 

E’ certo che dal 1996 al 2016 la circonferenza del fusto è aumentata di 42 cm corrispondenti a un incremento medio di diametro di circa cm 0,67 all’anno. Sembra nulla ma, tradotto in peso, l’incremento annuale distribuito su tronco e rami, corrisponde a qualche quintale di legna che ogni anno si accumula sottraendo grandi quantità di CO2 dalla nostra aria inquinata; con il progressivo sviluppo si incrementa anche la monumentalità del soggetto.
Considerate le dimensioni e con qualche larga approssimazione si può datare la nascita del Platano all’inizio del 900. Potrebbe dunque avere 120 -130 anni.
 

Trattandosi di un albero tra i più comuni e consueti del territorio lombardo nessuno ha pensato di annotare e documentare la sua presenza; ora, viste le dimensioni raggiunte e la sua ubicazione, il platano è diventato un’attrattiva e un punto di riferimento nel paesaggio della Brianza ed anche un richiamo di grande interesse botanico, paesaggistico e culturale.
 

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LA STRUTTURA DELL'ALBERO


Per ammirare la struttura dell’albero e la sua disposizione spaziale è preferibile un’osservazione nella stagione invernale, dopo la completa caduta delle foglie. 



Si nota che l’albero è strutturato su due branche principali che si formano ad una forcella a circa 6/7 m di altezza; le due branche di analogo diametro e vigore si sviluppano poi in altezza e in larghezza con rami secondari e terziari fino alla parte distale (periferica) della chioma. La formazione della forcella è il risultato di una prima, antica potatura (o rottura della punta) che ha snaturato/modificato la sagoma dell’albero che avrebbe dovuto svilupparsi su un unico fusto centrale.
Successivamente gli interventi di contenimento sono stati modesti o se ci sono stati nelle parti basse del fusto, sono stati controllati dallo sviluppo successivo che ha rimarginato e coperto le ferite originate dai tagli, impedendo ad eventuali parassiti di entrare all’interno dell’albero e avviarne il deperimento.


 
Si può osservare come i rami non si sviluppano orizzontalmente in modo rettilineo, ma ad archi successivi: quando un ramo sta diventando troppo pesante e rischia di spezzarsi per il troppo peso, la punta ricurva verso il basso viene abbandonata e, da una ramificazione intermedia, riparte la crescita di un grosso ramo che progressivamente si inclina sotto il suo peso ed assume la conformazione ad arco. Questo andamento ad archi successivi è ben visibile nelle parti basse della chioma dove la lunghezza dei rami sub/orizzontali raggiunge la non comune misura di una quindicina di metri.
 

L’albero si regola da sé nel suo sviluppo, cercando di ottimizzare le risorse: luce solare, sali nutritivi e acqua nel terreno, CO2 da catturare, in cambio di ossigeno da eliminare dopo aver trattenuto e immagazzinato il carbonio a formare lignina e cellulosa. Per questi motivi l’albero continua a crescere ad allungare i rami, a metter nuovi germogli, a irrobustire la struttura portante, incrementando il diametro del fusto e dei rami.
 

Fino a quando potrà ancora crescere? Fino ad esaurimento delle risorse disponibili oppure, fino a quando la traspirazione delle foglie sarà in grado di richiamare dal terreno la soluzione nutritiva.
 

Tutti i viventi hanno un ciclo vitale con un inizio e una fine. A volte sono gli agenti esterni (temporali, fulmini, vento, carico di neve, rotture di grossi rami con conseguente ingresso di parassiti) a provocare il precoce invecchiamento e a rendere instabile l’albero. Molto spesso sono i danni provocati dagli scavi e dalle inutili potature fatte dai giardinieri a mettere in crisi il delicato equilibrio del sistema e a provocarne l’invecchiamento precoce.


LA ROTONDA
 

La rotonda è stata progettata e realizzata anche tenendo conto della presenza del grande albero attorno a cui è stata costruita con un adeguato contorno di terreno entro cui tenere ancorate le radici. La rotonda è stata dotata di impianto di irrigazione proprio per garantire al platano, non più accompagnato da un fosso, le migliori condizioni per la sua crescita. I lavori stradali sono stati superficiali e non hanno interessato le radici principali dell’albero che si diffondono nel terreno profondo ben oltre il perimetro dell’aiuola con le rose.
Per connotare la monumentalità dell’albero l’aiuola è stata dotata anche di proiettori che illuminano dal basso in assenza di foglie, fanno risaltare la struttura e l’articolazione della chioma e richiamano l’attenzione di chi transita nelle vicinanze.
La stele della Battaglia è stata spostata in posizione più defilata rispetto all’albero, ma anche più visibile.
Dal 2004 ad oggi l’albero non ha mostrato sintomi di deperimento o di sofferenza e, concluso il cantiere per agevolare la circolazione, ha ripreso a crescere vigorosamente.
 


A SINISTRA:Primavera 2004 – Cantiere per la realizzazione della rotonda. A DESTRA: Estate 2004 - Inaugurazione della Rotonda alla presenza del Sindaco B. Colnaghi, del Presidente della Provincia di Lecco V. Brivio e di tanti cittadini.
A SINISTRA: Inverno 2007. A DESTRA: Inverno 2016

A SINISTRA: Estate 2016. A DESTRA: Inverno 2017

COSA FARE PER CONSERVARE BENE L'ALBERO
 

La rotonda e i veicoli che la percorrono, oltre ad essere fonte di inquinamenti vari (aria, rumore) costituiscono anche un elemento di salvaguardia e protezione del monumento arboreo, che risulta difficilmente avvicinabile. Spesso la monumentalità genera curiosità con il conseguente calpestio sulle radici da parte di coloro che vogliono vedere l’albero da vicino, toccarlo e inciderne la corteccia, pensando di passare alla storia: tutte queste manipolazioni rappresentano l’inizio della fine dell’albero.
E’ opportuno però che al platano siano garantite alcune attenzioni per conservarlo in buona salute. Se ne ricordano alcune qui di seguito.

  • Programmare il regolare funzionamento dell’impianto di irrigazione che deve fornire, soprattutto nella stagione calda, un adeguato apporto di acqua per consentire all’albero di mantenere attiva la “pompa naturale” che fa salire la soluzione nutritiva fino alle gemme e ai rami più alti posti a 35 m di altezza (pari al 12° piano di un edificio residenziale);
  • Mantenere adeguate condizioni di “nutrimento” attraverso le radici che si devono poter espandere nel suolo in proporzione alla dimensione della chioma, eventualmente aggiungendo modiche quantità di sostanza organica (letame maturo) o concime di altra natura distribuito in superficie tra i cespugli di rose della rotonda;
  • Astenersi dal fare cose strane come potature drastiche, contenimento della chioma, taglio delle cime, taglio di grossi rami, scavi in prossimità delle radici;
  • Garantire lo spazio adeguato alla circolazione stradale accorciando i rami che penzolano sulla sede stradale per prevenire rotture provocate dagli autocarri in transito;
  • Rimuovere eventuali rami secchi presenti all’interno della chioma per evitare che cadano sulla sede stradale e sui marciapiedi;
  • Spiegare ai cittadini di Verderio (ma non solo a loro) il valore ambientale e culturale del Largo della Battaglia, felice sintesi di natura, storia, cultura.
Il platano della rotonda potrà continuare a crescere bello sano e vigoroso e diventare l’orgoglio dei cittadini di Verderio che vorranno prendersene cura, oltre che un elemento di richiamo per i tanti appassionati che apprezzano le bellezze naturali.

COME VALORIZZARE IL "MONUMENTO"
 

  • Sottoporre a verifica l’impianto di illuminazione dal basso (già esistente) predisponendo l’accensione nella stagione autunnale/invernale in orario serale, da dopo la calata del sole fino alla mezzanotte di ogni sera. L’illuminazione notturna assume un fascino particolare in assenza di fogliame in quanto mette in evidenza la struttura dell’albero e le sue ramificazioni. L’albero illuminato acquista un fascino particolare se osservato da lontano;
  • Disporre alcune frecce segnaletiche lungo le strade principali con l’indicazione del “Platano monumentale” che stimoli l’interesse dei turisti in transito nei confronti del Monumento Vegetale e, come effetto collaterale, a visitare il centro di Verderio;
  • Disporre in Largo della Battaglia una tabella che spieghi il valore dell’albero, le sue caratteristiche, le sue dimensioni e, per quanto possibile, le sue origini e la sua storia;
  • Riportare sul sito web del Comune tutte le notizie, le ricerche, gli studi riguardanti il platano;
  • Predisporre un pieghevole a stampa da distribuire nei punti di informazione della cittadinanza (sedi municipali, biblioteca, luoghi di ritrovo, edicole, esercizi pubblici, associazioni, ecc.) con le informazioni riguardanti il platano;
  • Organizzare visite didattiche per la conoscenza dell’albero con gli alunni delle scuole elementari e medie;
  •     Organizzare momenti celebrativi e culturali in Largo della Battaglia nelle vicinanze del Platano.

9 Settembre 2017 - Giorgio BUIZZA


NOTA
Gli altri platani monumentali censiti in Provincia di Lecco sono a:

  • Bulciago (proprietà privata Villa Taverna);
  • Casatenovo (giardino pubblico Villa Facchi);
  • Imbersago (proprietà privata Villa Castelbarco);
  • Merate (proprietà privata Villa Cornaggia);
  • Olgiate M. (proprietà privata Villa Sommi Picenardi);
  • Sirtori (proprietà privata Villa Besana);
L’altro platano pubblico censito in Provincia nella giardino di Villa Rosa sede del Comune di Molteno è morto recentemente a seguito di infezione provocata da cancro colorato (Ceratocistis platani).

Meritano inoltre una segnalazione:
Il platano monumentale dei 100 Bersaglieri di Caprino Veronese (VR) - 15 m di circonf. del fusto.
Il platano monumentale di Curinga (CZ) – 20 m di circonferenza, con grande cavità del fusto in grado di ospitare una decina di persone.



* Su questo blog, altri articoli riguardanti il platano monumentale di Verderio si trovano cliccando sull'etichetta "Giorgio Buizza" 
** Immagini relative ad altri platani di Verderio: http://bartesaghiverderiostoria.blogspot.it/2009/07/platani-verderio.html

LA NUOVA IMMAGINE DELLA MADONNA ALL'ANGOLO FRA VIA FONTANILE E VIA PRINCIPALE

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Era maturata nel 2015, nel gruppo Pensionati di Verderio, l’idea di porre rimedio al cattivo stato di conservazione dell’immagine della Madonna, posta all’angolo fra via Fontanile e via Principale.
Raccolti i fondi necessari, attraverso una sottoscrizione popolare, è stato affidato l’incarico a due pittrici locali, Beatrice Fumagalli e Gigliola Negri, già autrici, in paese, delle decorazioni esterne e interne dell’Aia, delle facciate della “curt növa”, in piazza Annoni, e di una casa di via dei Tre Re, della Madonna della cappella funebre della famiglia Annoni.




Per la Madonna di via Fontanile tre erano le possibilità d’intervento fra cui scegliere:  

restaurare la Madonna ancora  presente, o dipingerne una nuova, sul muro;

 
L'immagine esistente sul muro


recuperare l’immagine esistente, un dipinto, su tavola di legno, di un abitante di Verderio, ora defunto, che negli anni ottanta del novecento aveva messo mano, con poca perizia, a diverse immagini sacre del paese; 


La Madonna dell'Aiuto dipinta su tavola di legno tra il 1985 e il 1990

dipingerla su un  supporto diverso e poi applicarla nella sua sede. 


Escluse la prima, perché facilmente attaccabile dall’umidità del terreno e soggetta alle sollecitazioni meccaniche in caso di importanti lavori di ristrutturazione dello stabile,e la seconda poiché il supporto in legno non è adatto ad essere esposto alle intemperie, ,  Beatrice e Gigliola hanno proposto ai loro committenti, che hanno accettato, la terza soluzione: 

“ …realizzeremmo il nuovo dipinto della Madonna dell'Aiuto su un pannello in resina con “l'anima” a nido d'ape in alluminio indeformabile, sul quale si procede applicando lo strato di intonaco di base, per poi procedere con il ciclo completo di pittura.
Questo pannello può essere sagomato perfettamente per lo spazio interno alla cornice e potrà essere murato o direttamente alla parete oppure applicato con delle zanche”.


 
La fotografia che Gigliola e Bea hanno preso come riferimento

Una fotografia della Madonna preesistente, risalente probabilmente al 1920, è stata  il loro punto di riferimento per  la nuova immagine. Così, in una relazione tecnica, la descrivono:
 

“Rappresenta la Vergine in piedi con il bambino Gesù in braccio e nella mano destra il Rosario. Questa immagine ci mostra una figura della Vergine estremamente aggraziata e “morbida” pur mantenendo una certa semplicità di insieme.
Il manto bianco sembra avvolgere in parte il bambino, per poi appoggiarsi a terra in un drappeggio vaporoso.
Presumibilmente lo sfondo del dipinto rappresentava le campagne di Verderio…”
 







































































Beatrice e Gigliola si sono occupate anche del recupero della cornice, asportando gli strati di vernice che negli anni si erano accumulati, per poi riprodurre lo strato più profondo, probabilmente quello originario.

Lo stato della cornice prima del restauro
Completata e messa in opera nello scorso mese di agosto, la nuova versione della Madonna dell’Aiuto è stata benedetta il 17 settembre 2017.




In questa operazione di recupero di un significativo angolo del paese , caro soprattutto ai verderiesi  devoti a Maria, un ruolo fondamentale è stato ricoperto da Giulio Oggioni. Sollecitato ad occuparsene, come ha più volte sottolineato, da molti concittadini, soprattutto anziani, ha, come sempre, messo in campo tutta la sua passione, la sua  caparbietà, in una parola: la sua faccia, permettendo di ottenere questo risultato che, altrimenti, difficilmente sarebbe stato raggiunto.



Marco Bartesaghi

Su Beatrice e Gigliola e il loro lavoro di decorattici cerca in questo blog:

http://bartesaghiverderiostoria.blogspot.it/2014/09/beatrice-fumagalli-e-gigliola-negri_13.html

Su l'immagine della Madonna dell'Aiuto di Verderio vedi l'estratto della tesi di laurea di Marta Cattazzo:

http://bartesaghiverderiostoria.blogspot.it/2011/01/immagine-della-madonna-sullangolo-di.html



Article 2

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 LABORATORI DI DISEGNO E PITTURA

Insegnante Elena Mutinelli

durata OTTOBRE/ MAGGIO

 Orari lezioni:

tutti i martedì e i venerdì ore dalle 9,30 alle 11,30


pacchetto da 12 lezioni   3 ottobre/ 22 dicembre   |   pacchetto da 24 lezioni   3 ottobre/ 22 dicembre

pacchetto da 20 lezioni 9 gennaio/ 25 maggio   |   pacchetto da 40 lezioni 9 gennaio/ 25 maggio 


per informazioni corsi info@elenamutinelli.eu



http://www.elenamutinelli.eu/index_file/Page1360.htm



news mostre

http://www.elenamutinelli.eu/index_file/Page1133.htm

Article 1

IL BLOG HA BISOGNO DI UNA PAUSA

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Carissimi amici,
in questo periodo ho difficoltà ha dedicare al blog il tempo necessario per aggiornarlo con regolarità.
Per questo motivo ho deciso di prendere una pausa almeno fino a Natale.
Un cordiale saluto, Marco Bartesaghi



Il disegno è di Sara Bartesaghi

UNA SERIE DI FRANCOBOLLI DEL PRINCIPATO DI MONACO DEDICATA A GIOVANNI CANAVESIO di Marco Bartesaghi

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Il 12 aprile 1972 il Principato di Monaco ha emesso una serie di francobolli dedicata alla  “Conservazione dei monumenti”. La serie si compone di cinque pezzi del valore facciale di Franchi 0,30 – 0,50 – 0,90 – 1,40 – 2,00.
Sui cinque francobolli sono rappresentate altrettante scene della passione di Cristo, tratte dagli affreschi realizzati dal pittore Giovanni Canavesio intorno al 1492 nella chiesa di Notre Dame des Fontaines di La Brigue, in Francia.





Gesù nell'orto dei Getsemani




***




Gesù viene schernito e percosso
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Gesù, caricato della Croce, sale il Calvario
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Gesù muore in Croce

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Gesù rosorge dalla morte.




LA "ROUTE" DEL CANAVESIO di Giovanna Villa

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La vacanza che io e Giovanna, mia moglie, abbiamo fatto l'estate scorsa (agosto 2017) ha avuto qualcosa a che fare con Verderio. Abbiamo infatti percorso, quasi sempre a piedi, un itinerario fra i luoghi che conservano molte delle opere del pittore Giovanni Canavesio, quello che ha dipinto la pala conservata nella parrocchia di San Giuseppe e Floriano di Verderio.

 


Il polittico di Giovanni Canavesio, della chiesa parrocchiale dei Saanti Giuseppe e Floriano di Verderio


Un trekking quindi, ma che noi preferiamo chiamare Route, termine francese traducibile in “Strada”, che per gli Scout indica solitamente un cammino di più giorni, effettuato con zaino in spalla, con pernottamenti in tenda e un tema che cerca di dare un senso unitario all'itinerario.
La nostra è stata quindi la “Route del Canavesio”. Avremmo dovuto vedere molte delle opere di Canavesio, ma come capirete dal racconto di Giovanna, per un motivo o l'altro non tutte le visite previste sono state poi realizzate. Pazienza: dello spirito scout fa parte anche l'idea che non sia  tanto importante la meta raggiunta, quanto la strada percorsa. Oltre a questa giustificazione ce n'è un'altra: cosa si può pretendere da due giovani scout di 64 e 61 anni? M.B.



 LA "ROUTE" DEL CANAVESIO diario di Giovanna Villa

VACANZE 2017
Piccola premessa:Questo è stato un anno molto impegnativo ed esisteva la possibilità che non riuscissimo a fare le nostre vacanze estive per cui visto che siamo partiti siamo particolarmente contenti.
 

Cosa faremo in queste vacanze? Ideona di Marco, naturalmente: Route del Canavesio.
Canavesio? Chi era costui?
 

Giovanni Canavesio di Pinerolo, 1450-1500 più o meno, dati poco certi, è il pittore che ha realizzato la pala d’altare della parrocchiale di S. Giuseppe e S. Floriano a Verderio.
 

Per ora tutto quello che so del programma vacanze è questo. Non ho voluto sapere nulla in anticipo e quindi, sarà tutta una sorpresa. 

Mercoledì 16 agosto
Si parte da casa a piedi con zaino in spalla:  ore 6.18 treno da Paderno D’Adda
Zaini preparati cercando di portare l’essenziale per i primi dieci giorni.
Poi, Dio volendo, faremo qualche giorno al mare e il necessario per questo secondo periodo l’abbiamo infilato in un borsone e consegnato ad un nostro cliente che passa l’estate in Liguria per conservarcelo fino al nostro arrivo.


Verderio 16 agosto 2017, alba

Partiti da Paderno, arriviamo a Milano Porta Garibaldi ma dobbiamo andare in stazione  Centrale. Primo contrattempo: in metrò la fermata di Centrale è chiusa nella nostra direzione. Si deve passare oltre, scendere alla fermata successiva e tornare indietro.
Facciamo i biglietti che nei giorni scorsi non siamo riusciti a fare perché non abbiamo trovato una biglietteria aperta e online siamo troppo poco pratici.
Destinazione La Brigue, nostro punto di partenza per il Tour. Previsto cambio treno e sosta a Torino.
Ancora la tecnologia non ci favorisce: troviamo le obliteratrici non funzionanti ( 2 su 3) e al treno il portellone si apre solo a metà. Marco sale ma quando sto per salire mi si chiude del tutto addosso, riesco comunque a salire ma giunge immediatamente il controllore che mi sgrida abbastanza violentemente: quando si sente suonare un dlin dlon non si deve salire perché loro stanno provando la chiusura e apertura. Io replico che non ho sentito il campanello e lei si altera ulteriormente perché è impossibile che non abbia sentito … va beh, mi prendo l’ulteriore rimprovero ma io dicevo di non averlo sentito e non che non fosse stato suonato. Comunque si parte, niente di grave.


A Torino, prima delusione. Galleria Sabauda chiusa, eran aperta ieri, ferragosto, e chiusa oggi, no comment. Lì era prevista la prima tappa Canavesio; in questa pinacoteca è presente un polittico antecedente all’opera di Verderio.


Il polittico del Canavesio, conservato alla Galleria Sabauda di Torino, che non siamo riusciti a vedere.Proviene, probabilmente, dalla chiesa di Notre Dame des Fontaines di Briga.
Ci aggiriamo per Torino senza meta. È  molto piacevole. 



Poi torniamo in stazione,  mangiamo i nostri panini e prendiamo il treno per Cuneo. A Cuneo di corsa  si prende trenino per Ventimiglia. Scendiamo a La Brigue. 




Inizia l’avventura.
Ci dirigiamo verso il paesino e lo visitiamo



La Brigue, è stata una cittadina italiana fino alla fine della seconda guerra mondiale, quando è passata alla Francia








Attendiamo l'apertura dei negozi per acquistare il pane: 2 baguette naturalmente, siamo in Francia!






Imbocchiamo rue Canavesio e cerchiamo il sentiero che ci porterà a Notre Dame des Fontaines.

Percorso più lungo e faticoso del previsto o perlomeno del ricordo che ne avevo. Sappiamo già che non riusciremo a visitarla perché già chiusa stasera e domani aprirà troppo tardi: secondo appuntamento con Canavesio mancato.
 




Arrivati scopriamo che non c’è acqua. Niente fontana anche se Marco giura che l’altra volta c’era … fra l’altro il luogo si chiama Notre Dame des Fontaines ma la “fontaine” non c’è: ingannevole.

Cerca che ti cerca troviamo una piccola sorgente, un po’ scomoda da raggiungere ma che ci offre acqua bevibile. Riempiamo le bottiglie, montiamo tenda, cuciniamo abbondante pasta che ci servirà anche per la cena di domani, ceniamo sui “tavoloni dei giganti”… altissimi e massicci.
 








Poi nanna dopo aver fatto conoscenza con un rospone immenso.


 ***

Giovedì 17 agosto
 

Sveglia ore 5. Smontiamo e sistemiamo gli zaini.

  

È troppo presto, come previsto, per visitare la chiesa di Notre Dame, completamente affresacta da Canavesio. Non ci resta che ricordare quello che avevamo visto qualche anno fa.






Prima di partire Marco va alla sorgente per fare il rifornimento d’acqua necessario per la giornata ma, amara sorpresa, la sorgente non butta più, completamente asciutta. Aiuto!!!

Non possiamo fare a meno dell’acqua, cambiamo leggermente itinerario: invece di imboccare subito il sentiero andiamo sulla strada asfaltata fino a Bens, piccolo agglomerato di case, dove speriamo di trovarla. Fortunatamente lungo la strada, che è circondata da lussureggianti orti, troviamo, nonostante l’ora mattutina, una signora a cui chiediamo dove trovare dell’acqua da bere; naturalmente nel perfetto francese ...  ossia a gesti). Lei, gentilissima ci fa riempire tutte le nostre bottiglie, bottigliette e tanichetta. 4 litri e mezzo, dovremo farcela bastare.




Il peso aumenta e cominciamo la salita su una mulattiera non sempre bella. Finché arriviamo in punto in cui attraversiamo un allevamento di pecore e capre. Ahimè siamo circondati da cani abbaianti e ringhianti.




Una mezza dozzina di cani da pastore bellissimi ma arrabbiati. Stanno facendo il loro lavoro, ci vedono come pericolo ma noi dobbiamo solo passare. Non appare nessun pastore, pian piano mantenendoci tranquilli oltrepassiamo il loro raggio d’azione.

La mulattiera si trasforma in un bel sentiero e saliamo, saliamo, saliamo … con un po’ di fatica ma non troppo per ora. Ci fermiamo in un tratto panoramico per un break con barretta cereali e polase rigenerante(!?!).






L’ultimo tratto per giungere alla carreggiata militare è proprio duro, molto, molto faticoso.
Ci arriviamo e scopriamo che su questa sterrata passa di tutto: biciclette, moto, fuoristrada, gipponi, quad di tutte le dimensioni. Son rumorose e impolveranti.






Verso le 14.00 arriviamo al passo del Tanarello, 2040m, e ci fermiamo a pranzare e riposare.  Poi, ultimo strappetto dopo sali e scendi, sali e scendi, raggiungiamo la cima del monte Saccarello, 2201 m.
 




 
La cima del monte Saccarello. m.2201



Bella vista sia sul versante francese che su quello italiano. 








Continuiamo fino ad un’altra cima con una grande statua del Cristo Redentore (non molto bella) e poi ci dirigiamo verso il rifugio Sanremo, meta per la notte.
Lungo la strada incontriamo una bella e grande casa con una comitiva di ragazzini in bicicletta. Osiamo chiedere se hanno dell’acqua da darci e fortunatamente ce ne possono dare una bottiglia da un litro e mezzo. Qui in giro non ci sono né fonti né altro per cui, grazie a Dio, ce ne regalano un po’ .


 
Il rifugio Sanremo


Arriviamo al rifugio. È  chiuso. Ci sistemiamo fuori, su un piccolo pianoro di fianco all’edificio. Comincia a tirare un vento freddo. Ci laviamo, cambiamo e indossiamo tutto ciò che abbiamo a disposizione per affrontare la notte che si prospetta fredda.
 




Montiamo la tenda, mangiamo sfruttando la luce dell’ultimo sole e vediamo passare un paio di camosci (ci pare).
 




Cala il sole e comincia il grande concerto di campanacci delle bellissime mucche bianche che pascolano li vicino. Ci godiamo la stellata magnifica  e andiamo a dormire nella speranza che anche i nostri vicini bovini si addormentino. I campanacci invece non ci abbandonano mai , continuano a suonare per tutta la notte. Abbiamo scoperto che le mucche non dormono di notte! Beh, un po’ noi dormiamo comunque, quando la stanchezza prende il sopravvento.


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 ***

Venerdì 18 agosto

Abbiamo puntato la sveglia alle 5.00 ma è ancora buio e fa un freddo! quindi  la ripuntiamo alle 6.00.

Albeggia,  è bellissimo.




Alba dwel 18 agosto 2017, dal rifugio Sanremo (m.2054)
Ci prepariamo un tè caldo – caldo. Il sole si alza, supera il profilo dei monti e subito emana calore. 



Le mucche se ne vanno, ora che i campanacci non avrebbero più disturbato ...va be’. Ci godiamo il paesaggio e il silenzio.
Smontiamo, prepariamo gli zaini e partiamo. 





Percorriamo la cresta con vista spettacolare fino alla cima di Monte Fronte dove si erge una statua della Madonna.




Panorama  splendido: a 360 gradi un susseguirsi di monti, colline e boschi, piccoli paesi e più grandi centri abitati giù, giù fino a scorgere il mare.
 


 
Panorama dal monte Fronte (m. 2153). Là in fondo il mare


Vediamo avvicinarsi un gregge di capre. Uno dei cani pastore ci raggiunge e si accuccia pacifico lì vicino a noi. Appena ci muoviamo, però, incomincia ad abbaiare e ringhiare e non ci vuol far proseguire sul sentiero. 



Ci incamminiamo comunque, ma con un po’ di timore anche perché altri cani lo raggiungono. Finalmente prendiamo un sentiero in discesa e usciamo dal loro percorso. 




Lì, sul crinale,  appaiono le capre. Sembra di essere in un vecchio film western: le capre ferme, attente e silenziose come indiani che osservano la nostra carovana, piccola ma carica, rumorosa e in movimento.
 



Il sentiero che abbiamo preso ci porterà a valle: scendiamo, scendiamo, scendiamo. Le mie ginocchia cominciano a farsi sentire anche perché lo zaino non pesa poco. Cerco di frenare al massimo e alla fine sono proprio stanca.

Ad un certo punto incrociamo una strada sterrata. Vicino c’è una bella fontana: finalmente acqua in abbondanza!!!. Ci riforniamo, ci rinfreschiamo, ci dissetiamo e riprendiamo la discesa. Ora siamo in un bel bosco e arriviamo a Poilarocca, un paese abbandonato da tempo e tutto diroccato, direi distrutto, ma affascinante. 

 
L'abside della chiesa diroccata di Poilarocca


Pausa pranzo e riposino.




Si continua la discesa, a volte piacevole e all’ombra, a volte scoscesa e faticosa, soprattutto quando bisogna superare recenti frane.




 
Le cascate del fiume Arroscia


Arriviamo alle cascate dell’Arroscia. Molto affascinanti anche se , forse, un po’ scarse di acqua. Davanti, purtroppo, una catasta di grossi tronchi le coprono in parte e nascondono la pozza dove le acque precipitano. Legname molto probabilmente depositato da frane e smottamenti recenti.
Marco, naturalmente, li supera con “agilità” per potersi tuffare nella pozza. Non resiste mai al richiamo dell’acqua: fiumi, laghi e mare va bene tutto. Pozzanghere? Mah …





Si continua a scendere seguendo un po’ l’andamento del fiume che però risulta inaccessibile, rinuncio ad un bagnetto anche se sarebbe piacevole per togliere sudore, polvere e … stanchezza.
Continuando il nostro cammino incontriamo la chiesetta di S. Margherita: carina, piccina e ingenuamente affrescata. Siamo in vista di Mendatica,  la meta di oggi.



Mendatica
Troviamo aperto un ufficio della proloco e chiediamo informazioni per raggiungere, domani,  Pornassio. Il ragazzo presente non sa darci indicazioni ma si mobilita per darci risposta: cerca un esperto di sentieri, interpella altri compaesani e avventori del bar vicino. Infine chiama il referente della cooperativa che gestisce il Parco Avventura e organizza escursioni per turisti che prontamente si presenta in loco per aiutarci.
Lui e un altro esperto ci spiegano un possibile sentiero ma, ci avvertono, un buon tratto di percorso  dovremo farlo su strada asfaltata. Va be’ . Ci indicano anche la strada per raggiungere il Parco Avventura dove potremo campeggiare.
In paese sono tutti agitati perché l’indomani ci sarà in piazza la festa  della Cucina Bianca ...ce la perdiamo, peccato.
Visitiamo il paesino, molto carino. Facciamo la spesa e il negoziante, anche lui molto gentile, ci invita a visitare il piccolo museo della pastorizia. Piccolo, ma ben allestito.




Museo della pastorizia di Mendatica
Ci rechiamo al parco avventura dove ancora ci sono dei giocherelloni appesi qua e là su carrucole e reti tra gli alberi. Un po' in disparte piantiamo la nostra tendina, cuciniamo, ceniamo e poi nanna. Un po’ disturbati da giovani e meno giovani che  fino a tarda ora giocano a calcio e a pallavolo.

***




Sabato 19 agosto
 

Giornata incerta sia come meteo, sia come percorso.
Sveglia ore 6.00 circa, smontaggio, colazione e partenza per Pornassio.
Seguiamo le indicazioni ricevute ieri e percorriamo un sentiero/scorciatoia fino al “mulino”. Un insieme di edifici, da poco ristrutturati, sorti vicino al fiume con ruota idraulica per far girare la macina del mulino. Sembra predisposto per visite guidate, presumibilmente di scolaresche. Oggi però è tutto chiuso.





Arriviamo a Ponti di Pornassio: carina con carruggi “rustici”. Chiediamo per la chiesa di S. Dalmazio e scopriamo che dobbiamo salire a Ville di Pornassio.

 
Ponti di Pornassio


Una signora molto socievole ci indica la strada avvisandoci che bisogna salire, salire, salire ma  che pian piano ci si arriva. In effetti saliamo, saliamo, saliamo su stradina ripida e di cemento. 

Ponti di Pornassio
 La chiesa di San Dalmazio è grande, con un bel piazzale e campanile romanico: è una meta importante del nostro itinerario, perché da qui proviene la pala dell'altare di Verderio e conserva anche un altro suo dipinto.




Il campanile della chiesa di San dalmazio a Ville di Pornassio


Naturalmente la chiesa è chiusa e pare la aprano raramente, solo per qualche funzione religiosa.





Per fortuna l’affresco del Canavesio è nella lunetta esterna sopra il portale: una Madonna con bambino; bella anche se a me pare un po’ poco realistica.






Madonna di Giovanni Canavesio, sopra il portale della chiesa di San Dalmazio, a Ville di Pornassio

Per proseguire il nostro cammino dobbiamo raggiungere Rezzo lungo la strada asfaltata. Non siamo "dei duri e puri" e quindi decidiamo di prendere l'autobus, perciò dobbiamo tornare a Ponti e quindi scendere, scendere, scendere.

Alla fermata del pullman, la signora che ci aveva dato le indicazioni si intrattiene con noi raccontandoci tutta la sua vita. È stata una fortuna, perché senza di lei  avremmo perso il pullman, poiché non  lo avremmo riconosciuto: minibus anonimo, diretto in direzione contraria a quella che avevamo previsto. Non  si sarebbe fermato se la signora non gli avesse lanciato un deciso richiamo. 

Saliamo al volo; vogliamo arrivare a Pieve di Teco. Facciamo un giro pazzesco, tornando letteralmente sui nostri passi. Ritorniamo infatti a Mendatica passando, però, da due borghi carini i, poi, ripassiamo da Pornassio ed finalmente arriviamo a Pieve di Teco. Da li dovremmo prendere l'autobus per Rezzo ma passa solo alle 19,30. Bene.

Pieve di Teco
Ci appoggiamo ad una panchina dove pranziamo e riposiamo. Panchina strana e scomoda, ma Marco riesce comunque ad addormentarsi.


 
Smimmie sui muri di Pieve di Teco





Visitiamo Pieve, molto bella; tutta portici e negozietti anche antichi. Beviamo qualcosa in un baretto e attendiamo il pullman.











Arriva 19.35,siamo gli unici passeggeri. La strada è tortuosa ma bellissima in mezzo a boschi lussureggianti. Passiamo di fianco ad alcuni paesini abbarbicati sui pendii e infine arriviamo a Rezzo. 

È un po’ tardi.E ora cosa facciamo? Dobbiamo capire quale sarà il percorso di domani e dove andare a dormire stanotte. Sta diventando buio e il cielo si sta rannuvolando in modo preoccupante, i monti tutto attorno sono avvolti da nebbia.
 

Troviamo dei cartelli per passo Mezzaluna, prossima tappa, ma non ci sembrano molto attendibili: uno indica di qua e l’altro di là. Chiediamo ad un signore che ci sembra del luogo e ci indica la strada in tutt’altra direzione. Ci fidiamo di lui e ci avviamo guardandoci intorno per trovare un posto per piantare la tenda.
 

Troviamo un piccolo pianoro. Ormai è buio ed il tempo non è dei migliori, quindi, anche se lì sopra ci sono delle arnie che incutono timore, ci fermiamo e ci accampiamo. 

Mangiamo e cerchiamo di attrezzarci per eventuale temporale,  coprendo tenda con mantella e zaini con teli. Speriamo in una buona notte.

 ***

Domenica 20 Agosto
 

Sveglia prima delle sei, temiamo il risveglio delle api.  La notte è stata tranquilla, senza emergenza temporale.
Colazione, poi smontiamo e quindi si parte. Oggi dovrebbe essere piuttosto lunga e pesante, vedremo.


 


Ci incamminiamo su strada asfaltata ma vietata ai veicoli, infatti ne passano pochissimi.  Uno è condotto proprio dal signore che ci ha dato le indicazioni ieri sera. Ci saluta tutto contento.


Proseguiamo piano piano, per un bel po’ di chilometri più del previsto. Arrivati al Ponte dei Passi imbocchiamo il sentiero. Bellissimo, lungo un fiume favoloso, immersi in un bosco splendido.


Verso il Passo Mezzaluna




Ma, che fatica! Sale in modo rapido e continuo per un tratto piuttosto lungo finché arriviamo ad una carreggiabile e lì comincia un bosco di faggi immenso e bellissimo. La strada è piacevole ma non finisce mai.






Beh, alla fine finisce … e arriviamo al passo Mezzaluna.










Spettacolare. Molto piacevole fermarsi: ci si riposa e si mangia.











Facciamo anche il caffè (che bravo il mio maritino: fornelletto, caffettiera e voilà).


Ci sono anch'io: questa è l'unica fotografia che mi ha fatto. Potere del caffè!


Ma arrivano un po’ di nuvole e il percorso è ancora lungo, meglio ripartire: meta Triora.
Il sentiero non è segnato; è abbastanza visibile, ma non sempre.





Soprattutto non sembra diretto dove vorremmo arrivare e in effetti, ...




...dopo molto camminare arriviamo, a Drego, località di Molini di Triora. Triora è due colli più in là, quindi ci armiamo di perseveranza e percorriamo una lunga strada asfaltata, un po' noiosa. Per sopportarla meglio racconto a Marco l'ultimo libro che ho letto.




Passiamo da una chiesina dedicata a S. Brigida e arriviamo a un'altra dedicata a S. Bernardo. 

La chiesa di San Bernardo di Andagna
È quella affrescata da Canavesio che stiamo cercando? Forse sì, forse no. No. Quella è dedicata a San Bernardino ed è  proprio a Triora. Non riusciamo ad arrivarci, è troppo tardi. Un altro buco nell'acqua.




Arriviamo ad Andagna dove si sta svolgendo la festa: “Andagna, paese dei balocchi”. Non mi entusiasma: posizione splendida, ma paesino molto deturpato.
 

 
Andagna, il paese più bello da lontano che da vicino. A destra Triora:sarebbe vicinissima, se non ci fosse di mezzo la valle


Scendiamo verso Molini  per una scorciatoia orribile: ripida, in cemento ed in mezzo a luoghi semi abbandonati e pieni di detriti e spazzatura. Ci perdiamo anceh e dobbiamo tornare indietro per un tratto. Poi incrociamo una frana, difficile da superare.
L’ultimo tratto prima dell’abitato migliora e arriviamo un po’ stanchini a Molini di Triora. Chiediamo informazioni per proseguire verso Pigna domani:  non sarà semplice e anche la ricerca del posto per accamparsi è un po’ problematica. Comunque facciamo la spesa e ci dirigiamo verso il presunto sentiero … il domani mi sembra incerto.
 

 
La prova che questo diario è scritto in diretta


L’accampamento non è dei migliori: in uno spiazzo ex parcheggio, di un ex ristorante in stato di abbandono, vicino a case con cani che abbaiano in continuazione. Mentre si aspetta la cottura della cena avvisto, solo io (eh,eh,eh), una volpe che attraversa la strada.
Nonostante la vicinanza della strada e l’abbaiar dei cani si dorme.



***


Lunedì 21 agosto
 

Sveglia solito orario,  5.30/5.45. Smontaggio, zaini pronti. Marco torna in paese a far rifornimento d’acqua e poi si parte.
Abbiamo poche indicazioni e ben confuse.  Le seguiamo, con molti dubbi,  verso un paesino che sulla cartina vediamo sembra vicino al sentiero che abbiamo scelto. 

In una casa c'è una signora che ci dà nuove informazioni, anch’esse poco chiare: prima ci dice di tornare indietro, poi ci segnala un sentiero un po’ faticoso di cui ha  sentito parlare. Infine ci consiglia l’itinerario solitamente usato con le bici da montagna.
 

Ci dice anche  di stare molto  attenti, soprattutto io che ho i calzini corti, perché "è un anno di vipere". Sta davanti Marco che ha scarponi alti e calzettoni: batte i piedi e le racchette.



Un po' confusi per le indicazioni poco chiare, partiamo. Segnali zero, ci perdiamo subito. Il sentiero è ripido e di certo non adatto alle bici; non è quello che avremmo voluto prendere. 

Ostinati, saliamo, saliamo, saliamo. Il bosco è molto bello ma il sentiero sparisce e non riusciamo più a proseguire. Torniamo indietro,  anche la discesa è faticosa e scivolosa e il peso degli zaini non aiuta.



Incrociamo un altro sentiero, poco visibile, che sale e ci riproviamo caparbi. Saliamo con gran fatica e un po’ a naso seguendo come dice Marco, gasato,  “l’istinto della montagna”. La direzione ci sembra quella giusta ma il tracciato non è di certo quello che intendeva la signora. Poi, finalmente, il sentierone: bello, largo e  ben definito.


Continuiamo il cammino ma - c’è sempre un ma - io vedo una deviazione, che mi sembra più bella. Ancora una volta, dimostriamo la nostra capacità di perderci e, per fortuna, anche di  ritrovarci. Infatti per arrivare arriviamo ma ci siamo spostati molto più a ovest del necessario. 

Uno dei pochi incontri di questa giornata di cammino.
 
Per fortuna il  luogo è molto bello:  un vasto pianoro, qualche casa e una chiesa dedicata a S. Giovanni. Da lì, lungo una carreggiabile quasi pianeggiante, passin passetto ci dirigiamo verso il Colle Langan, nostra meta.


La chiesa di San Giovanni
Anche oggi incontriamo un gregge di pecore e capre con grossi cani ringhianti, ma, per fortuna, è presente il pastore che, anche se non è che si dia molto da fare, mi dà sicurezza.







Arriviamo al passo e raggiungiamo il camping/agriturismo “Il Rifugio” dove ci sistemiamo. Finalmente doccia calda, bucato e riposo al sole. Poi lettura rilassante di fronte ad una vista  entusiasmante.




Quanti agi. Stasera anche cena agrituristica ... che lusso!
Cucina casalinga, buona e genuina. Con vino e dolce: oltre le aspettative.



***

Martedì 22 agosto
 

Sveglia un po’ più tardi del solito. Smontaggio, colazione e poi si riprende il cammino verso Pigna, ultima meta del tour.
Ieri sera ci hanno spiegato la strada, sperem.
Il sentiero ci porterà, come tappa intermedia al Palazzo del Maggiore. Percorso bello, molto bello fino ad una zona coltivata poco attraente perché recintata con materiale vario e fantasioso. 





Arriviamo al Palazzo del Maggiore, che è una villa pressoché abbandonata, e poi scendiamo per un altro sentiero, non molto piacevole ma di fronte si vede un bel paesino che Marco è convinto sia Pigna e fotografa con dovizia di particolari. Invece è Castel Vittorio, bello, ma Pigna è più avanti.




Castel Vittorio


Continuiamo il cammino lungo la strada provinciale e ci arriviamo.
Saliamo alla chiesa che , fortuna vuole, è aperta.





La visitiamo e ci appaghiamo alla vista della “famosa” pala d’altare del Canavesio, dedicata a San Michele, sorella di quella di Verderio. Bella, molto bella … forse più bella della “nostra”, ma in una posizione più infelice, un po’ nascosta o perlomeno messa poco in evidenza.












Vorremmo vedere anche gli affreschi, sempre del Canavesio, nella chiesa di S. Bernardo. È chiusa ma c'è l’opportunità di chiedere l’apertura ad un custode/volontario. Molto disponibile, ci dà appuntamento alle 15, con altri turisti.
Mangiamo qualcosa comodamente seduti su una panchina. Ora ci vorrebbe un bel caffè,  ma non c’è più un bar aperto, anche se è l'ora di pranzo e siamo in centro, vicino al museo e al al municipio. 







Aspettiamo leggendo sotto le volte di una bellissima e vasta loggia, di fianco al piccolo museo. 
Arriva il signor Giorgio che ci accompagna alla chiesa di S. Bernardo vicino al cimitero.




Meravigliosa! E’ tutta dipinta, anche la volta, dal Canavesio. 
Gli affreschi sono stati restaurati lasciando spazi vuoti dove l'immagine era troppo deteriorata. 
Simile a Notre Dame des Fontaines , ma più luminosa, con colori più vividi e caldi. 
Un' affascinante sequenza di scene evangeliche, illustrazioni parlanti che raccontano a tutti gli avvenimenti.


Originariamente questa era un luogo di accoglienza dei viandanti e i dipinti servivano per far conoscere a tutti le storie sacre.


La chiesina è divisa in due campate coperte da volte a crociera: in una sono rappresentati gli evangelisti,  nell'altra i dottori della chiesa. Sorprendente è la ricchezza di dettagli dei dipinti.

San Matteo, riconoscibile per ll'Angelo seduto  al suo fianco



San Marco, con il Leone alato, e, nella lunetta, Annunciazione


Lungo le pareti laterali è rappresentata la Passione di Cristo che culmina con la crocifissione.
 

Crocifissione di Cristo nella chiesa di san Bernardo di Pigna

 

In una parete è raffigurato il giudizio universale sempre nel modo ingenuo e curioso che contraddistingue l'opera del Canavesio


Giudizio Universale






Molto interessante e piacevole è stata la presentazione del nostro accompagnatore.
Finita la visita andiamo alla fermata del pullman per Dolceacqua. Dobbiamo trovare un campeggio In attesa del pullman ci beviamo qualcosa di fresco al bar.
Domani al mare! Il Tour del Canavesio è finito? Forse sì, ma forse no: vedremo.



***

CONCLUSIONI
 

Motto di questa vacanza è stato: FORSE
FORSE partiamo; FORSE andiamo in Francia, no, FORSE in Liguria; FORSE ce la facciamo, ma FORSE no; FORSE abbiamo sbagliato strada, FORSE è questa quella giusta; FORSE troviamo una fontana; FORSE la Chiesa è aperta; FORSE c’è il pullman; FORSE non c’è il treno …; FORSE ci siam PERSIIII!
 

L’incertezza e l’improvvisazione ci è stata sempre compagna e ... ci è piaciuto.
Ma, soprattutto, ci siam riusciti; a modo nostro siamo arrivati dove volevamo. Abbiamo fatto l’itinerario a piedi come ci eravamo prefissi. Abbiamo seguito le orme del Canavesio ... che spesso, però, non si è fatto trovare.



***

P.S. Mercoledì 23 agosto
 

….pensavo che la "Route del Canavesio fosse finita….invece…
 

Dal campeggio di Isolabona (Dolceacqua) prendiamo il pullman per Ventimiglia ed eccoci al mare.
 

Ma … prima di goderci il meritato riposo (eh,eh,eh), dobbiamo passare da Albenga per  ammirare una crocifissione del Canavesio nella loggia comunale in centro città. Bella ma poco visibile perché non ci si può avvicinare. La si deve guardare dall’esterno della recinzione


Crocifissione di Giovanni Canavesio nella Loggia Comunale di Albenga
Comunque Albenga è proprio una bella cittadina con le sue torri, il battistero, le chiese e i campanili.




Ora vogliamo andare in spiaggia, ma come al solito ci perdiamo e giriamo parecchio, prima di osare  a chiedere:  “scusi, da che parte è il mare?”... ci sembrava un po’ stupido …




Finalmente, un bagno! in mare!
Il posto non è granché, c’è un sacco di gente ma la nuotatina è bellissima
Riprendiamo il treno per Loano dove recuperiamo un borsone con ciò che ci serve per proseguire la vacanza. I coniugi Perego, nostri conoscenti, ce lo hanno portato e conservato nella loro casa di vacanza. Grazie!
Facciamo cambio zaino, beviamo un caffè insieme. E poi?
Poi dovremmo andare a Lerici, nostra meta stabilita, ma lì non arriva la ferrovia …. e Marco non se n'era accorto. Per arrivarci dovremmo prendere un treno per Genova, poi uno per La Spezia e  lì  un autobus per Lerici. È  troppo tardi e  decidiamo di fermarci a Sestri Levante, dove sappiamo esserci campeggi.





Sestri Levante
Lerici, meta della nostra vacanza marina, arriveremo domani.
Ma questa è un'altra storia …



Giovanna Villa, agosto 2017




Puoi trovare altri articoli  in questo blog riguardanti Giovanni Canavesio, cliccando sull'etichetta con il suo nome, o direttamente su questo indirizzo: 
http://bartesaghiverderiostoria.blogspot.it/search/label/Giovanni%20Canavesio



LA PRIMAVERA È GIÀ TORNATA di Marco Bartesaghi e Roberto Muzio

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Un breve video con alcune fotografie, senza pretese, scattate a Verderio per salutare la primavera.



LA SCELTA DI ANSELMO BRAMBILLA: STUDIARE LA STORIA PARTENDO DALLA VITA DEI PIÙ DEBOLI di Marco Bartesaghi

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MISSAGLIA 1943 – 1945. Fatti e persone da non dimenticare(1)
È il titolo dell'ultimo libro che Anselmo Brambilla ha dedicato alla storia delle fasi finali del fascismo nel nostro territorio. Lo ha scritto con Ezio Giubilo, come lui ex sindacalista CGIL, presidente dell'ANPI di Missaglia, suo paese di residenza, e dei comuni del Casatese, membro del direttivo provinciale ANPI di Lecco.


Il libro si compone di quattro capitoli.

Il primo, a giudizio di Anselmo il più approfondito e importante perché affronta un fatto fino ad ora abbastanza sconosciuto, è dedicato alla presenza in paese di tre famiglie di ebrei: i Frankel, che deportati ad Auschwitz, furono uccisi all'arrivo al campo, i Meyerhof, di cui non si conosce la sorte dopo la partenza da Missaglia, e gli Stern, che riuscirono a riparare in Svizzera scampando allo sterminio (2).

Il secondo capitolo è dedicato alla guerra.

Nel terzo si affronta il tema della resistenza, con la ricostruzione della nascita di una formazione partigiana a Missaglia, dell'eccidio di Valaperta, del rastrellamento sul San Genesio  e dell'arresto e fucilazione del gerarca fascista Roberto Farinacci (3).

Nell'ultima parte sono trascritte testimonianze su quel periodo raccolte da Ezio Giubilo tra il 2015 e il 2016.

Questo lavoro si aggiunge ad altri che Anselmo, insieme ad Alberto Magni, ha dedicato al tema della Resistenza o, come lui preferisce dire, al periodo finale del fascismo. 







L'esordio, nel 2005, è stato con il libro PARTIGIANI TRA ADDA E BRIANZA. Antifascismo e Resistenza nel Meratese. Storia della 104a Brigata S.A.P. “Citterio” (4).

“Ritengo  - dice Anselmo – che questo libro sia stato per noi  il più importante e utile, perché ci ha consentito di iniziare e approfondire il tema resistenziale con altre  ricerche alcune delle quali svolte anche da altre persone”.











 Nel 2010, 65° anniversario della Liberazione, Anselmo e Alberto hanno  redatto la mappa:  PER NON DIMENTICARE. I luoghi della Resistenza nella Brianza Meratese(5), Una cartina che permette di  rintracciare i luoghi dove alcuni episodi si sono svolti:  Monasterolo,  Rovagnate, Valaperta, ecc. Recandosi in quei posti ci si può meglio rendere conto del contributo che questo territorio ha dato al movimento di Liberazione.

“Secondo alcuni ricercatori , nella fascia che va da  Airuno a Vimercate, la Resistenza è stata quasi inesistente, ma a nostro avviso non è proprio così. Ci sono stati  fatti molto importanti, anche se meno conosciuti di quelli che avvenivano in montagna. Lì si combatteva e si moriva , nessuno nega l'importanza, ma senza i rifornimenti che partivano dalla pianura, senza le azioni di sabotaggio, quelli in montagna avrebbero avuto la vita più dura e magari avrebbero resistito di meno”.

 
I luoghi di Verderio citati nella mappa: PER NON DIMENTICARE. Sopra il cippo che ricorda l'arresto della colonna tedesca da parte dei partigiani, il 28 aprile 1945. Sotto la lapide che ricorda la famiglia Milla, deportata e assassinata ad Auschwitz.




“Anche qui c'è stata  gente– continua Anselmo nel suo racconto - che ci ha lasciato la pelle. Come  Gaetano Casiraghi,  il “Galet”, di Osnago, quello che hanno impiccato per aver tagliato un pezzo di filo di una linea telefonica posata dai nazisti. Sarà stàa onca un po al’lari  quond  l'à taia ul fil , però l’eva mia ul casu de impicàl . L'hanno lasciato lì appeso tre giorni perché tutti vedessero cosa sarebbe successo a quelli che in un modo o nell’altro creavano problemi ai nazisti. Nel punto della strada dove venne impiccato adesso c'è un cippo che lo ricorda”.










Del 2013 è il libro COMANDANTE LAZZARINI. Da capo partigiano ad agente OSS in missione nel lecchese (6).

Giacinto Lazzarini (1912 – 1990) era figlio di un “ardito” della prima guerra mondiale che, con l'avvento del fascismo, era emigrato con la famiglia  in Canada. Sorpreso in questo paese dallo scoppio del secondo conflitto mondiale, Giacinto si arruolò nella Royal Canadian Air Force, dove fu  pilota e  paracadutista. Entrato a far parte del controspionaggio degli Alleati, fu prima inviato in Francia, dove collaborò con la resistenza  di quel paese, e poi in Italia. Qui diede vita, nel Varesotto, a una banda partigiana, la banda “Lazzarini”, in seguito sgominata dai tedeschi.

Successivamente fu paracadutato nella zona di Lecco, ai Piani Resinelli, dove entrò in contatto con la formazione partigiana “Gruppo Rocciatori della Grigna”, guidata dall'alpinista Riccardo Cassin. Compito di Lazzarini, fino alla Liberazione, fu quello di organizzare i lanci di rifornimento alle formazioni partigiane e, insieme al radiotelegrafista “Mummolo”, anch'egli paracadutato ai Resinelli, di mantenere i contatti informativi con le forze alleate.

“Il motivo principale che ci ha spinto a scrivere un libro su questo personaggio, è che grazie a lui fu impedito il bombardamento di Merate. Una storia particolare, la sua: Lazzarini era un monarchico che ha molto partecipato alla lotta partigiana. Per la sua grande amicizia con Luigi Zappa, sindaco di Merate dal 1965 al 1975, la moglie di Lazzarini, anche lei partigiana, ha donato  l'archivio del marito al comune di Merate, che ora lo conserva in una sala a lui dedicata nel Museo Civico locale. Questo  ha facilitato il nostro lavoro, poiché  abbiamo potuto studiare senza problemi i suoi documenti. Nel libro ci  siamo poi allargati facendo la panoramica della lotta partigiana nei territori di Varese e  Lecco”. 


Anselmo ha sempre dedicato un po’ di spazio  al tema  Resistenza  anche nei libri che ha scritto su alcuni paesi della Brianza, come quello su Calco, il primo, o  quello su Rovagnate. 
***

Anselmo Brambilla
È ora di dare inizio all'intervista vera e propria, fatta di domande e risposte, ad Anselmo Brambilla. Rinvio ancora per un po' la sua presentazione, salvo dire, anche se lo si è già capito, che è uno che si occupa di ricerca storica.

Marco (M) -  Come mai hai indirizzato il tuo interesse verso la storia della Resistenza nel nostro territorio e si può dire che questo sia il tuo settore privilegiato di ricerca?

Anselmo (A)    - L’ho già accennato prima. Mi sembrava che i fatti resistenziali di questa zona, che ci sono stati e hanno avuto anche una certa rilevanza, non venissero sufficientemente presi in considerazione, valorizzati. Allora mi è venuta voglia di chiarire un po’ questo panorama .

È lo stesso motivo che mi ha spinto a fare la ricerca sui lavoratori. Si dava per scontato che questa fosse stata una zona tranquilla senza lotte operaie. Invece, all'inizio del novecento, c’erano state le lotte delle filandiere: Verderio, Sabbione; Brivio , ecc , quelle dei  muratori di Missaglia e Casatenovo. Il loro sciopero per ottenere migliori condizioni di lavoro e aumenti salariali  durò circa  tre mesi  e, malgrado la loro determinazione, persero. C’è sempre stata anche qui la voglia di lottare per tentare di cambiare le cose, malgrado la cappa oscurantista della pressione religiosa  fosse più forte e soffocante che in altre parti della Lombardia. La Brianza orientale e la Bergamasca occidentale erano, a mio avviso, le zone più bigotte d’Italia.

La Resistenza è il mio settore privilegiato di ricerca? Sì, o meglio lo è stato, perché credo che ormai il filone si sia  esaurito.


(M) - Quali sono le fonti a cui avete attinto per ricostruire i fatti della resistenza del nostro territorio?
(A)- Il Fondo Lazzarini, presso il museo civico di Merate, al quale abbiamo fatto riferimento per la ricerca su di lui. È stato un uomo che ha aiutato tutte le formazioni partigiane presenti sul territorio senza distinzione, come purtroppo succedeva, di orientamento politico. Per tutto il periodo della lotta partigiana nella distribuzione degli aiuti alleati ha mantenuto fede al motto: non mi interessa se il gatto è bianco o nero, l’importante è che prenda i topi. Dopo la guerra ha assunto invece posizioni decisamente anticomuniste: mi piacerebbe sapere come si è orientato nelle vicende della Repubblica.

Un’altra  fonte che abbiamo utilizzato, molto ricca di documentazione, è il fondo prefettura, primo e secondo versamento, dell’Archivio di Stato di Como.
Poi abbiamo esplorato gli Archivi di Stato di Varese e  Bergamo; l’Istituto di Storia Contemporanea Pier Amato Perretta di Como, che era nato come Istituto Comasco per la Storia del Movimento di Liberazione; il ricco archivio del Partito Comunista di Vimercate, che ora è conservato presso l’Inslmi (Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia ) di Sesto San Giovanni, che ha sede nell’ex stabilimento Breda. Infine i documenti privati ottenuti da famiglie di partigiani e di ex repubblichini.

 

(M) – Bisogna sapersi destreggiare fra varie fonti …
(A) -
La ricerca storica, a mio avviso, è un confronto continuo e mai esaustivo fra vari documenti, fra varie fonti. Sullo  stesso fatto puoi trovare diversi documenti,  magari uno in contrasto con l’altro. Intanto sai che il fatto è avvenuto, poi devi cercare di capire come è avvenuto, barcamenandoti fra le diverse versioni a volte contrastanti fra di loro.
 

Un fatto avvenuto: la rapina compiuta  da alcuni partigiani della 104° Brigata alla Cassa di Risparmio di Oggiono. Bottino 6 milioni di lire, che nel 1945 erano bei soldi. 

Motivo dichiarato: finanziare il movimento partigiano.

Conosciamo il nome degli autori, perché le Brigate Nere subito dopo la rapina li hanno inseguiti e alla fine li hanno presi. In un  primo tempo erano riusciti a scappare, liberandosi, nella zona di Montevecchia,  di alcuni sacchi di denaro, che gli inseguitori si erano fermati a raccogliere. Poi, con una certa leggerezza, avevano deciso di nascondersi parcheggiando macchina usata per la rapina in un cortile, non ricordo bene se a Robbiate o Paderno. In tal modo le Brigate Nere riuscirono a riconoscere l’auto e a risalire al proprietario. Così li beccano tutti e li portano in galera a Como. Fortunatamente per loro in carcere restano poco, solo il tempo di prendere qualche legnata,  perché alla fine di aprile c'è la Liberazione. 

Su questo fatto le versioni sono contrastanti: il comando della Brigata Partigiana locale di Oggiono  ha  sempre negato che la rapina avesse avuto lo scopo di finanziare i partigiani. Alcuni dicono che la cattura del gruppo fu dovuto alla soffiata di uno che voleva avere una parte del malloppo, ecc..  La refurtiva recuperata dalle BBNN fu riconsegnata alla banca, ma solo in parte: pare che alla fine della guerra qualcuno degli inseguiti ma, anche degli inseguitori, sia diventato molto ricco. Qualcosa gli sarà rimasto attaccato alle mani? Qualche dubbio o zona d’ombra rimane.


(M) – Le fonti orali, ovvero le testimonianze di chi ha vissuto gli avvenimenti: le hai utilizzate?
 (A) -
Sì, certo e sono molto importanti.  Però  si deve sempre confrontare il fatto che ti è stato raccontato con i documenti che lo riguardano direttamente o indirettamente  o che, almeno, si riferiscono al contesto in cui il fatto si è svolto. Se i documenti non ci sono, devi specificare che stai facendo riferimento ad una fonte orale, da prendere per  buona con molta prudenza.
Ho intervistato anche molti repubblichini. Mi hanno raccontato la loro storia, ad esempio, una comandante delle ausiliarie e  un tenente colonnello della Brigate Nere. Qualcuno degli intervistati  era irriducibile, diceva che ci voleva ancora Mussolini e cose di questo genere.
Altri invece mi dicevano:
“io mi sono arruolato nella Repubblica di Salò quando avevo 18 anni, sono venuto  su in un mondo in cui sentivo il fascista parlare, sentivo il prete parlare, poi tornavo a casa e facevo il contadino. Quando mi hanno parlato dell’amore verso la Patria tradita   cosa potevo scegliere? Certo sono stati bravi quelli che hanno avuto la capacità di scegliere bene. Però qualche attenuante ce l’avrò anch’io. Dopo ho capito di aver fatto una scelta sbagliata, ma dopo è facile per tutti capire se hai sbagliato”.
Era un modo di ragionare abbastanza condivisibile. Magari io non capisco la tua scelta però capisco anche che è difficile, in quelle condizioni, farne un’altra.

 

(M)  - Ricordo di aver letto che Nuto Revelli aveva detto che se il 26 luglio lo avessero picchiato o gli avessero sputato, forse si sarebbe trovato dalla parte “sbagliata”, dalla parte dei fascisti, quelli che sembravano essere le vittime del momento (7).
(A) - Sono stato anche all’Associazione Reduci della Repubblica di Salò, a Milano.  All’inizio, mi  hanno guardato un po’ male. Però gliel’ho detto subito:“ io sono uno con  idee di sinistra,  ma non sono venuto da voi per giudicarvi ,  sono qui solo e unicamente per cercare notizie”. 
 

(M) - Che idea ti sei fatto degli uomini e delle donne che hanno partecipato al movimento di Liberazione, se si può avere un’idea in generale?
(A) –
Per quanto riguarda la Brianza, cioè il mondo contadino, l’idea è che molti erano indifferenti rispetto al cambiamento che sarebbe avvenuto dopo, o, se non proprio indifferenti, inconsapevoli.
Parlare di libertà a persone che la libertà non sapevano neanche cosa fosse è come parlare del diritto di leggere a un analfabeta. Però tutti, o almeno la stragrande maggioranza , erano stufi dell’arroganza, della cattiveria, della brutalità del fascismo della Repubblica Sociale e dell’occupante tedesco.
Ti racconto un episodio avvenuto a Rovagnate: due persone stanno vangando in un campo, adiacente alla strada uno si mette a ridere. Due fascisti che in quel momento passano in  bicicletta, pensano stia ridendo di loro; lo prendono gli danno una manica di botte e lo mandano all’ospedale tutto sciancato.
A mio avviso però la consapevolezza della società che bisognava costruire dopo la cacciata dei nazi/fascisti era di pochi, praticamente solo di quelli che tiravano le fila del movimento partigiano.
 


Don Riccardo Corti, parroco di Giovenzana, frazione di Colle Brianza

Perché ti dico questo? Perché la resistenza nelle nostre zone era stata stimolata da persone (specialmente operai delle grandi fabbriche) che venivano da Milano, Monza, ecc , e avevano una consapevolezza più marcata di quella che trovavano qua. Qui ogni contadino era un po’ un mondo a sé, non c’era grande scambio di opinioni e quindi le idee erano piuttosto chiuse.
In fabbrica invece c’era maggior consapevolezza sul fatto che  il mondo desiderato non era quello esistente e quindi bisognava lottare per finirla con il fascismo per poter costruire la società desiderata. Società futura che non tutti vedevano allo stesso modo: alcuni avevano l’obiettivo di costruire una democrazia, altri volevano una società socialista come in Unione Sovietica. 
Tutti però erano convinti che con il fascismo bisognava finirla. Tutti, cominciando molte volte dai preti, che, anche se non sempre  in modo esplicito come il don Corti a Giovenzana o don Bolis, di Calolzio
(8), erano stufi del fascismo che era diventato estremamente violento e brutale. Sul cosa costruire dopo, molti non ci pensavano neanche
.


(M) - C’è qualche personaggio che ti ha particolarmente colpito positivamente?
(A) –
Non so, forse perché sono piuttosto restio a personalizzare, sono più portato a vedere le cose in modo collettivo.  La presenza nei distaccamenti dei vari paesi di Comandanti e Partigiani che   si comportarono valorosamente e pagarono con la vita le loro scelte era molto numerosa, però al momento non saprei dirti che una serie di nomi senza indicarne uno in particolare.


(M) - Qualcuno che per  come ha agito ti è particolarmente simpatico?
(A) -
Mi prendi un po’ in contropiede … apprezzo molte persone.  Una è  Renato Andreoli, il comandante della 104 Brigata Garibaldina “Citterio” , quello che con altri quattro ha preso Farinacci. Lui era una persona che mi  piaceva sentire parlare, perché non era di quelli che “mi o fa, mi so nà, l’ ó ciapà, ó fa chi , ó fa la”
Non dava l’impressione di voler dire  che era “lui” che aveva fatto, ma che “anche” lui aveva dato il suo contributo. Mi piaceva, mi era congeniale. Quando gli parlavi, adesso è morto, riuscivi a capire non solo il fatto d’armi, anche quello che ci stava dietro. Per lui  la resistenza era  stata importante perché aveva fatto  incontrare e parlare liberamente persone fra loro diverse, persone che non  dicevano sempre di sì. Questa secondo lui era stata la Resistenza.


(M) – E personaggi negativi, sempre in campo antifascista?
(A)  -È difficile citarne uno, ce ne sono stati tanti. Uno è stato un tale di Brivio … detto “il Rosso”. Dalle solite fonti che si definiscono anonime pare sia diventato partigiano per ammazzare ( o far ammazzare) un po’ di persone, con cui aveva dei conti in sospeso. Lo chiamavano il rosso, perché si diceva comunista, ma probabilmente non sapeva neanche cosa volesse dire essere comunista. A detta di quelli che me ne hanno parlato era un tipo estremamente pericoloso .

(M) - L’hai conosciuto?

(A)  -Sì, anni fa, era uno che tirava fuori le frasi perché le aveva sentite dire, ma senza ragionare su quello che stava dicendo. 

Persone negative ne ho conosciute parecchie, come quelli che avevano fatto tutto loro; quelli che in due  ne avevano circondati 26. Ma anche questo fa parte, purtroppo, del contesto storico di quel drammatico periodo.

Un altro da me conosciuto anni fa, di professione trasportatore, si era messo in combutta con tale “Nibal”, un fascista maresciallo delle Brigate Nere di Merate, quello che ha partecipato all’incendio della frazione di Vallaperta. “Nibal” pare rubasse gomme per autocarri e altri pezzi di ricambio ai fascisti, e le consegnasse  al suo socio da nascondere.

L’accordo era che, finita la guerra, il socio avrebbe nascosto “Nibal” finché non fosse passata la buriana, poi si sarebbero spartiti il malloppo. Invece dicono le voci, tante voci (se sùna la campanela va bé, ma se sùna ul campanùn …), finita la guerra il “socio” l’ha denunciato. I partigiani hanno preso Nibal e l'hanno giustiziato in modo atroce: legandolo dietro ad un autocarro  e trascinandolo sulla strada fino alla morte.


(M) – Le ombre nella storia della Resistenza sono innegabili. C’è chi su queste ombre ci ha marciato e ci marcia, chi le usa per denigrare tutto il movimento partigiano e chi trae la conclusione che fascismo e antifascismo siano uguali. Tu cosa ne pensi?

(A) - Le zone d’ombra fanno parte di ogni azione umana, perché è l’uomo che è in ombra. Nei momenti tragici si accentuano le zone d’ombra in alcune persone  e quelle di luce in altre. Con  tutte gli spropositi che si possono raccontare della Resistenza, non si può negare che essa sia stata un momento di luce in un buio panorama di violenza e repressione nazi/fascista. Pensare che senza di essa l’Italia sarebbe stata migliore è  follia allo stato puro.

Denigrare la Resistenza è un esercizio molto facile. Come quando si legge il Libro Nero del Vaticano o quello del Comunismo: se vai a cercare la parte brutta la trovi sempre. Bisogna vedere però, nel contesto anche le parti belle, le parti generose. Quelli che hanno combattuto in montagna, rischiando e lasciandoci la pelle,e  quelli che qui in pianura la rischiavano  andando a fare un sabotaggio o producendo un manifesto contro i fascisti.

La Resistenza è stato un fatto importante, con zone di luce e con zone di ombra. Ma  c'è un dato di fatto fondamentale, che ci dovrebbe mettere tutti d’accordo: se fascisti e nazisti non fossero stati cacciati e non fosse  nata  la democrazia probabilmente questo blog non avrebbe avuto la possibilità di esistere. 


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***




Termina qui il lungo capitolo dedicato alle ricerche di Anselmo su fascismo e  Resistenza.
Adesso, finalmente, ve lo presento.
 

Anselmo Luigi Brambilla –“perché dai nonni invece  di ereditare soldi ho ereditato i nomi, Anselmo da quello paterno, Luigi dal nonno materno” – è nato a Olgiate Calco, allora i due comuni erano uniti, il 26 settembre 1938. Sposato da 54 anni,  ha tre figlie e cinque nipoti.
 

Il padre era  Giorgio, la mamma Carlotta Maria Lilleri.
“Lilleri è un cognome dell’ospedale, come si diceva una volta, perché mio nonno, era un trovatello che veniva dagli esposti di Milano. Pare che chi lo trascrisse fosse un toscano che tirò fuori un detto “senza lilleri non se lallera” (senza soldi non si fa niente). Allora decisero di mettergli il cognome Lilleri per portargli un po’ di fortuna”


(M) - Quindi il cognome di tua mamma vuol dire soldi?”
(A)  -
“G’avarà avú la furtuna, ma dané no”, diceva sempre mia mamma. Lei era di Cagliano, una frazione  di Campsirago;  il papà del Bosco, frazione di Santa Maria Hoè. Venivano “dalla montagna”, perché quelle colline allora erano considerate  montagna.

Eravamo una famiglia contadina piuttosto indigente, affittuari dei conti Gola, proprietari di vasti terreni. Io sono nato alla Brughiera (Olgiate Molgora), una collinosa frazione posta su un ripiano sopra Beolco, dove il conte, essendosi liberati dei terreni, aveva trasferito i miei. Praticamente come i servi della gleba. 








Eravamo sette fratelli: siamo rimasti due fratelli e una sorella. Ho fatto la quinta elementare, poi, siccome la mia famiglia era molto povera, ho dovuto cercare un posto di lavoro, come era normale per tutte le famiglie in quel periodo. Ho cominciato a lavorare a 13 anni: a quei tempi ai poveri non davano qualcosa per essere meno poveri, ma gli permettevano di andare a lavorare un anno prima del limite legale che era stabilito a 14 anni. Sono andato a lavorare in una fornace situata nei pressi  della frazione Bagaggera “
 

(M) –  Fornace del parco del Curone?
 (A) - Sì, ma non nella frazione Fornace, dove c’è l’osteria. In basso, dove c’è una grande costruzione che sembra un incannatoio,  una filanda, appena dopo la cascina Bagaggera . La fornace apparteneva alla famiglia ….. Se l’inferno esiste penso che loro siano lì; se non c’è alura la ghé ‘nada bé. Perché come comportamento verso i dipendenti erano dei cani, anche se così dicendo rischio di  offendere i cani.
 

(M) – Perché? erano tutte così le fornaci o solo loro  la gestivano così?
(A) -Il tempo era quello che era. Nessun rispetto per le persone: parolacce, pedate , schiaffoni ecc. Incominciando dal padrone che dava dell’asino a tutti.

(M) - Non solo ai ragazzini?

(A) -No, a tutti, anche agli uomini, che poi  si scaricavano sui giovani. Era un  brutto ambiente, nessuna  attenzione per la persona. A volte gli anziani ti rubavano anche quel poco mangiare che portavi da casa. Producevamo mattoni, forati, tegole, e altri manufatti per l’edilizia . Una macchina impastatrice di argilla, palta crea, attraverso una serie di stampi produceva tutto il materiale che a seconda delle necessità dell’industria edile veniva richiesto.

(M) - E poi infornavate?
(A) - Quelli che infornavano dovevano entrare nel forno, che non si spegneva mai, con la cariola sulla quale avevano posto i blocchi freschi di argilla stampati appena usciti dalla stampatrice: toglievano quelli cotti e  posizionavano gli altri. D’estate ancora  te la cavavi  ma d’inverno, con il passaggio fra l’esterno freddo e l’interno caldo,  erano polmoniti su polmoniti. Così si stava assenti e si veniva quasi sempre licenziati.

Non è una storia da medioevo, siamo nel dopoguerra, anni cinquanta . Ci sono stato un anno, poi i miei mi hanno tolto, perché c’è un limite a tutto. Anche gli uomini anziani venivano trattati male. E nessuno, o pochi reagivano, perché il bisogno di lavorare per mantenere la famiglia era notevole.

Una volta un operaio, esasperato dagli insulti, ha reagito picchiando il badile  in testa al padrone. Fortuna che glielo ha dato di piatto e  quello ha fatto qualche giorno di ospedale. Se glielo avesse dato di costa l'avrebbe diviso in due. Ovviamente l’operaio oltre ad essere licenziato è stato anche denunciato per tentato omicidio. Non so poi come sia  andata a finire. Per dirti l’esasperazione a cosa può portare.
Questo succedeva nella Brianza degli anni cinquanta. Una situazione che ho vissuto, non me l’hanno raccontata.
Dopo la traumatica esperienza della fornace ho trovato lavoro in una piccola officina di Merate, dove a pescià in del cú ho, più o meno, imparato  un lavoro.  

Dopo un certo tempo, questa volta per mia scelta, me ne sono andato in cerca di qualcosa di meglio in quanto a salario. Non sto qui a raccontarti tutto perché diventerebbe lunga la storia. Nel giro di una decina d’anni ho cambiato 10 o 11 posti di lavoro.

Anselmo, a destra, operaio presso la GBF di Bresso

(M) - Eri flessibile,  moderno …
(A) -Sì, la flessibilità l’ho inventata io. Visto che generalmente trovavo posti in piccole officine artigiane, con il padrone sempre presente  non mi trovavo quasi mai bene con nessuno. Inoltre madre natura mi aveva dotato di un carattere un po’ ribelle, non ero tanto facile da gestire.

(M) - Stiamo parlando degli anni cinquanta, giusto?

(A) -Dal 1951 al '64 - '65 come già detto ho cambiato vari posti di lavoro sempre aziende piccole con al massimo 8 o 10 dipendenti e sempre nel settore metalmeccanico. Allora ci chiamavano feré: costruivamo cancelli, balconate, serramenti ecc, cose di questo tipo, alcune anche belle, artistiche. Ad un certo momento mi sono anche appassionato a quello che producevo. Poi sono guarito dalla passione.

L’ultima piccola ditta in cui ho lavorato era in provincia di Bergamo, a Cisano Bergamasco. Produceva stampi per i mattoni e i forati. Erano lavorazioni di precisione. In questa ditta ho imparato a lavorare bene. Anche per costruire i cancelli dovevi lavorare bene, ma la precisione lì era diversa. Questa è stata l'ultima azienda piccola dove ho lavorato. La cicatrice che porto sulla guancia destra è stata un po’ la buona uscita.


(M) - Finita l’esperienza nelle piccole aziende ...?


(A) –Per un certo periodo non mi ricordo se tre o quattro  anni ho lavorato alla GBF di Bresso. Una fabbrica di 300 – 400 dipendenti che produceva presse a fusione. La fabbrica era interessante ma il viaggio per arrivarci faticoso. Scendevo dal treno alla stazione di Sesto San Giovanni  poi prendevo la bicicletta e mezzo insonnolito pedalavo verso la fabbrica.

Poi grazie alla raccomandazione di un compagno comunista -  sembra strano, de sòlet hin i prèt che racumòndèn , no?– sono entrato alla Breda Fucine di Sesto San Giovanni. La Breda era nata come una unica grande fabbrica, poi era stata divisa in sezioni, una delle quali era la Breda Fucine dove lavoravo. Si lavorava per la “pace”, quella eterna però: facevamo  canne dei cannoni,  ogive per missili, pezzi di carro armato, e altre amenità del genere.


 
Assemblea sindacale alla Breda Fucine

 
(M) - Per l’esportazione o per l’Italia?
(A) - Per ‘esportazione, soprattutto verso gli Stati Uniti, ma successivamente, con l’ampliamento del mercato,  anche verso altre destinazioni. Producevamo per la Otto Melara di La Spezia che era la capo commessa e che assemblava quanto era da noi prodotto. 
In seguito, grazie a  una lotta interna del Consiglio di Fabbrica, ci siamo indirizzati sul settore petrolifero:  attraverso l’ENI, lavoravamo per i paesi Arabi. La Breda Fucine faceva parte dell’EFIM (9), eravamo un’azienda a partecipazione statale, una di quelle che hanno prodotto un buco che non si è ancora riusciti a riempire.


(M) Quando è iniziata la tua attività sindacale?
(A) -Alla Breda Fucine la presenza sindacale era molto forte e attiva. Questo mi stimolò ad aderire al sindacato anche se in posizione molto critica e a presentarmi alle elezioni del Consiglio di Fabbrica, CDF (10), come rappresentante della manutenzione.  Eletto sono entrato a far parte del Consiglio di Fabbrica  dove ho trascorso  un certo periodo di intensa attività. Ma il lavoro sindacale di fabbrica non mi era molto congeniale.

 
Manifestazione degli operai della Breda Fucine. Anselmo è a destra con camicia a quadri e mani in tasca

Durante la permanenza nel CDF avevo conosciuto l’Associazione Italia – Nicaragua di Milano organizzata da  Luisa Morgantini della FIM-CISL e Angela Mazzini della FIOM-CGIL del sindacato provinciale di Milano. Con il via libera del CDF partecipai all’organizzazione di un progetto per l’installazione a Managua di una officina meccanica per la riparazione di veicoli pubblici: autobus, camion, ecc.
Per l'avviamento dell'officina era stato previsto l'invio dall'Italia di una squadra di tecnici, per un periodo di circa tre mesi. Feci parte del gruppo  e successivamente mi occupai di altri progetti che mi portarono in questo paese per altri tre mesi . Ciò mi consentì  di apprendere lo spagnolo, che mi darà modo di essere chiamato alla FIOM-CGIL Regionale della Lombardia per gestire alcuni progetti con il Cile.

Alla fine divenni, 
per la FIOM Lombardia, responsabile dell’ufficio internazionale.



In Nicaragua

(M) Che incarico avevi, di preciso?
(A) – Il mio lavoro si concentrava soprattutto sull'America Latina. Però, avendo l’incarico di responsabile dell’ufficio internazionale della FIOM regionale, ed essendo  in rapporto diretto con l’ufficio internazionale della FIOM nazionale, ogni tanto sostituivo il responsabile della FIOM nazionale quando questi aveva altri impegni. Sono stato in Russia, in Slovenia, in Bulgaria: praticamente in tutti i paesi dell'Est Europa.
In seguito mi sono occupato delle problematiche relative alle multinazionali, che in quel periodo si stavano espandendo nel mondo. Ad esempio della FIAT che andava ad impiantare una fabbrica a Belorizonte in Brasile o a Cordova in Argentina. Ci incontravamo con il sindacato brasiliano o argentino e con le rappresentanze sindacali interne per capire se potevamo creare un interesse di lotta  comune.

Partecipavo a Congressi e incontri ufficiali con altri paesi: Brasile, Cuba, Germania Est, Polonia, Russia e altri. Ho partecipato a  due Forum Sociali Mondiali di Porto Allegre in Brasile e altro. Alcune malelingue dicevano che il mio lavoro era da ritenersi  turismo sindacale …
Mi sono occupato della formazione di sindacalisti cileni.

 
Incontro a Bruxelles della Federazione Europea dei Metalmeccanici (FEM)

 

(M) - Durante il regime di Pinochet?

(A) -Sì, era una situazione abbastanza complicata. Qualcuno di noi quando è arrivato in Cile  è stato rimesso sull’aereo e rispedito a casa come persona non gradita.

In Argentina nel 1990 mi sono trovato in mezzo a un tentativo di golpe dei “carapintadas” contro il presidente Menem. Sono stato messo su un aereo e portato, per garantire la mia sicurezza, in  Patagonia. Mi hanno rassicurato con queste semplici parole: “quando tutto sarà finito potrai tornare”. Allegria
(11).


Santiago de Cile, quartiere La Victoria, 1989
 
(M) -  Per quanto tempo hai svolto questa attività?
(A) –Per circa 25 anni, almeno 18 dei quali come collaboratore della FIOM Regionale Lombardia. Nel periodo in questione l’Europa aveva fissato le quote nazionali della produzione di acciaio e quindi, alla Breda, sono cominciati i prepensionamenti. Dovevano riguardare i fonditori: così, in un attimo, siamo diventati quasi tutti fonditori: da 300 siamo passati a 1500. Se avevamo 50 anni di età potevamo andare in pensione anche con 10 anni di abbuono.

(M) - E quindi sei andato in pensione ...

(A) –Sì, però ho continuato a lavorare al sindacato, con le stesse mansioni, ma in qualità di  collaboratore. Sempre come responsabile dell’ufficio Internazionale.


***


(M) - Arrivato alla pensione hai cominciato a occuparti di storia …
(A) -Anche prima di andare in pensione. La storia mi è sempre piaciuta, ma quella della gente, non la grande storia. Ad esempio le mie ricerche sulla storia della Brianza, sono sempre partite dalle condizione di vita dei suoi abitanti, dei contadini, di quelli che  non contavano niente, i parìa. Alle Cinque Giornate di Milano non hanno partecipato i contadini: a loro non interessava chi fosse il padrone del campo, interessava chi ghé dàva de maià.

Raccoglievo anche le storie che mi raccontava mia mamma: lei era  semianalfabeta ma conosceva tante cose. Ho trascritto i detti, i proverbi, come si viveva, com'erano i rapporti  con i padroni. Da sempre. Arrivato alla pensione ho pensato che fosse giunto il momento di mettere insieme un po’ tutti questi frammenti.  Mi sono appassionato alla storia dei contadini e degli operai della Brianza alla fine della Grande Guerra: i fanti traditi, a cui avevano promesso  la terra e invece gli hanno dato solo quella sotto la quale  sono stati sepolti. Il biennio rosso, le lotte operaie …


(M) - Il fascismo ...

(A) -No, perché ne parlavano già tutti, però ho voluto andare a vedere come è finito: mi sono appassionato alla storia della caduta del fascismo e dell’avvento della Repubblica. Volevo capire come erano cambiate le condizioni di vita delle persone.. E anche dove non erano cambiate le condizioni di vita. I diritti, ad esempio, anche dopo la Liberazione si erano fermati ai cancelli delle fabbriche: la fabbrica non era né libera, né democratica. Fino al sessantotto. Solo allora si è cominciato a dire che i diritti conquistati con la resistenza non dovevano essere solo diritti dei cittadini,  ma anche dei lavoratori.
 

(M) -  Quali motivazioni ti hanno spinto a occupati di ricerca storica, solo la curiosità o c’è stato qualcosa d’altro?
(A) -  La curiosità è la base di tutto, senza quella non si fa niente. Però c'è dell'altro. Da piccolo, avrei voluto studiare e avevo avuto giudizi positivi da parte degli insegnanti delle elementari . Per la ricerca che ho fatto su di me, su mio padre e su mia madre, tra gli altri ho visitato gli archivi scolastici di molti paesi.

Ho trovato i giudizi che mi riguardano: un insegnante diceva che avevo una buona memoria e una buona intelligenza e  consigliava di farmi studiare. I miei però, per motivi che io in quel momento non capivo e che mi avevano fatto incazzare, non avevano potuto farmi continuare la scuola. Solo dopo ho realizzato che i genitori non si possono suicidare per farti studiare. Però la rabbia, che ora non rivolgo più a loro, mi è rimasta dentro, e penso che me ne libererò solo dopo morto.  Ecco qual è stata  la molla che mi ha fatto interessare alla storia: capire perché i contadini e la gente di un certo tipo non potevano fare quello che facevano gli altri.


(M) - Quindi la tua passione per lo studio è un recupero di qualcosa che non hai potuto fare quando sarebbe stato il suo tempo?

(A) - La prima volta che sono stato all'Archivio di Stato di Milano, mi hanno chiesto “ma lei che laurea ha?”  Non ho nessuna laurea, ho risposto, però è stata una martellata. O quel direttore di un piccola azienda dove lavoravo che mi diceva: “Voi sarete sempre dei numeri e non conterete mai niente …”.



(M) - Da cosa hai cominciato le tue ricerche?
(A) - Il primo approccio è stato quello di conoscere la storia della mia famiglia, quindi ho cominciato ha costruire il mio albero genealogico. Volevo andare indietro per vedere se c’era qualcosa o qualcuno che aveva provocato la situazione difficile per la mia famiglia, la sua povertà, la sua incapacità di avere risorse sufficienti per vivere decentemente rispetto ai tempi in cui vivevano.

Visto che erano contadini affittuari e come tali si spostavano frequentemente ho dovuto visitare gli archivi di molte parrocchie della Brianza per ricostruire fino al 1689 la loro grama vita trovando solo poveracci che a malapena riuscivano a sopravvivere.

(M) - Dalla parte di tuo papà?

(A) - Sì, ma anche dalla parte della mamma, dove sono arrivato fino al mio bisnonno adottivo, perché mio nonno, come ti ho detto, era un trovatello. Nell’Archivio dell’Istituto di Milano che lo aveva, suo malgrado, ospitato, ho saputo che è rimasto fino a 6 anni in una famiglia che lo trattava male e quindi l’hanno mandato in un’altra famiglia.

So tutto di tutti: ho tutti i nomi, i nomi di chi hanno sposato, i figli che hanno avuto, quelli che sono morti in giovane età. Gente che non firmava o firmava con la croce e il prete che scriveva “la sposa ha firmato con la croce in quanto illetterata” e lì altra rabbia.

Quando sono morti due gemelli a una mia bisnonna,  che ha avuto 12 o 14 figli, il prete ha scritto: “morti per scarsa vitalità”. È  come se di uno che muore di fame si scrivesse “morto perché non ha ingerito il cibo”.  Per la mia nonna materna, morta a 37 anni lasciando mia mamma di tre anni, il prete di Rovagnate scriveva "morta per un colpo, non ha avuto modo di ricevere i Santi Sacramenti”: se l'è morta d'un cùlp, ma l'à fava a visàt prima?


(M) - Tu sorridi sorridi ma sei uno che si incazza …

(A) - Sorrido perché prendo tutto con ironia, ma certe cose mi fanno incazzare ancora.

(M) – Per questa ricerca sulla tua famiglia non è prevista una pubblicazione?

(A) -Non so, per adesso me la sono tenuta per me.  
Dopo quella della mia famiglia ho fatto una ricerca su quella di mia moglie: per lei sono andato indietro fino al 1630.

(M) - Anche lei di Calco?
(A) –No, loro venivano da Ravellino, Colle Brianza,  che un tempo si chiamava Tegnone. Siccome tutti prendevano in giro i suoi abitanti - “l’è ‘n tegnòn chèl lì: el màza i pùles e el te via la pel per fò i scarp” -  hanno chiesto di cambiare nome. Ci hanno messo 100 anni e alla fine  ci sono riusciti:Tegnone è diventato Ravellino.
 
Mia moglie è una Ripamonti, la sua era una famiglia di contadini benestanti. Erano intraprendenti, facevano i contadini ma anche altri lavori. Sono rimasti a Tegnone per trecento anni: possedevano le terre che lavoravano e quindi non si spostavano tanto facilmente. Poi, nel 1783, in 19 sono scesi “cùn la piena de la Molgura”  a Calco, perché da un loro parente morto avevano avuto un' ingente eredità.

Nella stessa linea genealogica di mia moglie dovrebbe trovarsi Giuseppe Ripamonti, sacerdote, dottore della Biblioteca Ambrosiana, storico e letterato. Alla sua cronaca  della peste del 1630 si è ispirato Alessandro Manzoni per i  Promessi Sposi. 

Giuseppe Ripamonti, dottore della Biblioteca Ambrosiana



(M) – Dopo esserti occupato della tua famiglia a cosa ti sei dedicato?
(A) –Il comune di Calco – il sindaco era Enrico Magni, leghista – e il Circolo Borghi mi hanno proposto di fare un libro sul paese:Calco, un paese che si racconta(12). È un lavoro che ho realizzato insieme a Claudio Ponzoni. Abbiamo ricostruito la storia delle due chiese , la parrocchiale di San Vigilio di Calco, e quella  di San Colombano e Gottardo di Arlate. 

Partendo dalle delibere del comune, ovviamente quelle più significative, abbiamo poi  ricostruito 100 anni di vita calchese. Al posto di un solo libro, alla fine  ne abbiamo fatti due, uno più piccolo, riassuntivo, e uno più corposo con anche le ricette, le tradizioni le poesie, le filastrocche, i detti , i diondul. Insomma tutto quanto attiene al paese  e alle zone limitrofe, perché non è che finito “ul  cùnfin de Calch de lò  parlen tudesc”.


(M)  È stato il tuo primo libro. Come ti sei organizzato? Qualcuno ti ha indirizzato?

(A) - Veramente io, su queste cose, tendo ad essere un po’ individualista. Voglio dire che quando ho un’idea la devo sviluppare come piace a me, giusta o sbagliata che sia. Quando  mi è stato proposto di fare il libro  avevo già un sacco di notizie annotate, non è che mi sono messo a cercarle apposta. Ho approfondito quelle che già avevo, potendo accedere liberamente all’archivio del comune e a quello della parrocchia,  e ho cercato notizie sui caduti in guerra, che ancora non avevo. Però la struttura del libro me la sono inventata, e visto che è stato considerato un bel lavoro vuol dire che è stata indovinata, magari per caso.
 

(M) Come vi siete divisi il lavoro, tu e Claudio Ponzoni?
(A) – Lui  è molto più orientato di me sui santi e sulle questioni religiose  quindi si è occupato della parte che riguarda i santi e le madonne.. Io invece della parte civile e di quella riguardante la struttura delle chiese, la storia della loro costruzione.








(M) - Hai collaborato anche a un libro del decanato di Brivio …
(A) - Sì,Fides per millenium(13)  Ho curato il capitolo dedicato alla chiesa parrocchiale di San Vigilio, dove sono presentate anche la chiesetta di San Rocco Cereina e l'oratorio di Sant'Ambrogio in Ronco.

Su quest'ultimo, che di recente è stata acquistato, insieme a tutta la collina, da un nuovo proprietario, mi piacerebbe fare una pubblicazione. È stato ristrutturato nel 1513 perciò come minimo è del 1450, ma non ci sono documenti . Ho ricostruito la storia delle varie proprietà e cercato di capire perché c’è quella chiesetta, lì in un bosco.




(M) -  Altri tuoi lavori?
(A) –Ho collaborato al libro:“Per migliorare la vita dei lavoratori. La Camera del Lavoro di Lecco dalla sua fondazione al 1922” (14), scritto in occasione del centesimo anniversario della fondazione della Camera del Lavoro di Lecco e curato il libro: 50° Se cinquant'anni vi sembran pochiche il CAI di Calco ha pubblicato in occasione del cinquantesimo anniversario della  fondazione della sezione (15).

Ho raccolto un sacco di interviste, senza sapere cosa ne avrei potuto fare in seguito. Mi piaceva parlare con tutti quelli che a mio parere avevano da dirmi qualcosa di interessante:  partigiani, fascisti, militari internati,  donne che avevano lavorato in filanda. Avendo cominciato 40 anni fa, c’erano molte più persone che potevano testimoniare in prima persona. Io scrivevo tutto.

Ho intervistato, a Cisano Bergamasco, un reduce della Russia; poi un tale Mosca che era stato un informatore degli alleati. Ho intervistato l’autista del secondo camion dell’imboscata di Rovagnate. Il suo capitolo si potrebbe intitolare “Partigiano per caso” : si è trovato lì a guidare questo camion, ha rischiato la pelle poi se ne è tornato a casa e più nessuno si è ricordato di lui.

Ho  una raccolta di modi di dire brianzoli in senso lato, perché si parla sempre di un’area non ben definita. Per esempio quelli che usano la “O”, cioè la striscia che va da Rovagnate a Brivio; quelli che usano la “A” più verso il milanese. Quelli che dicono “el bagaj”, verso Lecco,  e quelli che dicono “ul bagaj”, più brianzolo; “Ul Carleto che’l g’ha un pó’ de la troia” e via. Ho raccolto una marea di questi detti, ma non ho trovato ancora qualcuno che finanzia la pubblicazione.


(M) - C’è il mio blog,  se vuoi: però bisogna fare anche una registrazione audio ...
(A) - Sì perché solo scritto non basta ed è anche difficile scriverlo perché è un po’ soggettivo,  invece se lo senti lo senti.
L'altro giorno mi è venuto in mente una frase che diceva mia madre quando non c’erano in giro i figli perché guai a far sentire certe cose alle orecchie vergini dei bambini, lei era molto religiosa:“i pret cunt i sò balet e i carabinier cui so  manet, tút ul mund i tegnen quièt” .

Sto anche trascrivendo le note dei viaggi che ho fatto: in Polonia quando sono andato a incontrare Lech Walesa.;  in Germania dell’est, a partecipare a dei corsi dove più che a fare il sindacalista ti insegnavano i metodi più adatti per abbattere il capitalismo.

Una volta in Svizzera, dove, insieme ad altri, ero andato a manifestare a favore della Palestina, mi hanno arrestato. 


Ho visitato il campo di Buchenwald, che è stato uno dei più duri campi nazisti: nessuno dice però che è anche stato per molti anni anche un campo di concentramento per i dissidenti della Germania dell’est. Ci andavano ad esempio i comunisti troppo ortodossi, quelli poco ortodossi e i comunisti e basta: era sufficiente  non andare bene a quelli che dirigevano  ed eri considerato un dissidente.

Un giorno visitando una fabbrica in Unione Sovietica ci hanno mostrato  il ritratto di uno considerato “la guida” di tutta la fabbrica. Due giorni dopo torniamo nella stessa fabbrica e il ritratto è cambiato: “la guida” era caduta in disgrazia ed era subito stata sostituita da un'altra, sempre bravissima ovviamente. Ho chiesto informazioni al nostro accompagnatore che mi ha detto: “compagno ... lasa perd…”


(M) – In molti dei tuoi lavori hai collaborato con altre persone. Me ne vuoi parlare?

(A) -  Diciamo che collaboro con chiunque ritenga che il mio contributo sia  utile. Ti ho  già detto di Giubilo, di Ponzoni e anche di Magni. Con quest'ultimo il rapporto di collaborazione è stato più assiduo e frequente, avendo riguardato tutto il lavoro svolto sul tema della Resistenza. Io e lui, che è un insegnante e abita a Olgiate Molgora, abbiamo un modo abbastanza simile di fare ricerca e, un modo di scrivere piuttosto diverso. Però riusciamo sempre a trovare la sintesi. Con Alberto mi trovo molto bene a fare tutto. Quando ce lo chiedono andiamo anche nelle scuole a parlare della Resistenza (16).

 
Anselmo Brambilla e Alberto Magni . Foto tratta da merateonline

 

(M) – Ora che, come mi hai detto, il tema della Resistenza per voi si può dire chiuso, cesserete anche la collaborazione?

(A) – No, stiamo già facendo una ricerca sulla prima guerra mondiale, legata alle condizioni sociali dei militari che l'hanno combattuta. Riguarda una vasta zona, comprendente una decina di comuni del Meratese. Vogliamo arrivare a una valutazione delle condizioni psicofisiche degli arruolati, avendo come fonte le visite di leva. Per questo abbiamo visto e copiato le liste di leva dei comuni prescelti.

Gran parte dei soldati avevano i denti guasti, erano più piccoli di un metro e sessanta, avevano difetti fisici e un torace più piccolo della mia gamba. Chissà, magari riusciamo ad avere un quadro dell’amor di patria che i nostri contadini dovevano avere per andare ad ammazzare altri contadini dell'Austria, dell’Ungheria, della Serbia o a farsi ammazzare. 


(M) - Altre idee che per ora sono solo in testa?

(A) -Un'altra ‘idea riguarda gli ebrei mandati al confino in diversi paesi della provincia di Como.  Il confino sembra una cosa da poco, ma non lo era. I confinati non potevano muoversi dal paese, se non con il permesso della questura di Como,  non potevano lavorare, non potevano socializzare , dovevano vivere con i propri soldi, almeno con quelli che il governo non gli sequestrava.  Abbiamo già un po’ di notizie, ora dobbiamo cercare la documentazione (17).


NOTE
(1) Anselmo Luigi Brambilla, Ezio Giubilo, Missaglia 1943 – 1945. Fatti e persone da non dimenticare, Missaglia, 2017


(2) Questa vicenda è raccontata da Anselmo e Alberto anche su questo blog:
http://bartesaghiverderiostoria.blogspot.it/2016/01/ebrei-internati-missaglia-di-anselmo.html

(3) Il 3 gennaio 1945, quattro partigiani vengono fucilati, a Vallaperta frazione di Casatenovo, dalle Brigate Nere di Missaglia e Merate. Sono Natale Beretta (25 anni) e Gabriele Colombo (23 anni) di Arcore, Mario Villa di Biassono e Nazzaro Vitali di Bellano. È un'azione di rappresaglia per la morte di un milite della G.N.R, tale Chiarelli mandato a Valaperta a indagare su un renitente alla leva e lì ucciso in circostanze non molto chiare.
 

Sul monte San Genesio il rastrellamento, ad opera di circa 350 SS tedesche aiutate da fascisti, avviene il 30 settembre 1943. Risultato dell'operazione, che durò 2 giorni, fu di tre partigiani morti, 2 feriti e una trentina fatti prigionieri.
 

Roberto Farinacci, gerarca fascista di Cremona, fu arrestato a Beverate  il 26 aprile 1945 da un comando partigiano. Dopo un sommario processo verrà fucilato a Vimercate la sera del 28 aprile.

(4) Anselmo Luigi Brambilla, Alberto Magni, PARTIGIANI TRA ADDA E BRIANZA. Antifascismo e Resistenza nel Meratese. Storia della 104a Brigata S.A.P. “Citterio”, Oggiono,2005.


(5) Calco, Olgiate Molgora, Brivio,Comuni della Valletta (a cura di), Per non dimenticare. I Luoghi della Resistenza nella Brianza Meratese, 2010.
Puoi trovare questa opera su questo blog al seguente indirizzo: http://bartesaghiverderiostoria.blogspot.it/2010/08/per-non-dimenticare-mappa-della-memoria.html


(6) Anselmo Brambilla, Alberto Magni, COMANDANTE LAZZARINI. Da capo partigiano ad agente OSS in missione nel lecchese, Oggiono, 2013

.
(7) Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, pag. 34, Torino, 1991. 


(8) Don Riccardo Corti, settantenne parroco di Giovenzana, frazione di Colle Brianza,
si assunse la responsabilità di aver dato asilo ai prigionieri arrestati dai nazisti, per salvare il suo paese dalla rappresaglia,. Per questo fu deportato a Mauthausen. Arrestato l'11 ottobre 1943, fu liberato dopo 17 mesi grazie all'intercessione del cardinale Schuster. 

Don Achille Bolis, parroco di Calolziocorte, fu arrestato il 21 febbraio 1945 insieme al suo coadiutore, don Tommaso Rota, con l'accusa di aver dato aiuto ai ribelli. Morì  nel carcere di San Vittore, la notte dopo essere stato interrogato e torturato all'Albergo Regina di Milano, .

(9) Ente partecipazione e finanziamento industrie manifatturiere (acronimo EFIM) è stata una finanziaria del sistema delle partecipazioni statali. Nato nel 1962 come Ente autonomo di gestione per la partecipazione del Fondo di finanziamento dell'industria meccanica (FIM), cambiò nome nel 1967. L'EFIM, dopo aver accumulato debiti per 18.000 miliardi di lire fu messo in liquidazione nel 1992. Nota redatta da Anselmo Brambilla.


(10) Organismo rappresentativo dei lavoratori all'interno di un'azienda. Il consiglio di fabbrica ( CDF) viene eletto da tutti i lavoratori siano o no iscritti al sindacato. Si occupa di tutto quanto attiene alla gestione dei rapporti sindacali con la direzione. Nota redatta da Anselmo Brambilla.


(11)  Un gruppo di carristi tenta e fallisce  un colpo di stato contro Menem. Erano definiti "carapintada" per il fatto che si erano pitturati la faccia . La battaglia, che ha opposto militari argentini ad altri militari argentini, ha lasciato sul terreno una trentina di morti. Nota redatta da Anselmo Brambilla.


(12)  Anselmo  Brambilla, Claudio Ponzoni, Calco un paese che si racconta, Oggiono, 2004


(13)  Anselmo Brambilla, Parrocchia di San Vigilio in Calco, in Fides per millenium, Oggiono, 2000.


(14)  Autori vari, Per migliorare la vita dei lavoratori. La Camera del Lavoro di Lecco dalla sua fondazione al 1922,  Lecco 2001


(15)  Anselmo Luigi Brambilla, Se cinquant'anni vi sembran pochi, Terno d'Isola, 2014


(16)  Su Alberto Magni: http://bartesaghiverderiostoria.blogspot.it/2010/04/alberto-magni.html


(17) Anselmo Brambilla ha collaborato un gran numero di volte con questo blog. Potete leggere i suoi contributi cliccando su questo indirizzo ( o sull'etichetta  a lui intestata):
http://bartesaghiverderiostoria.blogspot.it/search/label/Anselmo%20Brambilla


Marco Bartesaghi, 17 maggio 2018


IN RICORDO DELLA SIGNORA CARLA DEAMBROGI CARTA di Marco Bartesaghi

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Carla Deambrogi Carta










È  morta a Cernusco Lombardone, poche settimane  prima del suo novantesimo compleanno, la signora Carla Deambrogi Carta.
La passione per la storia dello scorso secolo, la memoria dei fatti vissuti di persona o conosciuti attraverso la lettura di libri e giornali, l’ abitudine di conservare e  la capacità di intuire il valore che avrebbero potuto avere in futuro i documenti di carta che le capitavano fra le mani, le hanno consentito di collaborare con questo blog con alcuni dei contributi più interessanti che esso ha pubblicato (http://bartesaghiverderiostoria.blogspot.it/search/label/Carla%20Deambrogi%20Carta






Uno, in particolare, mi aveva emozionato. Si intitola “VERDERIO , DICEMBRE 1994. L’AMICA RITROVATA”. È il ricordo di una compagna delle elementari, ebrea, di cognome Milla, che a seguito delle leggi razziali del 1938 aveva dovuto abbandonare la scuola. Non l’aveva più vista, fino al  dicembre del 1994, quando la incontrò proprio a Verderio all’inaugurazione della lapide che ricorda la deportazione ad Auschwitz della famiglia Milla.
 


Pochi giorni prima che morisse, ho ricevuto dalla signora Carla un ultimo regalo: mi ha fatto avere i due documenti che ora vi presento.


 1942: CALENDARIO TASCABILE

Il primo è un calendario tascabile, pieghevole, del 1942. L’Italia è impegnata nel conflitto mondiale  e anche il calendario deve servire alla propaganda di guerra. Lo fa utilizzando un linguaggio religioso.


La prima facciata è occupata dall’Arcangelo Michele che scaccia Satana, riproduzione di  un’opera  di Guido Reni del 1636. Michele è, dei tre Arcangeli (gli altri sono Gabriele e Raffaele), il guerriero, quello  che armato di lancia o di spada combatte e vince il demonio.








Nell’ultima facciata il richiamo religioso è presente in una frase attribuita a Mussolini, dove “l’iddio giusto che vive nell’anima dei giovani popoli” avrebbe garantito la vittoria dell’Italia. Evidentemente poi s’era distratto.


"DEL SALUTO E DEGLI ATTI DI RISPETTO DA INFERIORI A SUPERIORI NEI LOCALI DELLA OROBIA" 

L’altro  documento è un ordine di servizio della “Società Anonima Orobia” di Lecco, distributrice di energia elettrica, che ha come oggetto le norme “Del saluto e degli atti di rispetto da Inferiori a Superiori nei locali della Orobia”.
 





Lo trascrivo:


1 – Il saluto dovuto dall’inferiore al superiore si fa tenendo il braccio destro in avanti e leggermente in alto (saluto romano fascista) o anche levandosi il cappello o berretto.


2 – L’inferiore che si presenti a  un superiore deve, dopo il saluto, mettersi sull’attenti.


3 – Al superiore che entri in un locale, l’inferiore o il capo che vi si trovi deve presentarsi mettendosi nella posizione di attenti.


4 – Sono da evitare gli inchini


Il documento è firmato dal consigliere delegato, Ing. Gaetano Bonomi, e datato 21 aprile 1928.
 




Il  cosiddetto “saluto romano” avrebbe dovuto rappresentare un legame fra il regime fascista e l’antico impero di Roma: peccato che, come sembra, questo gesto non appartenga alla tradizione dell’antica Roma. Ciononostante il fascismo lo rese obbligatorio nell’amministrazione civile, con un decreto governativo del 27 novembre 1925, e poi in altri ambiti, con una serie di successive circolari.


Il saluto romano, che in Italia è vietato dalla legge n. 645 del giugno 1952, conosciuta come “legge Scelba” , è ancora usato da gruppi neofascisti e da nostalgici del vecchio regime nelle loro manifestazioni pubbliche. Ne fanno una questione di principio e di libertà, e questo è raccapricciante, visto che inneggiano a un sistema politico che della libertà ha fatto e farebbe scempio.
 
Ciò detto e ammesso che a qualcuno possa interessare un mio parere, io non lo vieterei, poiché penso che proibire un gesto, una parola, un libro si addica poco all’antifascismo e alla democrazia.



  
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