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Ciao,
la vacanza è finita. Il blog finalmente riparte, spero con una certa continuità
                       Marco Bartesaghi 

ATTENZIONE: in questo aggiornamento del blog ho inserito 6 nuovi post. Per motivi che non riesco a spiegarmi, solo 2 appaiono in "prima pagina". In attesa che riesca a porvi rimedio, per vedere gli altri cliccate, in fondo alla pagina a destra, su "Post più vecchi"

1889 - 1891. LE "PRIME POESIE" DI VITTORIO GNECCHI RUSCONE di Marco Bartesaghi

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C'è una chicca in biblioteca comunale di Verderio, tra le carte della famiglia Gnecchi (1).
Un quaderno a copertina nera, con le prime poesie (così è dichiarato nel titolo) di Vittorio Gnecchi Ruscone, scritte fra il 1889 e il 1891, quando il futuro musicista, nato nel 1876, aveva fra i 13 e i 15 anni (2).
La raccolta di versi  è divisa in due periodi: il primo comprende quelli scritti fra il 1889 e '90, l'altro quelli del 1891. I testi sono ordinati con un’unica numerazione romana.




PRIMO PERIODO, 1889 –‘90

Nella primo periodo sono raccolti sette testi.

I primi cinque sono indirizzati “Alla signorina Teresa Brini in occasione dell'influenza”.

Vittorio scrive da solo il primo, il secondo, il terzo e il quinto componimento; il quarto lo scrive  con Antonia e Maria Brini.

Teresa era una cugina di Vittorio,  maggiore di lui di tre anni, figlia della zia Amalia, sorella del padre, e di Giuseppe Brini. Antonia era sorella di Teresa. Maria era una loro sorella o, forse, una cugina (3).

Teresa e Vittorio nella primavera del 1889 avevano contratto l'influenza e per consolarsi e informarsi reciprocamente sullo stato di salute si scambiavano lettere in versi. A questo “gioco”, se così si può dire, in un'occasione parteciparono anche Antonia e Maria.

La maggior parte delle poesie non sono a versi liberi, ma organizzate secondo le regole della metrica e della rima.


***

Le prime due sono composte da due ottave, di versi endecasillabi. Nei primi sei versi la rima è alternata, baciata negli ultimi due.

Questa la prima strofa della prima poesia:

Le nuove tue, carissima Teresa
Ancor non mi fur date sta mattina
E le aspetto con l'anima sospesa.
Hai preso una purgante medicina?
O un zic facesti, od altra parte hai offesa?
O sol guaristi coll'antipirina?
O forse ancor guarita tu non sei?
Ma sì ch'io sto tu stia io non vorrei.
...






 ***

Nella terza e nella quarta poesia, quella scritta a più mani, i versi sono di otto sillabe (ottonari) Le rime sono alternate nel terzo componimento, baciate nel quarto.


Della terza poesia vi presento l’ultima strofa. Piuttosto  comica, parla degli effetti dello “zic”, già citato nella precedente, che presumo  sia il clistere, a cui Vittorio si era dovuto sottoporre per un’indigestione da gnocchi di cui era rimasto vittima:








Ah! Che zic tremendo io feci!
Ah!che male ho mai provato!
E ne ho fatta poi per dieci;
O Dio quanto sono andato!






***
 
La quarta è una  lettera in versi che Antonia, Maria e Vittorio dedicano a Teresa. È  uno scherzoso canto d'amore, composto da otto quartine, ciascuna della quali in rima baciata. I tre “poeti” non firmano la lettera, ma la attribuiscono ad un’altra persona. Fra parentesi, alla fine del testo, scrivono infatti: “Gli autori fingono che questa lettera sia scritta dal  signor Mon ...”
 

Eccone l'ultima strofa, la più audace:






...
Nulla d'altro al mondo io bramo,
Che lei sola, e le richiamo
Se non troppo le son gramo.
Ah! Mi lasci dir che l'amo!

 














***


La quinta poesia è quasi un poemetto: sessantasei versi ottonari, in rima baciata a due a due, a partire dal secondo. Il primo verso - “O Teresa, mio tesor” - è in rima con l'ultimo - “Questo nodo in noi d'amor”.
Vittorio e Teresa si sono ripresi dalla malattia e lui, scrivendole, le ricorda il piacere e la consolazione che aveva provato nel ricevere le sue lettere.
Dal testo si scopre che i due cugini, in coppia,  erano impegnati a preparare un pezzo al pianoforte, a otto mani. L'altra coppia era composta dalla zia Maria, presumibilmente Bozzotti (4), sorella della mamma di Vittorio, e dalla cugina Pia, figlia dello zio Ercole Gnecchi.

Il riferimento alla musica può essere interessante, data la carriera di compositore poi intrapresa da Vittorio. Per questo  motivo, trascrivo il brano:



Vittorio Gnecchi Ruscone in costume da antico romano
Or la sorte o il caso volle
che a sonar (senza un bemolle
né anco un diesis) scelti siamo
Ché davvero ben suoniamo
Colla nostra zia Maria
Ed insieme colla Pia
Per la marcia ad otto mani
Facciam parte dei due piani.
Così tanto ben di spesso
Alla sera ci è concesso
Di trovarci noi due insieme
Per provar se viene bene
Quel gran pezzo, che mi pare
Finirem per non sonare.
Ma non credere per questo
Che si scioglierà sì presto
Questo nostro abbonamento
Fu la marcia il fondamento,
Fu essa il germe, essa fu il seme
Del suonare noi due insieme.
Speriam dunque ardentemente
che la sorte ponga mente
Od in caso sempre voglia
che in eterno non si scioglia
Questo nodo in noi d'amor.

 ***
 
La sesta poesia, meno precisa nella metrica e nella rima, è dedicata a Elena dai sedicenti poeti, Teresa, Maria, Rino e Vittorio.
Incontriamo così due nuovi personaggi: Elena, che dovrebbe essere la figlia di Ercole, coetanea del cugino Vittorio, e  Rino, ovvero Cesare Gnecchi, fratello minore di Vittorio.

Elena era partita per un periodo di vacanza sul Verbano e i cugini le dedicarono questa sentimentale ma ironica poesia, che alterna all'italiano espressioni in francese, in inglese e in dialetto milanese.

Questa la terza ed ultima strofa:

...
Comme podem connsoulass
Mentre où sei andata a spass?
A pensar que a noi non pensi
Comment donc ai nostri sensi
Podemm cred, o dear Eléna
Où sì bella, sì serena
Deh! Reviens qui presto a cà
Pour tuoi [?] consoulà.

 


***
L’ultima poesia della prima parte, la settima, non essendoci indicazioni di altri coautori, dovrebbe essere stata scritta dal solo Vittorio Gnecchi.
 

È composta da 11 versi, ottonari. Le rime seguono lo schema: ABAAB ABABAB.
Scritta in prima persona al femminile, parla degli stati d’animo della protagonista che attende l’arrivo dell’innamorato: l’ansia, quando lui ritarda – “io mi sento già morire”–, la gioia, quando finalmente arriva –“O che gioia; son consolata,/sento il sangue ribollire,/e mi sento innamorata”.
 

 PER COMPLETARE LA LETTURA  CLICCA SU "CONTINUA A LEGGERE L'ARTICOLO" 

SECONDO PERIODO, 1891

La seconda parte della raccolta, che comprende nove testi, inizia con due poesie dedicate ad Antonia Brini, che con la mamma Amalia è partita per Salsomaggiore,  per una vacanza o, più probabilmente, per un ciclo di cure termali..

La prima, di 58 versi, senza rima e con metrica incerta, è stata scritta da Vittorio, ormai quindicenne, che sembra sinceramente innamorato della cugina.

Il “canto” si apre con un’esclamazione - “Antonia mia! D’ogni color tu sei!”– preludio della  descrizione di questi colori:

D’oro i tuoi crini fur, sono e saranno
Che ondeggiano sulle spalle tue
Come i flussi di un pelago d’inchiostro.
Il viso tuo è del color di rosa
Come suppongo pur tutto sarà
Quello che agli occhi miei cela il pudore.


Segue un lungo lamento, che suona, per la verità, un po’ esagerato, per la separazione a cui i due cugini sono costretti:


Come potrò più a lungo star negletto
In queste patrie mura abbandonato
Dagli occhi tuoi, dal mio più gran tesoro?
Come potrò sfuggire la crudele morte
Che tetra su di me piombar minaccia
Senza quel soffio arcano, mia delizia,
Che vien da te, vita mi dà e vigore?






 



Poi è il momento di invocare il ritorno:


Oh! Fa ritorno al tuo paterno tetto
Torna a Milano a rivedere il cielo
Che ricoprì le tenere tue membra
Col suo azzurrino manto generoso
Quando tu apristi per la prima volta
Le belle luci e contemplasti il sole!


Struggente il finale , in cui il nostro poeta ricorda il momento della partenza:


Non appena si mosse il tren veloce
Che seco (infame!) t’ha portata via
Che già per lutti il sol si nascondia
Dietro alle nubi fosche e nere e tetre,
Già il ciel di pianto mondava la terra
Ed io negletto e solo e sconsolato
Nel mio strazio crudel m’abbandonai
E accompagnai con un’ultima lagrima
Il palpitante ultimo mio sospiro.

 

 ***


Anche nel secondo componimento, in rima baciata, dedicato alla partenza di Antonia non mancano lacrime e sospiri, ma qui il tono è apertamente ironico.
Presentato, nell’intestazione,  come poema di Teresa e Maria Brini e Vittorio Gnecchi, è intitolato:
“Al Regno de’ Cieli” e suddiviso in tre capitoli: “Dolore!”, “Conforto!” e“Consolazione!”.

Il primo – Dolore! – tratta del momento della partenza: “Trema la terra e il cielo, piangono tutti i cuori, perché l’Antonia partesi dai suoi più grandi amori!”.

Simpatica la scenetta di Antonia che, scesa dal letto, si veste:
...
Scuote le pigre coltri la povera Antonietta
E scende dal giaciglio, e infila la calzetta;
Cambia la sua camicia e mette il sottanino
Ed a lavar sen corre il roseo suo visino.
Poi stringe la fascetta con tutta la sua forza
E per lo vento ch'escene il muccettin si smorza.
...


Drammatica la descrizione della partenza:

...
Con singhiozzi infiniti con lagrime e sospiri
Ciascuno porse all'Antonia i migliori desiri;
E abbracciatala tutti per l'ultima volta
La videro partire, da loro, ahimè!, disciolta.
… 


Per trovare  “Conforto!”, i tre ragazzi abbandonati si rivolgono ad Afrodite, dea dell'Amore, e la pregano di  proteggere la loro sorella e cugina e di asciugare le  lacrime che ella certamente stava spargendo per la loro lontananza:

 ...
Deh! Pietosa proteggi la nostra amica ingrata
Che sebben sia fuggita, da noi pur sempre è amata!
Tu seguila per gli erti e sassosi sentieri
E guida il lesto passo dei focosi destrieri.
Né lasciar che si diano indomati alla fuga;
Tu se l'Antonia piange le lacrime le asciuga”.


La dea, che non  rimane insensibile alle loro “melodiose voci contrite dal dolore”,  gli appare sopra una nuvoletta, li fa salire sul suo carro cosparso di rose che, trainato da candidi cavalli, sale nel cielo. Da qui  li invita a guardare ...

… quell'astro rozzo, brutto e rotondo
Che men degli altri splende: ebbene quello è il mondo.
Guardate come spiccano or sporgenti or ritrosi
D'uno stivale i lidi sui mari burrascosi.
In alto una gran valle , da un fiume attraversata
E da cime nevose il capo coronata;
Per là scorre veloce un fumante vapore:
Quello porta l'Antonia fino a Salsomaggiore
E se guardate bene da un picciol finestrino
Vedrete ch'essa sporge il caro suo testino



Grande “Consolazione!” – e siamo alla terza parte del poema -  per Teresa, Maria e Vittorio – Oh! Dolce voluttade! Oh! Gioia senza pari! - è rivedere l'amica, seguirla fino all'arrivo alla stazione e notare, addirittura, le lacrime sul suo volto, sparse, ovviamente, per la loro lontananza.

Da qui “a lento e mesto passo” madre e figlia si avviano all'albergo dove finalmente  possono “saziare il loro tremendo appetito”.

A questo punto, il miracolo:
...
Così d'Antonia e Amalia il gran dolor svanì
Quando a lor di risotto un piatto si servì
Ma come lupe indomite che dopo il pasto han fame
Ancor più di prima, così ancor del salame
Le due compagne chiesero, e un poco di giambone
Per finire in tal modo meglio la colazione.


Rifocillata dal cibo, Antonia si reca in bagno per una  “toiletta gradita”, e i tre ragazzi la sbirciano dal finestrino aperto:






 …
L'Antonietta gentile il collo ha già scoperto,
Senza pensar che sopra un finestrino è aperto
Da cui vederla possono e cugini e sorelle
Che la guardano attenti dal regno delle stelle.
Essa leva le calze e le getta per terra;
Con uno sforzo immenso il busto si disserra
Che già tanta fatica per allacciar costolle;
Ambizione che a taluno pare talvolta folle.
Levato infine il resto, nell'acqua si tuffò
E pria di ogni altra cosa il casto sen lavò.
Vittorio a quella vista, offeso nel pudore,
Levò le mani al viso, coperto di rossore;
Ma fra un ditino e l'altro lasciando un forellino
Poté veder l'Antonia immersa nel bagnino.
Ma tosto, ahi dura sorte! l'Antonia si vestì
Poi con veloce passo dal camerino uscì.

...

***

I tre testi (X. XI e XII) successivi sono esercitazioni scolastiche che il giovane Gnecchi compone quando frequenta la quarta ginnasio.
Le prime due sono poesie di argomento classico intitolate, in ordine, “Atene dopo la battaglia di Egospotamo” e “Morte di Epaminonda”; la terza è la traduzione di una parte del dialogo fra Menalco e Mopso, ossia della V elegia delle Bucoliche di Virgilio.


***
 O Musa ispirami
Dolce, soavissimo
Canto d'amor!
Imprimi tu i caratteri sulla dorata carta
E il tuo sublime genio infila noi nel cuor
Siccome infila l'ago la laboriosa sarta
E la Musa, così appassionatamente invocata, ispira al nostro poeta il canto intitolato "Sogno”: il  sogno che  la cugina Elena, un'altra volta ancora, lontana da Milano, avrebbe fatto durante “ … un bel sonno placido / che ancor non era stato/ da inopportuno strepito/ né rotto né turbato/...” .

A Elena appare un cavaliere, su un focoso destriero, con una splendida corazza d'acciaio, una rosa sulla spalla e una lancia in mano. Che sarà venuto a fare, a darle“un bel bacino”? … Macché, le porta un bigliettino dei soliti cugini, Antonia, Teresa, Maria e Vittorio, disperati per la sua lontananza.

Sul biglietto, questo sonetto:

Come durante l'inverno frigore
in una tana sta la talpa ascosa
ed esce solo da tal sosta ombrosa
Quando v’apporta il sol luce e calore,

Così stettero immersi nel dolore
In questa di Milan città noiosa
Quattro cugini tuoi, che senza posa
Piangevano il lontan lor grande amore.

Questi affranti mortali siamo noi,
Che aspettiamo con ansia il bel ritorno
Di quell’astro d’amor che i raggi suoi

Spanda pietoso ovunque a sé d’intorno:
e quest’astro d’amor siete voi
Nena bella, e gentil luce del giorno!


 ***
Una lunga  lettera di Arlecchino, ammalato,  a Pierrot è il quattordicesimo capitolo di questo nostro quaderno.
Nella prima parte Arlecchino, pur non risparmiandogli  frecciate sulla  sua passione per il vino, esprime a Pierrot tutta la sua gratitudine per l'amicizia che gli dimostra. Un'amicizia così generosa che neanche era scalfita dal fatto che fra Arlecchino e la moglie dell'amico c’era stata una tresca amorosa - “sebbene di tua moglie stato già fossi amante”.

Tranquillizzato l'amico sulla natura non grave della malattia, che lo costringeva a letto da ben sette giorni-“non creder già che fosse l'asma o la difterite/non già la tifoidea; neppur la polmonite/ per certo no la peste; forse nemmen la tosse/ e le guance mi pare non fosser tanto rosse/ da poter dir che avessi o felse o scarlattina” -,  gli confessa quale ne era stata  la vera causa: la sua passione per la polenta.


Fu, t’el dirò in segreto,  … un po’ d’indigestione.
Tu sai quale diletto nel mio cuorino pone
L’empirmi un po’ lo stomaco, e specialmente poi
Quando lo sento vuoto: ciascuno ha i gusti suoi,
Bisogna compatirli. Ebbene, un certo giorno,
Tornando da un passeggio, volsi lo sguardo intorno
Onde cercar qualcosa da ristorar le forze
Che pel digiuno e i passi s’erano affatto smorze.
Allor con mio gran giubilo, fra la puzza del vino
Delle sporche osterie, un piccolo botteghino
S’offerse agli occhi miei di cose da mangiare
In cui una  grande pentola vedevasi fumare.
Cosa sarà là dentro? Tosto mi domandai,
E la curiosità, che sol poco domai,
Mi spinse quel coperchio un pochino ad aprire
Guardai là dentro e vidi … (ahi! sentomi venire
Solo a pensarci adesso in bocca l’aquolina!)
E vidi una polenta … t’assicuro: “divina”!
Tu ti puoi immaginare con qual gusto e appetito
Mangiai quella scodella e la raspai col dito
Le conseguenze poi … puoi pure immaginare;


Una bella indigestione causata dalla polenta, verso la quale però Arlecchino non serba rancore tanto che le dedica le strofe finali della poesia:




Ma credi mio Pierrot che in quei tremendi istanti
Vidi quant’ero sciocco, fra i desideri santi,
D’aver anche sperato finir la vita mia
Con un’indigestione di polenta natia
[ … ]
Parmi star meglio, e parmi già ch’io senta                       
Gran voglia di mangiare ancora della polenta


Polenta che, del resto, secondo Arlecchino, non era la vera colpevole della sua indigestione:


Ma, in fondo, credi a me,che la colpa maggiore
Del morbo mio fu proprio di quel cretin dottore.


***

Nei primi versi della penultima poesia, Vittorio, parlando di sé in terza persona, descrive l’estasi provata quando, seduto in cima a una collina, stava a contemplare“ la valle, i boschi, i prati, il ciel tinto di rosa”.   
 




Uno stato d’animo che però improvvisamente si tramuta in tristezza, quando il suo sguardo si posa sopra un fiore, un fiore particolare:
 …
Quel fiore era una viola che fra l’erbe germoglia,
Che del pensier si noma, ed a pensar n’invoglia

 

Una viola del pensiero dunque, che lo porta con il ricordo ad “…un’ora/ che fu la più beata dei suoi passati dì/ …”, quando, in un prato tempestato di fiori, fra cui le viole del pensiero, aveva ricevuto un castissimo bacio da ognuna delle tre cugine, Antonia, Teresa e Maria:


Sporgendo le guancie (sic) alle gentil bocchine,
Ricevette tre baci dalle sue tre cugine.
Quale ineffabil gaudio, quale soave ebbrezza!
Quanta in quei cari baci egli provò dolcezza!
Ecco come la viola che nei prati germoglia,
Che del pensier si noma, ed a pensar n’invoglia
Sempre rammenta a lui quell’ora che è passata,
che della vita sua fu l’ora più beata!


***

Piove. Tetra la nebbia stende il suo folto velo
Su la misera terra; grigio ed oscuro il cielo
Di spandere non cessa neppure un solo istante
L’acqua  noiosa sua, dirotta ed abbondante


Con un tempo così non resta al nostro poeta che dedicarsi alla scrittura e così compone, in versi, una commedia in un atto dedicata a una certa Sandrina, forse un’altra cugina, l’ultimo pezzo della nostra raccolta.
 

Il titolo è “ ’Ss’hai fatto, Tullo? …”. I personaggi, reali, sono: la signorina, il suonatore, Vittorio, la signora, Luigino.
La scena si svolge in una sala della villa di Verderio,  come si apprende dall’ introduzione:

La scena rappresenta di Verderio una sala,
su un tavolo stan pronti il vermouth e il marsala.
Un piano da una parte, vicino un tabouret,
Nel mezzo, contro al muro, riposa un canapè.
È facile pensare quale sia la sala,
Sebbene là di solito non sia pronto il marsala.
La lampada s’è spenta (siccome già il Luigino,
È il vizio suo, non sa tagliare lo stoppino).
Fra le tenebre fitte al piano un sonatore
Suona l’ “ahimè non giunge” in ton di fa minore


La “signorina”, allegra ed eccitata, fa irruzione nella  sala buia,  dove crede che  Vittorio, al pianoforte,  stia suonando l’aria "ahimè non giunge”, tratta da “La Sonnambula”di Bellini e annuncia con gioia l’arrivo di Tullo, in divisa da ufficiale.
Sennonché, al pianoforte non c’è Vittorio, bensì il “suonatore”, che  cerca di chiarire la situazione ma rimane inascoltato e riceve insulti e sgarberie della inconsapevole signorina.
L’equivoco dura finché Luigino, il domestico, non riaccende la lampada.
Dell’imbarazzo della signorina  approfitta il suonatore che, per accettare le scuse, esige di essere baciato. Proprio sul più bello, come da tradizione, entrano nella sala Vittorio e la “ signora” che, scandalizzata, dà in escandescenze  e caccia suonatore e signorina. Questa però trascina con sé Vittorio, che la segue cantando allegramente.
 

Poi“Cala la tela” senza che niente si sia saputo di Tullo, che pure ha dato il nome alla commediola.


Vittorio Gnecchi Ruscone (5)
***


Così termina la raccolta delle “prime” poesie di Vittorio Gnecchi Ruscone.
Ne saranno seguite altre? Saranno conservate o, magari, saranno addirittura state pubblicate?
Non lo so, ma queste domande  mi incuriosiscono molto. Se qualcuno, informato, mi aiutasse  a dar loro una risposta, gliene sarei molto grato.















 NOTE
(1) – Fondo Famiglia Gnecchi Ruscone, Carte Vittorio Gnecchi Ruscone, Poesie, 1.3.10.3
 

(2) Altri articoli contenuti in questo blog, riguardanti Vittorio Gnecchi Ruscone, si possono trovare cliccando sull’omonima etichetta  o a questo indirizzo: https://bartesaghiverderiostoria.blogspot.com/search/label/Vittorio

(3)  Per queste notizie ho fatto riferimento all’albero genealogico della famiglia Gnecchi Ruscone, che ho ricevuto in dono alcuni anni fa dal signor Carlo Gnecchi Ruscone. Non sono però riuscito a individuare con certezza  la figura di Maria Brini.
 

(4) Di Maria Bozzotti si parla, in questo blog, nell’articolo dedicato alla rappresentazione a Verderio  di “Virtù d’Amore”, la prima opera di Vittorio Gnecchi, di cui lei scrisse il libretto (https://bartesaghiverderiostoria.blogspot.com/2016/06/festa-verderio-il-7-ottobre-1896-la.html). 
Notizie su di lei anche in un articolo dedicato alle esperienze teatrali nell’ambito della famo[i]glia Gnecchi Ruscone: https://bartesaghiverderiostoria.blogspot.com/2016/06/in-casa-dei-nonni-di-erminio-bozzotti-e.html#more

(5) Volantino di presentazione dell'esecuzione della Missa Salisburgensis di Vittorio Gnecchi Ruscone, avvenuta a Verderio Superiore, nella chiesa parrocchiale dei santi Giuseppe e Floriano, il 27 ottobre 2006.

 Marco Bartesaghi

MILLE RIME PER OGNI OCCASIONE, NEL LIBRO DI ALICE FRANCESCATTI di Marco Bartesaghi

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Mille rime per ogni occasione,
scelgo le mie in base all’ispirazione!
Natale, anime, estate, ognissanti …/
Io scrivo così per tutti quanti!

così Alice si presenta nella dedica che ha apposto alla copia del suo libro che mi ha regalato .




“HO UNA RIMA IN TESTA. Poesie, indovinelli, filastrocche, conte e canzoni per tutte le occasioni” , è il libro di Alice Francescatti , pubblicato da AUDIOLUX COMMUNICATION di Merate.


Nata  a Verderio nel 1987, Alice, che è una grande lettrice, scrive storie fin dalle scuole elementari. Alla poesia si è avvicinata invece alle  medie, grazie alla professoressa Nerina Passoni.





La prima occasione di rendere pubblici i suoi testi le era  stata offerta dalla Biblioteca di Brivio, dove Alice ha svolto attività di volontariato. La bibliotecaria, che durante l’anno allestiva  “le vetrine”,  piccole mostre di libri a tema, la invitò a scrivere una poesia per ognuno dei temi proposti. Così sono nate, ad esempio,  “Natale”, “Shoah. La giornata della memoria”, “8 marzo. Donne forti del nostro tempo”,” Il viaggio e la fuga”, “ I gialli dell’estate”.
 
Una fonte di ispirazione sono, per Alice, i cartoni animati  giapponesi – “Anime”  - a cui si è avvicinata grazie al fratello Alessandro:  “Yami e Sailor Moon”, “Le tartarughe Ninja”, “Quando il Ninja e la strega”, alcuni dei titoli di questo filone.
L’idea di pubblicare il libro, e così soddisfare un sogno coltivato fin dall’infanzia,  nasce nell’ambito della società presso cui Alice ha svolto un tirocinio aziendale, la  Audiolux Robotics & Communication di Merate.
Scrive Alice sul sito dell’Associazione Dentro & Fuori di Cernusco Lombardone:
“Il progetto è consistito nella realizzazione e pubblicazione su Internet di un libro per bambini da me ideato, scritto e redatto. Affiancata dalla mia tutor aziendale Fiammetta Ravot e con l’aiuto dei grafici di Audiolux, nell’arco di circa tre mesi il volume ha visto la luce”
(Per leggere l’intero articolo di Alice, da cui ho tratto la fotografia che vedete, potete andare al seguente indirizzo:
http://dentroefuori.it/news-cernusco/cernusco-alice-francescatti-presenta-ho-una-rima-in-testa/ )
Il libro, che mi auguro sia il primo di una lunga serie, è acquistabile rivolgendosi al sito internet  www.lulu.com.

 Come assaggio ecco alcune strofe, prese qua e là:

 
“Se apro i surgelati,
ho i minuti contati!
Lievita panino,
ti aspetta il salamino!”

 
da LA CUCINA MAGICA, pag. 18



“Pulcinella,  bianco e nero,
porta la pizza al mondo intero;
ma i tuoi segreti non gli rivelare,
perché poi a tutti li va a spifferare!”
da LE MASCHERE, pag. 12


 


 “Generale Pan di Spagna,
va nel tè ma non si bagna”

da GENERALE PAN DI SPAGNA, pag 32



“Un tempo in Germania, un ometto baffuto,
che era assai pazzo, ma qualcuno gli ha creduto,
si mise in testa un progetto assai strano:
purificare il gran popolo ariano.”

da SHOAH. LA GIORNATA DELLA MEMORIA,  pag. 6 


Marco Bartesaghi

 

"VIBRATIONS".LE POESIA DI CRISTINA CARLOTTI E I RITRATTI DI MARIA POGGI CAVALLETTI, IN UN FILMATO REALIZZATO DA ILARIA FORTI.

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Nel giugno del 2010 avevo presentato su questo blog la poesia “Ombra di luna”. L’autrice aveva preferito mantenere nascosta la sua identità e si era firmata “Cri" (1)



Sono passati un po’ di anni e ora quella poesia , insieme a diverse altre, è apparsa in un libro intitolato ”VIBRATIONS”   in cui il nome dell’autrice ovviamente compare per intero: Cristina Carlotti.

 
Cristina Carlotti


Cristina è nata a Verona ed è residente a Verderio, in un appartamento della villa che fu del suo bisnonno, il musicista Vittorio Gnecchi Ruscone. Diplomata alla Scuola di Restauro della Regione Lombardia a  Botticino, lavora come libera professionista e consulente nel restauro di opere d’arte su tela e tavola e di cornici. Le sue poesie hanno ricevuto alcuni significativi riconoscimenti.









“VIBRATION” è un libro particolare che raccoglie, oltre alle poesie di Cristina, una serie di ritratti ad olio realizzati dalla pittrice Maria Poggi Cavalletti.

Verrebbe da dire che a ogni poesia, nella pagina di destra, sia affiancato un ritratto su quella di sinistra. Ma la parola “affiancato” è poco adatta, poiché indica un legame diretto fra testi e dipinti, presente solo nel caso delle poesie e dei ritratti dedicati ai genitori di Cristina.






Nelle altre pagine il legame è più tenue e frutto della comune sensibilità delle due autrici, che noi lettori possiamo solo cercare di intuire e indovinare.

 
 
Maria Poggi Cavalletti




Maria Poggi Cavalletti è nata a Bologna, ma cresciuta a Parigi e New York. Per molti anni ha lavorato nel campo della moda come creatrice, stilista free lance per Capucine, Diana d’Este, Anna Marchetti, l’Orangerie. I suoi ritratti sono stati presentati in diverse mostre tenutesi in varie località d’Italia.





Per presentare il libro avevo pensato a un’ intervista alle due protagoniste e alla pubblicazione di qualche poesia e qualche dipinto.
Loro però hanno proposto una cosa assai migliore e ben più originale: insieme a un’amica , Ilaria Forti, hanno realizzato questo filmato che con gioia  vi propongo.  









Ilaria Forti, laureata in Lingue e Letterature Straniere presso  presso l'Università degli Studi di Milano, lavora da molti anni nella realizzazione di programmi TV, come autrice e sceneggiatrice. Ora è libera professionista, in precedenza ha lavorato per Odeon TV, Mediaset e Antenna 3.







POESIA DI PRIMAVERA
C'è un'ora giusta per ogni cosa
come di notte la luce 
riposa.
Noi pure uomini
Siamo nel Tutto
anime e corpo in alternanza
spesso piegati
quando ci prende
l'ansia.
Perché è qui nella Vita
e nel Cuore che ci vuole il sole
e tanto, tanto coraggio.
Solo la Fede ci tiene stretti
e con dio siamo al sicuro e protetti.
C'è sì un momento 
per ogni cosa
se questa cosa non hai voglia di farla
trova più tardi il momento di realizzarla.
Perché io in questa vita
male non ci voglio più stare
e solo alla vita mora e sempre voglio
Brindare
e così ogni giorno
saperla apprezzare.


Chi desiderasse acquistare una copia del libro,  può scrivere  a Maria - mariapoggicavalletti@gmail.com - o a Cristina - cristina.carlotti@alice.it - che provvederanno alla consegna. Il costo è di € 20,00.


NOTA :
(1) https://bartesaghiverderiostoria.blogspot.com/2010/06/ombra-di-luna-una-poesia-di-cri.html




È SCOMPARSA "LA SALETTE". PECCATO, ERA COSÍ BELLA. Di Marco Bartesaghi

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Per  più di centocinquant’ anni cascina “La Salette” ha dato   il benvenuto e l' arrivederci a tutti coloro che transitavano nelle sue vicinanze.
Era impossibile non notarla, per la sua maestosità e, soprattutto, per la particolarità delle sue due torri laterali, con i tetti in ardesia a falde che si intersecano e le eleganti bifore nei due timpani prospicienti la strada provinciale.


Se dicevi a qualcuno di essere di Verderio,  per prima cosa ti chiedeva se di Superiore o Inferiore e poi cosa fosse quel bell'edificio che si vedeva entrando: un palazzo? Un convento? – “Una cascina!” –“ Una cascinaaa?”
Penso sia sempre stato così, da quando è sorta, nel 1856. Ne sono certo per gli ultimi quarant’anni, da quando anch’io abito qui.  Anche quando era abbandonata e cadente sapeva sprigionare fascino e attirare l’attenzione. 


 
Foto Samuele Villa

Poi  è risorta e siamo tornati a vederla come forse la  videro gli abitanti di Verderio della metà dell’ottocento, consapevoli,certo, che le sue funzioni non potevano  più essere quelle di quel tempo.

Ho ricevuto da non ricordo chi, questa ed altre fotografie de La Salette restaurata. Se l'autore la riconosce me lo segnali, così, come è giusto che sia, gliela attribuisco.

Ora “La Salette” non si vede più, è scomparsa dietro una “siepe” lasciata crescere a dismisura.























Personalmente mi sento espropriato di un diritto, il diritto di godere  della sua bellezza.
Non contesto di certo il diritto di proprietà, sia dell’edificio che dell’area che lo ospita, dei suoi proprietari. Ma ritengo che il diritto di godere della bellezza di quell’opera non appartenga solo a loro, ma sia di tutti, anche mio.
Immaginatevi se domani le nostre due chiese parrocchiali venissero nascoste da alte barriere; immaginatevi  se sui cancelli di villa Gnecchi venisse saldato un foglio di lamiera: non vi sentireste espropriati di qualcosa che vi appartiene, qualcosa di impalpabile, certo, ma anche concreto, la loro bellezza ?
Non so se questa  pretesa di essere titolare di un diritto alla bellezza abbia un senso:
Se sì potrebbero intervenire  per tutelarlo il comune o la soprintendenza.
Se no,potremmo cercare di sensibilizzare la proprietà, chiedendogli di soddisfare questo nostro desiderio.
Io ci ho già provato, con una mail che ho scritto un paio di mesi fa,  ma non ho ricevuto risposta.
Magari qualcuno con più charme di me potrebbe avere più successo. 


Marco Bartesaghi

STATUE DELLA FACCIATA DI VILLA GNECCHI di Marco Bartesaghi

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La villa di Verderio a tutti nota come Villa Gnecchi, nel 1919, alla morte del suo proprietario, Francesco Gnecchi Ruscone, passò in eredità al figlio Vittorio, quarantatreenne, musicista.

Negli anni venti del novecento, egli intervenne sull'aspetto esterno dell'edificio, in particolare sulla  sua facciata, e su quello delle aree verdi adiacenti, a nord e a sud.

L'intervento consistette soprattutto nella posa in opera di un certo numero di sculture di argomento classico, in pietra di Vicenza, realizzate dalla ditta Morseletto, un'azienda “specializzata in lavori ad imitazione dell'antico”.


 ***

Al termine dei lavori l'area a nord della villa si presentava con  una doppia fila di cipressi  che conduceva ad una fontana in cui, con un gruppo di statue, era messa in scena la caccia al cinghiale da parte di Meleagro e Atalanta, sotto l’occhio vigile di Diana.

 
Il parco di Meleagro sullo sfondo. In primo piano Maria Cristina Greppi. La foto risale agli anni quaranta del novecento. 

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Anche nell'area a sud, un prato conosciuto allora come Pratogrande, separato dalla villa dalla strada provinciale, fu realizzata una fontana, anch'essa caratterizzata dalla presenza  di un gruppo di statue. Al centro Nettuno armato di  tridente, con  ai  piedi  i tritoni e, davanti, quattro cavalli marini.






Il Parco di Meleagro, abbandonato a sé stesso dopo la vendita da parte degli Gnecchi, ha visto il declino delle due carpinate, del viale di cipressi che portava alla fontana e della fontana stessa. Quest'ultima ha subito gravi danni ad opera di ladri – vandali, che hanno asportato alcune delle più significative statue e ne hanno distrutte altre. Non sono più presenti neanche le statue del lato est, poiché non fecero parte della vendita e rimasero di proprietà degli Gnecchi.

È andata meglio al Parco di Nettuno, di proprietà comunale. Negli anni ottanta del novecento, con la messa a dimora di alberi e la realizzazione dei vialetti, ha assunto l'aspetto di un vero parco.
Recentemente un maldestro restauro della fontana ha purtroppo danneggiato i cavalli marini. In questi giorni si sta ponendo rimedio alla situazione creatasi. Speriamo che l’operazione sia efficace.


LE STATUE DELLA FACCIATA DI VILLA GNECCHI 

La facciata della villa, già prima degli interventi voluti da Vittorio Gnecchi, terminava, alla sommità, con una balaustra. Egli fece disporre sei statue sui pilastrini che la suddividono in segmenti. Altre due le fece installate nelle nicchie che affiancano le tre finestre all’ultimo piano dell’edificio.





Ho cercato di dare un nome ai personaggi delle otto sculture, riuscendoci solo in parte. È gradito l’aiuto di chiunque sappia individuare i personaggi rimasti senza identità, e di chi abbia da proporre  correzioni per eventuali  identità sbagliate appioppate agli altri. 

***

Non so dare un nome specifico ai due guerrieri delle nicchie della facciata,
 












così come al secondo personaggio da sinistra della balaustra, che non ha, mi sembra, attributi utili ad identificarlo.
 



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I due personaggi femminili potrebbero rappresentare Primavera. Entrambi infatti portano fiori: un cesto sorretto con le due mani, la statua dell’angolo di sinistra; 



 
un cestino in una mano e un mazzo nell’altra, accostato al volto come per sentirne il profumo, la quinta da sinistra.



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Ercole è riconoscibile dal fisico possente, dalla capigliatura, dalla barba e dalla pelle di leone legata in vita.


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La quarta statua da sinistra dovrebbe rappresentare Apollo. Lo si deduce, a mio avviso, dalla fluente chioma, dal corpo flessuoso e, soprattutto, dalla cetra che tiene appoggiata a terra, vicino al fianco sinistro.



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Il grappolo d’uva, accostato alla bocca,  in una mano, e la cornucopia colma di frutta nell’altra identificano Bacco, la statua posta all’angolo destro della balaustra.


NOTA:
Diversi articoli riguardanti Villa Gnecchi sono stati pubblicati su questo blog. Li potete rintracciare cliccando sull'etichetta "Villa Gnecchi".
Alcuni di questi articoli trattano specificamente del parco di Meleagro e del parco di Nettuno; un altro, attraverso il confronto fra  due cartoline,  mostra le differenze della facciata della villa fra prima e dopo gli intervennti voluti da Vittorio Gnecchi Ruscone

POTETE VEDERE ALTRE IMMAGINI DELLE SCULTURE DELLA FACCIATA DELLA VILLA GNECCHI, CLICCANDO SU  CONTINUA A LEGGERE L'ARTICOLO".






I VOLTI, partendo da sinistra
Primavera

























Personaggio sconosciuto


Ercole



















Apollo


Primavera

















Bacco

ALCUNI PARTICOLARI



















































ALTRE IMMAGINI


























CON LA MACCHINA FOTOGRAFICA A CACCIA DI SCULTURE DI SILVIO MONFRINI di Marco Bartesaghi

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Silvio Monfrini ritratto da un amicoi
Stimolato e incuriosito dalle parole di Elena Mutinelli, sua nipote, anche lei scultrice, e seguendo, almeno in parte, le sue indicazioni, mi sono armato di macchina fotografica e sono andato alla ricerca di opere dello scultore Silvio Monfrini

Prima ho visitato la chiesa parrocchiale e il cimitero di Usmate, il paese dove l'artista ha vissuto per molti anni e dove è sepolto nella cappella di famiglia; poi Milano dove sapevo di un monumento a Francesco Baracca, nell'omonima piazza, e di una scultura nel settore acattolico del Cimitero Monumentale; infine Monza dove nei giardini antistanti la stazione ferroviaria c'è un suo monumento dedicato ai caduti sul lavoro e dove, al cimitero, mi era stata indicata, non da Elena, la presenza di tre statue. 
La ricerca nel cimitero di Monza è stata la più avvincente. Non ho trovate le tre statue ma, girovagando fra le tombe, in poco tempo, perché era quasi buio e il cimitero stava per chiudere, ne ho trovate altre davvero interessanti, tanto da convincermi a programmare un'altra visita.

Finito questo itinerario reale, ho pensato di esplorare un po' internet per rintracciare qualche altra opera più lontana o non esposta al pubblico.

Buona visione.






USMATE 

IL CROCIFISSO DELLA CHIESA PARROCCHIALE















 AL CIMITERO
















  
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PER VEDERE ANCHE LE ALTRE FOTOGRAFIE CLICCA SU "CONTINUA A LEGGERE L'ARTICOLO"



MILANO

MONUMENTO A FRANCESCO BARACCA  








 SETTORE ACATTOLICO DEL CIMITERO MONUMENTALE







MONZA


MONUMENTO AI CADUTI SUL LAVORO *










* Queste fotografie sono state scattate da Gianmaria Calvetti


AL CIMITERO








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INTERNET

SAN FRANCESCO. MONTEROSSO, CONVENTO DEI FRATI CAPUCCINI






Fonte Wikipedia
MONUMENTO AGLI EROI DI KUC*. TRENTO




* Ufficiali italiani fucilati dai tedeschi a Kuc, in Albania, il 7 ottobre 1043


SITI DI ANTIQUARIATO ONLINE
















Marco Bartesaghi






























 

ELENA MUTINELLI, UNA SCULTRICE A VERDERIO di Marco Bartesaghi

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Elena Mutinelli è un'artista, dedita soprattutto alla scultura e al disegno, che vive e lavora a Verderio.
Questa intervista è il risultato di due lunghi incontri avuti con lei nel suo laboratorio. Era presente anche un amico, Gianmaria, al quale si deve una  parte delle domande a cui Elena ha generosamente risposto. Nel testo che proponiamo si è cercato di mantenere il linguaggio parlato della conversazione, per salvaguardarne la spontaneità.
M.B.



P.S. Questa intervista ha avuto una lunga gestazione. La chiacchierata con Elena è avvenuta nel luglio scorso. Nel frattempo nella sua vita sono avvenuti almeno due fatti importanti,uno felice,l'altro molto triste.
Elena è stata fra i primi quaranta artisti selezionati per il concorso Cairo Arte e una sua opera è stata esposta nella mostra allestita a Palazzo Reale a Milano.
Recentemente è morta Amalia Monfrini, sua mamma, una persona che, scoprirete leggendo,ha avuto anche un ruolo importante nella sua scelta di dedicarsi all'arte.

 
Elena Mutinelli

ELENA MUTINELLI, UNA SCULTRICE A VERDERIO 

Elena Mutinelli è nata a Milano nel luglio del 1967. Il padre Giovanni era stato per molti anni Ufficiale di Marina e, dopo il matrimonio, si era dedicato alla ricerca chimica. La madre, Amalia, era figlia dello scultore Silvio Monfrini, artista di rilievo del  novecento lombardo.

Elena è l'ultima di cinque figli, due fratelli e tre sorelle 


Disegno e scultura: perché hai scelto queste due forme per esprimerti artisticamente?
Il disegno è come la scrittura, è immediatezza di pensiero.
È la forma che più si avvicina alla mia personalità, al mio bisogno quasi frenetico di esprimere velocemente quello che voglio comunicare.
 


"Deposizione", Elena Mutinelli, 2005



Ogni mio disegno è un'opera a sé stante, non un “bozzettino”, un preludio alla scultura. Tant'è che, finché non sono del tutto svuotata, non lo abbandono, anche se sembra improvvisato e non è né rifinito, né iperrealista o fotografico. È più di profondità psicologica e gestuale.
 

Quindi, quando pensi a un disegno e poi lo realizzi, quello è ...
Sì, quello è. Poi, da quel disegno, ne può scaturire tutta una serie, che è lo sviluppo del mio sentire in quel dato momento.
Oltre ai “disegni” veri e propri, faccio gli “schizzettini”, che mi possono servire per il mio lavoro. Li faccio su fogli A4, su cui scrivo note o inserisco il nome di qualche grande autore che mi ricorda quello che voglio esprimere.


Un bozzetto di Elena Mutinelli


E la scultura?
Nella scultura l’ispirazione si rinnova man mano che prosegui nel lavoro. Dopo la sgrossatura ti fermi e, se nel frattempo non hai deciso di rifarla, riprendi dopo un po'. Poi la rifinisci. Il processo è molto lungo.
Alla “visceralità” del disegno si sostituisce la “contemplazione”.
 


Scultura in marmo di Elena Mutinelli


In comune, disegno e scultura, hanno una  forte caratterialità  di chiaro e scuro, che fa parte della forza che io voglio mettere nella mia opera.

La pittura?
La pittura mi interessa meno, perché  vedo le cose in “bianco e nero”. Anche quando penso al rapporto fra colori, non penso al rapporto, che ne so, fra vermiglione e giallo, verde e rosso. Penso al valore cromatico… fra luce e ombra, fra chiari e scuri.
Anche Caravaggio, per quanto fosse un grande del colore, badava soprattutto alle luci e alle ombre e usava pochissimi pigmenti: un terra di Siena bruciata, un nero, un bianco di zinco, un piccolo giallo cromo, un vermiglione, tutti insieme quattro o cinque colori. Un po’ di rosso sulle punte delle dita, quando non erano troppo in ombra. Il risultato, secondo me, è una profondità plastica, non solo cromatica.
La pittura, in cui io comunque non sono capace come nel disegno e nella scultura, ha a disposizione il grandissimo artificio del colore. Un’illusione forte e così persuasiva che a volte abbaglia più di quanto tu voglia mettere nella tua opera.
Il disegno è spoglio, non ha bisogno di artificio.


Restiamo allora su disegno e scultura: quando ti avvicini all’una e quando all’altra di queste due forme di espressione?
A volte faccio tutte e due insiemi, così come a volte faccio più sculture insieme.  Adesso, ad esempio, ne sto facendo due: una è una commissione, ma la sento; l’altra non mi convince, ma la continuo.
Questa mattina mi sono messa a studiare e vorrei già farne un’altra, però cerco di non disperdermi. 


Modellare la creta, scolpire il marmo: anche a questi due tipi di espressione ci si accosta in modo diverso?
Il rapporto che ho con il marmo è così… come dire… lo conosco così bene che è una pratica quasi confidenziale. Fin dall’inizio capisco qual è il blocco che posso utilizzare e so che non mi crollerà mai.
Spesso e volentieri, sul marmo ho lavorato direttamente, senza modelli, solo sulla base di quello che avevo in mente o di  disegni e bozzetti molto piccoli. Non è un vanto, è la verità.
Con il marmo ho la tranquillità di sapere che, anche se si dovesse rompere, sarei in grado di intervenire totalmente.

Sulla creta faccio un buon lavoro a livello espressivo e so di poter intervenire in poco tempo, ma a volte, purtroppo, la scultura mi cade, o perché troppo pesante, o perché  il peso è fuori baricentro e non calcolo la portata del peso della creta durante l’esecuzione dell’armatura.
Per esempio il “Pirata contemporaneo” , che vedi lì, ispirato a  un testo di Jung … una notte, mentre dormivo, ho sentito un suono... wumm... caduto!
 

In primo piano"Pirata contemporaneo"
Una faccia di  80 cm  caduta, dopo due giorni di lavoro in cui sembravo quasi  posseduta.  Un miracolo, mi ero detta, non mi succederà mai più,  in così poco tempo, di fare una cosa così, che proprio è come se mi guardasse...  Caduta!

Perché è caduta?
Prima è caduta la parte del volto, che era troppo morbida, molto molto pesante, essendo grande quasi metà del mio corpo, e aveva una linea di torsione sulla sinistra. Pom! Caduta quella, l’altra parte non ha retto e la scultura è caduta dall’armatura, che era troppo liscia e non perfettamente a piombo.
Preferisco il marmo, dal punto di vista della serenità, anche se  è più faticoso, più lungo, sembra che  non si finisca mai.


Ti capita di avere ripensamenti sulle tue sculture?
Caspita, altroché. A volte le lascio a metà. A volte le sgrosso, poi le riguardo, le distruggo e le rifaccio da capo.
Ho ripensamenti  anche su quelle finite: le osservo, magari un paio di anni dopo averle fatte,  e vedo che sono parte di tutto un discorso.
A volte mi accorgo che alcune opere che avevo trascurato  sono più pregnanti di altre che a suo tempo pensavo essere definitive.
Sì, ho tanti ripensamenti…


Quando dici “sgrosso”, ti riferisci solo al marmo o anche alla creta? Con la creta si aggiunge o si toglie?
Aggiungo e tolgo.
Uso il verbo sgrossare, ma potrei dire anche “smodellare”: spoglio la forma da quello che vedo fuori, lavoro sui vuoti per trovare il pieno, lavoro sui profili del volume togliendo la massa in eccesso e trovando la forma finale che è dentro, osservo il vuoto esterno per intuire cosa contiene al suo interno.

Spesso e volentieri faccio grandi blocchi informi di creta. In quei blocchi vedo le forme che mi interessano, le imposto come le ho in testa e man mano tolgo la materia con  grandi occhielli (o mirette), che mi sono costruita.

 

Opera in creta in lavorazione, Elena Mutinelli


Parto sempre da qualche cosa da cui togliere.  Ad esempio quando devo dare la profondità dello sguardo entro  con dei legni tagliati di profilo.  Vedi, per fare questi volti entro dentro così e poi, piano  piano, pigio la creta e do la forma. Per lavorare sul grande costruisco stecche con  le doghe dei materassi.
Sgrossando non vedo il particolare, vedo solo le luci e le ombre, la tensione di quello che voglio fare.
Quando poi entro nei particolari devo stare molto  attenta che questi non rendano debole la scultura, perché a volte parlare troppo è come dire niente. Per questo devo avere molto presente l'intenzione che mi ha spinto a fare quella scultura  e  non perderla, per non indebolire il risultato.
Ultimamente ho fatto due centauri, uno stretto all’altro, con una forza emotiva fortissima. Li ho chiamati “I centauri innamorati”. Penso, in quest’opera,  di essere riuscita ad esprimere la  forza vitale  che voglio descrivere nel mio lavoro, e che, a mio avviso, è propria della scultura.



"Centauri innamorati", Elena Mutinelli
Ho “cercato” un cavallo in movimento che fosse una sorta di... due uomini che si prendono con  grande tenacia, con  grande forza si tirano e diventano materia. Non sono per niente descritti, ma se ti allontani li vedi benissimo. Credo di aver raggiunto una certa magia perché sono riuscita a fare qualcosa di nuovo attraverso il già detto.


Alcune tue opere, soprattutto quelle in marmo e quelle in resina, sono perfettamente levigate, in altre si vedono dentro le tue mani…
Sì, la pastosità. Quelle perfettamente levigate sono rare e, secondo me, meno espressive. Anche in quelle però faccio sempre mancare qualcosa, perché la figura non sia descritta nella sua totalità
Trovo  sia più difficile fare una scultura meno finita, che farne una perfetta. Oggigiorno c'è il desiderio di cercare una verosimiglianza quasi ostentata. Poi, per depistare lo sguardo e mimetizzare l'oggettività iperrealista, si inseriscono cose, oggetti di tendenza per contestualizzare l’opera alla contemporaneità.


Quindi ti ritrovi di più nelle opere meno levigate ...
Certamente, il problema è che i galleristi le amano di meno… anche perché molti sono degli incompetenti, a cui non piace vedere i segni del lavoro…


 

Opera in cotto di Elena Mutinelli

Devo dire che l’ultima mia gallerista  ha una sensibilità diversa; forse perché proviene da una famiglia di artisti, percepisce esattamente il valore dell’arte.

Come si guarda una scultura?  
Io la guardo sempre con gli occhi socchiusi, anche se adesso ho paura che mi si vedano le rughe. 

E non guardo così solo le sculture. L'altro giorno in metropolitana mi sono sorpresa da sola. Ho socchiuso gli occhi perché ho visto un volto che mi piaceva tantissimo: una ragazzina che aveva delle labbra da” quattrocento”. Mi sono detta “ma dove le trovo delle labbra così?”, con tutte le labbra gonfiate che ci sono in giro. A un certo punto ho fatto così  [Elena socchiude gli occhi] - lei mi ha guardato con una faccia! -  perché dovevo capire, nonostante i neon, i chiari e gli scuri; capire la profondità espressiva dei segni più profondi marcati dalla luce radente.

E gli occhi socchiusi?
Gli occhi socchiusi aiutano tantissimo – provaci -  perché ti aiutano a non puntare sul particolare. 




 



È un trucco tuo o una cosa che si fa abitualmente?
Avevo un professore di anatomia molto bravo, Salvatore Esposito - un grandissimo artista,  è lui che mi ha insegnato a disegnare veramente bene – che mi diceva  “socchiudi gli occhi e riuscirai a penetrare nella forma”.
Quando socchiudo gli occhi, riesco a capire  il valore di tutti i chiaroscuri: quello più scuro, quello meno scuro, il mezzo tono e  non mi sbaglio.
Volendo potrei fare un disegno solo guardando il profilo dell'oggetto da disegnare;  ma solo quando  entro a fare tutti i valori chiaroscurali riesco  a far venir fuori la forma, a farla venir fuori dal foglio, e questa è la cosa importante.
Guardare a occhi socchiusi è una regola valida anche  per chi dipinge. Quando d'estate scendo al mare dalla casa di mia mamma, in Liguria, alle tre e mezza del pomeriggio  (scendo sempre a quell’ora) c’è un’ombra. Mi capita spesso di pensare al colore che dovrei usare per dipingerla. A memoria  la farei in un certo modo, ma per capire il giusto colore devo togliere l'ombra dal contesto del paesaggio. Socchiudendo gli occhi riesco a vedere di che natura è quel colore, senza pensare alle cose che ha intorno.



La prima volta che sono venuto qui, nel tuo laboratorio, sono stato colpito nel vedere le statue negli scaffali. Molte di loro le avevo già viste in due mostre, a Muggiò e a Monza, disposte con un certo ordine, in un percorso predisposto. Qui sembra invece un dietro le quinte, hanno un aspetto più confidenziale...
Qui può essere anche più intimo, ma sono tutte così ammassate che non riesci neanche a renderti conto…



Nel laboratorio di Elena Mutinelli

Non dico che sia più bello qui che là, ma sono due modi diversi di vederle. Ho pensato che mentre puoi guardare un quadro astraendoti da quello che gli sta intorno, limitando lo sguardo a ciò che è compreso nel perimetro, nella cornice,  la percezione di una scultura risente  molto di più dell'ambiente in cui è collocata…
Certo, la  scultura cambia a seconda di dove è inserita, per il contesto di luce o di spazio.  Oppure tematico: mettendo vicine due sculture di diverso periodo o di diverso stato d'animo, una lieta e l'altra no, si può creare un contrasto che attira l’attenzione, o una dissonanza che la allontana.
 

 
Estate 2016. Opere di Elena Mutinelli in mostra ai Musei Civici di Monza


Qui in laboratorio non si  riesce  a comprendere  come ho  pensato l'opera  in base allo spazio: alcune di quelle che vedi sono state pensate per essere da sole, e qui non lo puoi capire. Quante volte cambio, anche qui, la loro posizione.

L'ho notato. Anche dall’ultima volta che sono venuto la disposizione è cambiata. Per chi lo fai?
Per me stessa. A volte non mi piace in quel posto lì, oppure penso che si veda male.  Qualche scultura non la voglio proprio vedere e la caccio dietro alle altre. C’è stato un periodo che le avevo in casa, a Osnago; volevo coprirle tutte, con loro intorno non riuscivo più a lavorare. Pazzesco.
 

 
Uno sguardo al laboratorio di Elena Mutinelli


Quelle che adesso ho esposto a Firenze alla galleria ETRA Studio, una galleria storica, situata nello studio di Benvenuto Cellini. hanno assunto tutto un altro valore. Lo si deve alla gallerista, che ha un’idea romantica dell’approccio alla scultura,  più vera, meno tecnologica.

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Soggetto della tua ricerca è il corpo umano, che quasi mai, però, nelle tue opere , appare completo. Perché?
Eh sì. Sarebbe come dire troppo, non so come spiegare. Come dire? Potrei mettere  anche un volto insieme a tutto il resto… potrei farlo benissimo e sarebbe magari una bella opera... Però più importante è la forma del corpo, la contrazione del suo addome o la mano che scrive su una carta.
 

Due opere di Elena Mutinelli

Ad esempio, del San Gerolamo, nella sua iconografia classica, che è bellissima, non guardo mai la totalità. Guardo  la sua mano vicino al “vanitas”.
Anche i volti in Rembrandt, sono sì dei volti, e quindi sembrano un opera finita, ma in realtà sono nell’ombra, sono  quasi solo una notazione della sua profondità psicologica.
Ho l’impressione che dire tutto sia come togliere la possibilità di entrare nel racconto da parte dello spettatore. Per me è già finito lì, non ho bisogno di fare il resto, perché è come se ci fosse.
Se vediamo un cerchio non finito, a cui manca un pezzetto, per noi è comunque un cerchio.

Poi magari un giorno cambierò idea, no?

I tuoi ritratti non sono mai di rappresentanza, “foto ricordo”:  hanno sguardi intensi, aggressivi o malinconici…
È  vero. La fisiognomica mi piace molto. Ottengo la loro espressività lavorando con la stecca: li vedi così forti, con questo sguardo truce, perché con la stecca posso entrare in loro, penetrare nelle loro membra. Entrando è come se riuscissi a immedesimarmi.

 
Volti realizzati da Elena Mutinelli


Le mie opere  sono molto drammatiche, anche se nella vita sono una che sdrammatizza sempre e penso di essere abbastanza ironica. Poi magari ho fasi di depressione totale o di ansia, quando ad esempio devo fare delle cose e mi sembra di non avere il tempo.
Mi piace tantissimo  anche la caricatura e ora voglio provare a entrare in un linguaggio leonardesco. Leonardo era molto forte nelle caricature. Anche nel grottesco riusciva a trovare la signorilità dell'opera d'arte. Voglio sviluppare questo aspetto caricaturale e proporlo  alla galleria, che magari mi dirà “sei pazza, non ti tengo più”.




Un lavoro a metà fra il drammatico e il caricaturale, tutte e due le cose.


Da alcuni dei tuoi ritratti ci si sente scrutati, indagati, non solo guardati come è normale. Penso, ad esempio, a due sculture: “Sola” e “Persus, guerriero metropolitano”; a un autoritratto a matita, “Penia, autoritratto,2004”, dove sei così truce…
Sì, ero troppo intenta, me lo stavo facendo allo specchio. Vedersi  e riconoscersi non è facile: bisogna nello stesso tempo vedersi ad occhi socchiusi, per astrarsi, e  vedersi ad occhi aperti…




"Sola", Elena Mutinelli, 2002





























"Persus, guerriero metropolitano", Elena Mutinelli, 2008

"Penia, autoritratto", Elena Mutinelli, 2004



























… e a un altro disegno, “Matrona, 2005”...
… Ah, la matrona sì. Queste donne sono cannibali,  sembra  ti divorino. Un' umanità che è ancora presente, con  sguardo truce, ma che non ha più dignità di sé stessa. In questi disegni è molto presente la vecchiaia -  perché è materia, è possente - e  il rapporto con il cibo che ci nutre, ma che noi divoriamo come se non fossimo mai sazi di quel che desideriamo nella vita: non ti basta mai niente, non sei mai contento, hai sempre paura di perdere qualcosa.





 
"Matrona", Elena Mutinelli, 2005

A me  succede tantissimo. Non sono attaccata a niente ma, paradossalmente, ho sempre paura di perdere qualcosa. Non riesco  a capire perché sono così: forse il non essere stata sempre nello stesso posto, l’aver cambiato troppe case, troppi studi, troppe gallerie. Tutto questo, forse, mi fa mancare il senso di stabilità.
Faccio fatica a liberarmi delle mie sculture, quando le vendo sto male, anche perché non so chi le abbia. È come se una parte di me andasse via.
Da una parte, regalo cose, mi disfo dei mobili, ricomincio da capo, ma, da un’altra parte, sto malissimo perché ho tutto in giro... non so come dirti…
Quello che ho cercato di esprimere in queste donne è  il lato oscuro, quasi bulimico: non ti mancano le cose, però ti abbruttisci a rivolerle e continui a mangiare. C’è senz'altro un po’ di autobiografia.


Questo  aspetto è quasi esasperato nel disegno intitolato “È tardi, ora sei preda del bulimico cannibale”, ritratto di una donna che mangia, o meglio, “sbrana” un animale, forse un agnello…
Un coniglio. Mi ricordo ancora che ero andata a prenderlo da un ligure, vicino a Zoagli, gli ho detto“mi dia quel coniglio lì”  - “glielo devo pulire?” -  “no lo lasci così e lo tenga lì perché deve essere ancora rosso” : dovevo andare in spiaggia  e non potevo farlo  arrivare a casa cotto.
Alla sera, quando sono arrivata a casa, ho detto a mia  mamma: “mamma, ti prego, posa perché abbiamo pochissimo tempo”.
 

 
"È tardi ,ora sei preda del bulimico cannibale", Elena Mutinelli, 2012

E lei ha posato nuda, a ottanta e passa anni. Per fare quello sguardo ho pochissimi minuti a disposizione, non posso farlo dalla foto perché non sarebbe la stessa cosa. Anche  le mani quando posa, oppure la bocca, quando mangia così o mi guarda stravolta.
Quella donna è proprio mia mamma. Poi per non farla identificare, se no mi ammazza, le ho cambiato la fisiognomica.


In questo disegno, al corpo di una donna hai messo il volto di una tigre…
È  una mia amica di Milano. A quel tempo aveva 45 anni, era anoressica. Una nota professionista, sempre sul pezzo… poi è guarita - guarita insomma, va su e giù, non se ne esce mai. 
 

"Affamata", Elena Mutinelli, 2005

Con la figlia di Milva, Martina Corniati, una grande critica, molto sensibile, dovevo fare, per la città di Trento, un lavoro sull’anoressia  e la bulimia, che poi non è andato in porto. Allora ho chiesto a questa mia  amica di posare per me, pensando anche che potesse essere un modo per tirarla fuori.
Ma era talmente magra che mi faceva male vederla e non ho avuto il coraggio di ritrarla dal vero. Le ho fatto le foto dall’alto della scala e poi ho messo insieme lei e il volto di una tigre che si voltava. Penso che l’anoressia sia un atto predatorio, dove tu sei preda di te stesso.





Mani. Ora tese, che si aggrappano a funi o a corpi, quasi penetrandoli; ora distese, intrecciate, appoggiate alla pelle. Perché le mani sono così presenti nella tua opera?


"Nodi nelle pieghe dell'anima", Elena Mutinelli, 2007




"Eros nello stomaco", Elena Mutinelli, 2009


















Quello che abbiamo avuto a disposizione all’inizio della nostra vita per imparare sono le mani. Loro sono le prime che prospettano un dialogo, pur non avendo una verbalizzazione; la loro gestualità è fortissima; sono le nostre intenzioni quotidiane.
 

Elena Mutinelli durante la finitura di un'opera in marmo

Con le mani fai tutto: ti prendi cura, puoi avere un gesto violento, hai capacità di operare e quindi di esistere. Sono espressive.
Non farei mai un corpo senza mani, tanto è vero che “A volto coperto” almeno ce le ha qua.


"A volto coperto", Elena Mutinelli


Alcune le fai immense…
Sì, come fossero altro dallo stesso corpo, come se qualcosa ti venisse a prendere o come se tu con le tue uniche mani potessi reinventarti. Sì, si, sono volutamente immense,

 

Opera in creta di Elena Mutinelli
Conta di più la loro forma o la  loro gestualità?
La gestualità. Ci sono mani bellissime di donne, che adesso apprezzo anche di più, però mi affascinano meno. Sono belle, aggraziate, ma non hanno quell’espressione in cui io mi identifico.


Di uomini o di donne, di vecchi o di giovani, che siano “belli” o no, i tuoi corpi sono nudi: cosa è “il bello” ai tuoi occhi di artista?
Il corpo bello, il volto bello è quello espressivo, che racconta. Di sicuro non è quello perfetto.
 

 
"Ritratto di donna inesistente", Elena Mutinelli, 1993


Forse non è carino da parte mia dirlo, ma l’ esempio rende: ci sono artisti contemporanei, che lavorano molto in Trentino, che fanno dei legni così ieratici che le loro opere mi sembrano vuote, fredde. Non puoi fare neanche la caricatura di qualcosa che non ha espressione.
Il muscolo racconta, parla, perché è una vibrazione.
 

"Acrobati", Elena Mutinelli, 2004

Preferisco un fisico atletico, un fisico che abbia una certa virilità nella postura. Può essere anche di un vecchio: San Gerolamo era vecchio, non era atletico, però nelle sue rappresentazioni si vede anatomia ed è una cosa molto bella, anche nella magrezza.
 

 
"San Gerolamo", Caravaggio


Il corpo bello è quello che non ti tradisce, che non usa troppi giochi d’artificio. Un conto è il costume o il trucco, che è una tradizione, altro conto è il travisamento della fisiognomica, attraverso la chirurgia.


Quanto mi hai detto vale anche per il corpo femminile?
Si, sì, vale anche per la donna.


I tuoi personaggi non hanno mai pose distaccate: si abbracciano si toccano. Quanto sei consapevole dell’erotismo presente nella tua arte?
 

"Temistocle", Elena Mutinelli, 2004




Ne sono consapevole perché l’erotismo è vita, nel senso di desiderio, e l’atto creativo è desiderio. Come artista potrei mettermi a fare  un'opera qualsiasi, ma sarebbe solo un atteggiamento edonistico. Devi desiderare di fare qualcosa che senti. Ti deve partire da dentro.
 

Sì. Sono consapevole che ci sia una grande componente erotica, però dal punto di vista bello, mitologico, di racconto dell’eros in quanto spinta vitale, di soffio di vita.
Per esternarlo la cosa più bella è essere come siamo: nudi, in un momento di congiunzione che sia quasi un riconoscersi l’uno nell’altro.
 





Il fisico che compenetra nel fisico dell’altro e magari diventa anche l’altro, in una sorta  di metamorfosi, è bello dal punto di vista di racconto, perché la forma cambia e non è più il corpo, ma già una sua trasformazione. È  bello anche dal punto di vista del contenuto: essere l’altro, identificarsi nell’altro.Tanto è vero che quando l’amato o l’amata ci sfugge ci diciamo, o ci dicono: “ma riprenditi”, cioè riprendi una parte di te, perché tutto quello che tu hai già raccontato a lui, o a lei, se n’ è già andato con lui, o con lei.
 

Lo stesso succede nell’atto creativo. Quando finisci una scultura dici, molto poeticamente, che non ti appartiene più. Ma è proprio così: non ti appartiene più... Tu non vorresti distaccarti perché ti dispiace, perché poi magari non la vedi più, però è già altro.
Invece  l’unione forte, in cui non sai esattamente cosa stai facendo, è il momento in cui tu la stai creando.


Probabilmente, anzi certamente, se tu fossi vissuta poco più di un secolo fa, nell’ottocento, in quanto donna non avresti potuto fare queste opere…
No di certo, i nudi no.
E a parte i soggetti, anche fare l’artista per una donna non era facile. Una mia prozia, Anna Mutinelli, nata nel 1851, pittrice, era molto brava nei fiori, nei ritratti e nelle nature morte; era stata  allieva del Fattori e del Barabino. Lei ottenne dalla famiglia di poter vivere per conto 


 
Un quadro di Anna Mutinelli (da internet)

suo solo perché insegnava all’Accademia di Firenze. Come “artista” tanta indipendenza non le sarebbe mai stata concessa. Alla famiglia andava perfino  bene  che non fosse sposata e avesse un amante, ma solo perché si trattava di un grande letterato, Diego Garoglio, e a condizione che nessuno lo sapesse.
Per quanto mi riguarda, se fosse stato per mio padre non avrei fatto questo lavoro. Per lui, classe 1923, era impensabile che, dopo gli studi, non mi sposassi e non facessi la casalinga o qualcosa di simile. Mi lasciava fare di tutto,  “tanto - diceva - voi donne poi prendete un’altra strada”, quella del matrimonio...


La corda, vera o scolpita o disegnata, è una presenza ricorrente: perché?
Perché rappresenta la tensione e la tensione è come la spina dorsale delle cose, è quella che le regge, è il filo conduttore. È anche il filo d’Arianna, che sa tirare, ma anche attendere.
 

 
"Lui ama lui", Elena Mutinelli, 2004

La corda, per me, non è un elemento decorativo, ma pregnante, perché  unisce le nostre  storie, i nostri racconti.
Quando metto insieme corde e frammenti umani, cerco di appuntare i profili di ognuno di noi aldilà delle convenzioni sociali, del ruolo  che ricopriamo come professione, come individuo, come riconoscimento - insegnante, professore, ecc... Siamo noi spogli, siamo noi con le nostre imprese quotidiane.


Una volta mi hai detto che avevi scolpito una corda anche come sfida manuale, tecnica.  Quando ho visto una corda scolpita da Michelangelo, mi è venuto in mente quello che mi avevi detto...
Sì, anche Bernini ne ha scolpite, anche Sammartino.
Avrei potuto prendere una corda vera, portarla dal fonditore, metterla nella cera, bruciarla e fare il suo calco, fare la fusione. Così fanno in tanti: delegano.
Io penso  che ogni elemento che diventa parte di una mia  scultura debba essere scolpito da me.




"Zeus e Pandora", Elena Mutinelli, 2010


Però mi piace inserire anche materiali poveri, per questo uso anche corde vere.

Alcune tue opere più esplicitamente di altre sembrano contenere un messaggio. Ne cito qualcuna: “Nel segno di eros”, “Proteggi Davide”, “Nessun manifesto principio”, “Ingorda”, “Folle matrona ingorda”, “È tardi ora sei preda del bulimico cannibale”. C’è un messaggio di fondo che vuoi trasmettere con la tua arte?


"Non mollare la presa", part., Elena Mutinelli,2006

"Nessun manifesto principio", Elena Mutinelli, 2003

























Sì, che  siamo parte di un processo, che questo processo va continuamente raccontato e io desidero raccontarlo.
Voglio trasmettere che attraverso l’arte possiamo avere idea della vita eterna, anche se non crediamo. Ognuno di noi, anche nel dramma, ha una forma di eternità, ecco perché non deve mollare la presa.
 

Con  il “noi” non intendo noi artisti, intendo ognuno di noi. Anche chi non ha un nome, un titolo su un biglietto da visita, c’è, ed è lui, solo per il fatto che esiste, che è consapevole di quello che può fare e che desidera fare e che fa.
E voglio dire anche che c’è un atto evolutivo dalla vita alla morte.
La cosa che mi preoccupa di più è che  non abbiamo più voglia di parlare di vita e di morte, perché pensiamo sia un discorso che appartenga al passato. Così non viviamo niente, non viviamo neanche questo tempo così veloce.
Le mie sculture quando dicono “È tardi ora sei preda del bulimico cannibale”, vogliono dire che ti sei fatto divorare da un tempo che non hai vissuto, che non sei stato capace di praticare, di avere la virtù di sondare.
Ognuno di noi ha un’opportunità, che è anche un’opportunità di pensiero: l’arte è, per me, questa opportunità. Non vorrei essere retorica, ma penso che questa per me sia una forma di preghiera. 

“Proteggi Davide”è una scultura che ho fatto per caso. È un abbraccio tratto da un’altra scultura “Lui ama lui”: ho cercato di analizzare nel marmo come fosse possibile creare un panneggio bagnato e ho pensato a queste mani che tenevano insieme una placenta attraverso un manto, fino ad arrivare al nocciolo, al feto.
 

"Proteggi Davide", Elena Mutinelli, 2010

Ne è uscita un'opera, secondo me,  molto concettuale: “Proteggi Davide” significa  proteggiamo la genealogia di Davide, ossia proteggiamo la vita, quello che nasce in noi, anche nell’atto creativo. Cerchiamo  di non  castrarci ogni volta. Nel mio caso, ad esempio, pensando “devo fare questa cosa perché è ciò che il mondo dell’arte contemporanea vuole”.  Perché c’è la censura sull’arte figurativa, che è  denigrata perché sarebbe banale.

 
"Proteggi Davide", Elena Mutinelli, 2010

“Proteggi Davide”è anche una storia della mia famiglia. Mio nonno, il padre di mio padre, insegnava all’università di Bologna  e aveva protetto degli ebrei in casa sua.  Poi questi ebrei sono diventati suoi parenti, ossia  le mogli dei fratelli di mio padre. Il nonno mi ha raccontato un sacco di cose. Aveva una cultura umanistica fortissima e quando mi raccontava della genealogia di Davide, anche se non era  credente, mi parlava della gestazione di culture. In questo senso ho scelto di chiamare la mia scultura“Proteggi Davide”.È una cosa molto intima.

Tu sei credente?
Credo, ma non sono religiosa, per quanto a volte mi venga voglia di pregare, e a mio modo prego.
Ho studiato tanto i testi di monsignor Ravasi, ne sto leggendo uno anche adesso, e alcuni testi su Dio di Testori. Ho letto un bellissimo libro di una suora teologa sulla storia delle religioni monoteiste.
Ho avuto una certa formazione religiosa ma non troppa, forse più culturale… a volte troppa cultura non va bene. Comunque la religione a cui faccio riferimento è quella cristiana: se mi rivedo, mi rivedo in Cristo, se devo avere un dubbio, ce l’ho in Cristo.

Hai fatto opere di carattere religioso?
Sì, una Pietà e adesso vorrei farne un' altra.


Come scegli i tuoi soggetti?
Di pancia o attraverso un grandissimo studio:  sono come  figure che si presentano.
A volte mi vengono in mente delle immagini, o perché una lettura mi ha illuminato  o ascoltando storie di altri.


Capita che sia un committente a chiederti un soggetto particolare?
Adesso succede sempre.
Il tipo di committenza che conosco  è particolare: sono come  pionieri che amano collezionare arte e non sempre si fanno guidare dai consulenti artistici. Hanno lo spirito di persone che  vogliono conoscere e non  solo quello di accumulare soldi. Chi vuole speculare economicamente sull'arte, non viene certo da me.
Con questo tipo di committenti lo scambio di opinioni è fortissimo. L’imposizione da parte loro senza dubbio c'è. A volte, tendono a voler essere loro stessi gli artisti. Vengono e mi dicono: “ vorrei un pezzo così, vorrei vederci dentro questa cosa…” . Cerco di capire quello che vogliono, se hanno le idee precise, e cerco di capire cosa possono evocare in me. A volte preparo dei bozzetti che poi rimangono lì, perché per  loro sono troppo aggressivi. Allora faccio qualcosa d’altro.
Resta il fatto che comunque, anche se si parte da un'idea che hanno avuto loro, alla fine vogliono un pezzo che sia mio, se no non  sarebbero venuti da me.
 

Quel teschio là  non lo volevo fare, poi alla fine mi è piaciuto tantissimo farlo in marmo,  tutto a mano, a punti. Ci ho messo due anni.


 





Una cosa che bisognerebbe riuscire a far capire al pubblico è che non c’è solo l’idea di consumo dell’arte e  quindi di produzione continua. Ogni artista  ha dietro una storia: Käthe Kollwitz per farsi un autoritratto ci ha messo due anni; Adolfo Wildt è rimasto dieci anni senza lavorare perché era in piena depressione e gli pareva di fare  cazzate; lo stesso Rodin non so per quanti anni non ha fatto niente...
Invece siamo in balia di mecenati e galleristi  che  continuano  a spingere perché tu produca… mamma mia, è una cosa pazzesca!  E poi non c’è chi compra. Devi produrre per  grandi mercati in India, in Cina,  dove poi rifanno i pezzi uguali…


Quali sono gli artisti che più ti hanno influenzato?
Ci sono artisti che mi piacciono molto come Ducrot, che è stato un grandissimo, Bourdelle, che è stato l’artigiano di Rodin, Velasquez, Rembrandt, Géricault, Daumier, poco conosciuto per la scultura.
Di  Dalí alcune opere mi piacciono tantissimo; mi piace Giacometti. .
Mio nonno era bravo sicuramente, pur non essendo così conosciuto.
Mi piacciono anche scultori completamente diversi, anche i concettuali: Brâncu?i, Käthe Kollwitz. Ma dire che mi piacciono è dire poco. Tutti questi artisti sono come dei padri spirituali, mi hanno ispirato profondamente.
Per quanto io faccia le mani, Rodin mi ha ispirato molto meno di quanto gli altri pensino. 
Per me è stato molto più importante Käthe Kollwitz, che tra l’altro ho conosciuto perché una persona  mi ha detto“guarda, quella è un  Käthe Kollwitz” e allora me la sono studiata tantissimo.
Mi sono scordata di citare  Medardo Rosso, molto bello, e la scapigliatura, che è la nostra cultura milanese: Grandi, Graziosi, Pelizza da Volpedo, grandissimo secondo me…


C’è un suo ritratto in questi giorni sul manifesto che pubblicizza una mostra a Ferrara, lho visto sul Corriere della Sera…
“Il dolore”, ma che bello che è! Dovresti vederlo dal vero! Lì c’è di tutto, il dolore, il mistero della vita, l’abbandono  di ogni cosa. 

Pelizza da Volpedo. Foto da "Corriere della Sera"
Sei influenzata da altre forme di arte?
Sì, soprattutto dal teatro e dalla danza.

Ci sono poesie o poeti che ti hanno ispirato? Una volta mi hai parlato di una tua opera legata a una poesia di Rilke…
Della poesia non sono una conoscitrice, solo alcune mi ispirano.
Rilke, si era innamorato di un’allieva di Rodin ed era diventato suo segretario, avendo così modo di ammirare da vicino la sua scultura. Ho conosciuto Rodin attraverso Rilke. 
In Rilke  vedo le luci e le ombre che interessano alla mia arte; sento la voce che ci collega all’eterno, che non è religiosità, ma  senso di appartenenza a una totalità.
Nella  poesia di Rilke, come nella letteratura greca, ritrovo la parte trascendente, non mistica, del mio lavoro. Con il canto, e più in generale con l’arte puoi raggiungere quel senso di eterno che ti permette di congiungerti con la morte.




A tuo nonno, lo scultore Silvio Monfrini, abbiamo solo accennato. È ora di parlarne più a lungo. L'hai conosciuto?
No, non l’ho conosciuto. Ho tanti suoi scritti, bellissimi, le sue foto e ho presente i racconti di mia madre. Mi ricordo di lui quando nel letto mi ha fatto il ritratto ...

 
Silvio Monfrini



Ma allora l’hai conosciuto?
Ma ero piccolissima, avevo due – tre anni, è morto nel ’69. Mi teneva nel letto a dormire e manipolava la creta. Vedevo la sua vestaglia che andava avanti  e indietro, altissima. Questa è l’immagine che ho di lui.

Partiamo dall'inizio. Silvio Monfrini è nato a Milano il 19 febbraio 1894 e morto a Usmate il 3 novembre 1969…
Sì, la sua famiglia era di Milano, città dove aveva vissuto e lavorato. Poi però l'aveva dovuta lasciare  perché affetto da una fortissima forma di asma dovuta al lavoro - per quanto non lavorasse il marmo e prediligesse  il bronzo.
In un primo tempo si era trasferito a Monza. Poi, consigliato dalla  famiglia, in particolare dal fratello Giuseppe, podestà del paese e titolare di un'impresa di costruzioni che aveva costruito molto in Brianza, si era spostato a Usmate.
 

Il giovane Silvio Monfrini

Fu una sorta di riconciliazione con la famiglia, che in precedenza lo aveva  abbandonato  a sé stesso, perché, in quanto artista, era considerato incapace di gestire il  patrimonio economico. Ed era vero, perché lui lo aveva dilapidato.
Abbandonato dalla famiglia, non aveva potuto godere dei suoi beni e aveva dovuto fare tutto da solo, grazie a sua moglie, mia nonna che lo sosteneva con il suo stipendio di maestra.
Però poi, proprio con la sua arte, ha fatto una fortuna incredibile. Ai suoi tempi il lavoro di scultore, nell’ambito della statuaria, era molto riconosciuto, non solo dalle gallerie, anche dal privato, e non solo per  la commemorazione funebre: le grandi famiglie si facevano fare i ritratti o volevano sculture con una tematica. Insomma ce l’ha fatta.
Con lui hanno lavorato tanti grandi artisti: Manzù, che il nonno ha tenuto tanto nel suo studio;  Minguzzi, che veniva sempre a casa nostra; Messina, che era  suo grandissimo amico; tutti  i grandi dell’accademia. Era molto amico dei fratelli Bazzaro - Ernesto  era stato suo maestro - che avevano messo insieme un gruzzolo proprio per aiutarlo, perché era rimasto senza studio, senza niente. Poi è diventato famoso ed è riuscito a vivere della sua arte.
Tante sue sculture sono dedicate ai lavoratori, perché  era uno molto di sinistra. Durante il fascismo è stato messo in galera non so quante volte, rischiando anche di essere ammazzato. Per le sue idee politiche aveva fatto molta fatica a lavorare.



"Omaggio a S. Monfrini scultore", Elena Mutinelli, 2005
Un personaggio…
Sììì… Portava sempre a casa un sacco di gente, a mangiare, a dormire.  Portava a casa i barboni  di Milano  per farli posare. Era capace di tenerli in casa una settimana e mia mamma e le sue amiche dovevano lavarli, vestirli e tenerli lì finché uscivano nuovi. Poi magari, di tanto in tanto, ritornavano.
Il volto del  Cristo di Usmate è quello di un barbone che bazzicava per via Cesare Correnti, dove il nonno aveva lo studio.
 

 
Volto di Cristo di Silvio Monfrini. Chiesa parrocchiale di Usmate.

Per un busto per il monumento ai caduti di Trento, ha preso uno della Canottieri d’Italia di Milano. Vicino alla morte quest’uomo aveva chiamato la mamma  per sapere che fine avesse fatto la sua testa. Lo abbiamo  accolto per fargli vedere com’era la sua testa, il suo bozzetto, tutte le sue cose. Sono aneddoti belli, secondo me…

Come fai a conoscere queste storie?
Ce le raccontava la mamma, di sera, intorno al tavolo, avevamo una cucina grandissima.
Nella nostra famiglia  eravamo in tanti: i genitori, la nonna, cinque fratelli più altri in affido temporaneo - una storia che sarebbe lunga da raccontare - in tutto otto  o nove “figli”. Io, che sono l’ultima, e il secondo dei miei fratelli siamo nati in Italia; gli altri  in Argentina dove i miei si erano trasferiti per il lavoro di papà.
Alla mamma piaceva fare il gioco delle rime e lo faceva fare anche a noi. Da lì si partiva a parlare di qualche episodio di guerra, magari ridicolo, e a parlare del nonno, cosa faceva, cosa non faceva, come si vestiva.
Ogni volta che qualcuno gli chiedeva qualcosa lui era disponibile.
Era arrivato al punto di regalare dei terreni di Oggiono a dei contadini che avevano aiutato, gratuitamente, suo fratello a costruire la chiesa di Usmate.
La nonna, affinché non  sperperasse tutto, gli nascondeva i soldi.   
La mamma ci raccontava anche delle sue litigate con il fratello, per ragioni politiche. Lui di sinistra, l’altro fascista, arrivavano a prendersi a pugni. Però poi andavano d’accordo.


Ci sono opere sue esposte al pubblico, oltre al Cristo della chiesa di Usmate...
Il monumento a Francesco Baracca, nell’omonima piazza di Milano; a Trento c'è un  monumento per i caduti in Albania; a Monterosso, in Liguria, la statua di San Francesco del convento dei Capuccini; alla stazione di Monza,  il monumento ai caduti sul lavoro. A Monza ci sono diverse altre sue opere. Una, l'ho saputo di recente, anche in Duomo. A Usmate ci sono alcune  sculture al cimitero e poi, come hai detto, c’è il Cristo della chiesa parrocchiale.
 

Per quest'ultimo era stato chiamato dal cardinal Schuster. L’aneddoto racconta che il cardinale voleva farsi baciare l’anello, lui invece gli ha stretto la mano e gli ha detto “piacere, mi sunt el  sciur Monfrini”. In un primo tempo sembrava che l'incarico dovesse saltare. Poi però il cardinale lo ha richiamato e gli ha detto “vorrei un Cristo fatto da lei”. Lui fa questo Cristo, lo fa bello per attrarre le folle, ma il cardinale fa storie: “io non lo metterò mai in chiesa questo Cristo, è troppo bello, troppo nudo,  troppo atletico” . Lui in meneghino gli ha risposto: “che ‘l me scüsa , ma lü  l’ha cugnusü el Cristu?”.Così il cardinale l’ha preso a ben volere e gli ha fatto fare questa e tante altre sculture.
 

 
Cristo crocifisso di Silvio Monfrini. Chiesa parrocchiale di Usmate


Era un periodo così, non solo lui, tanti artisti riuscivano fare quello che desideravano.
Lui ha avuto due opportunità, quella di cominciare con fatica – dico che è stata un’opportunità perché l'ha reso forte -  e quella di lavorare senza l’imposizione della tematica della committenza.
Era fatto a suo modo: se uno entrava in studio e gli diceva:“la scultura che mi hai fatto non mi piace” la distruggeva e non gliela faceva più…" Io non lo farei mai!! Ah, ah , anche se sono un’artista, non è un periodo che puoi dire di no. Capisci?


È come un falegname di Verderio, bravissimo, fa mobili su misura perfetti. Ma se alla fine del lavoro tu gli dici “però, forse...”, solo questo, basta, non te lo consegna, se lo tiene. Ha la casa piena di mobili che non ha consegnato.
Ho provato anch’io a non consegnare una scultura, a disfarla completamente. Poi  il cliente è tornato… A volte bisogna proprio imporsi. Di solito però cerco di essere più diplomatica del nonno e trovo un accordo.


C’è qualcosa nel modo di esprimersi di tuo nonno che si ritrova anche nel tuo?
Sì, certamente. L’immediatezza, che è quella della scultura scapigliata; la velocità di espressione, quel non finito che però è finito, un esecutivo fresco.


ATTENZIONE. IL POST SUCCESSIVO A QUESTO È  DEDICATO ALLE OPERE DI SILVIO MONFRINI.

Quanto ha contato tuo nonno nella scelta di dedicarti alla scultura?
Molto, penso. Sentendo quel che mi raccontavano, che era stato così libero e aveva vissuto della sua arte, mi  ero convinta che fosse facile, che bastasse lavorare…
In cantina c’erano i suoi strumenti. Io giocavo con le sue cose e già da piccola, per scherzo, modellavo.
Chiedevo sempre alla mamma “mamma posso andare a modellare, posso?” Mio papà diceva di no. Allora anche lei mi diceva NO, ma sono sicura che pensava SÍ.

Lui NO, lei SÍ. Alla fine ha vinto lei… Come hai iniziato?
A tredici anni mi ero iscritta al liceo artistico dalle suore, ma mi sono ritirata perché dicevano che non ero portata per l’arte. Così la mamma, a cui non piacevano tanto le scuole private, perché aveva un po’ le idee del nonno, mi ha messo  in una scuola pubblica, all' Hayek. All’inizio vivevo in un collegio ostello, poi ho trovato una famiglia e sono stata lì.
Nello stesso tempo la mamma, per occuparmi i pomeriggi, perché aveva paura della droga  - il papà diceva sempre“son tutti drogati!” -, mi aveva messo a bottega da uno scultore di Milano, Casentino, allievo di  Arturo Martini. Sono andata da lui tutti i pomeriggi, fino a 18 anni, a modellare e scolpire. Lui mi diceva sempre: “impara un mestiere, che magari poi vai alla Fabbrica del Duomo, impara un mestiere… vai a Pietrasanta”. Per “imparare un mestiere” intendeva  imparare a fare le copie. Infatti i pezzi che si tolgono dal Duomo non vengono restaurati, vengono rifatti da capo.






Per decidere di trasformare la passione per l’arte in lavoro ci vuole un bel po’ di coraggio. Tu l’hai avuto: quando?
L’ho sempre desiderato, questo è sicuro. Mi costa un po’ raccontare come ho iniziato, perché è una cosa un po’ intima.
A un certo punto della mia vita, quando avevo 18 anni, nella mia famiglia ci sono stati grossi problemi economici (di cui io, peraltro, ho avuto coscienza qualche anno dopo)  e i miei genitori non mi hanno più potuto aiutare.
Così, mentre frequentavo l’Accademia ho cominciato a lavorare  per Casa Kit, un’azienda di arredamenti di interni per bambini.
Finita l'Accademia mi sono trasferita a Pietrasanta, dove ho trovato lavoro come operaia da un artigiano che eseguiva lavori a punti, in copia.   All’inizio prendevo  metà stipendio, poi lo stipendio pieno.
In seguito, sempre a Pietrasanta, ho lavorato  in altri studi, dove potevo eseguire  anche le mie sculture. Ne ricordo uno in particolare, molto singolare: da Duà, un uomo che allora aveva più di ottant’anni, un artigiano sopraffino che mi ha insegnato tutto.
A Pietrasanta,  ho imparato i trucchi del mestiere, quelli che mi hanno permesso, quando sono tornata a Milano, di  lavorare per la Fabbrica del Duomo. Per entrarci  bisognava saper lavorare “a punti” e io lo sapevo fare. 
Al Duomo mi hanno presa, come esterna, perché sono una donna, solo gli uomini potevano essere assunti, per una legge non so se del 1919 o del 1933.
Però non possedevo gli strumenti per poter lavorare, non avevo niente. Dal patatrac della mia famiglia erano stati salvati i mobili più antichi, conservati in un magazzino vicino a casa. La mamma me li ha dati e mi ha detto:“se hai bisogno vendili”. Sono andata a Milano, in via Pisacane, da un amico, ho venduto tutto e mi sono comprata il compressore, le punte, tutto quello che mi serviva insomma.

Il lavoro per il Duomo in cosa consisteva?
Nel rifare i pezzi che dovevano essere sostituiti. Lì non si restaura, si sostituisce, come ti ho già detto.

Tutto, anche le statue?
Sì, sì, anche quelle. Se facevi le statue ti pagavano di più, quasi il doppio che se facevi gli ornati.


Tu cosa facevi?
Solo gli ornati, che contengono però tanti elementi decorativi molto complessi: draghi, teste, volti.
Non si faceva un preventivo: per ogni lavoro loro fissavano il numero di ore necessario. Eravamo cottimisti. 


 



Adesso molti pezzi li fanno fare al laser. Io li ho visti, perché li hanno esposti alla fiera di Verona: sono terribili!
Allora li dovevi fare a scalpello secco, con la punta molata. Non potevi usare le “molettine”, perché vanno a più di 23 000 giri al minuto e, anche se non si vede, dentro fanno scoppiare il marmo, perché cuoce. Così, siccome il cristallo del candoglia è molto largo, lo smog penetra e, con il freddo e l’umidità, dura pochissimo. Si forma una crosta che dopo poco sembra veramente cemento.
Andavo a prendere i pezzi da ricopiare, che magari pesavano 400 chili, con il mio Fiorino.
Dopo tre pezzi in ritenuta d’acconto mi hanno considerata in grado di lavorare per loro e ho aperto la partita IVA
.

Dove lavoravi?
All'inizio nella casa dei miei genitori, che poi fu messa all’asta. Mio papà aveva costruito una tettoia fuori e lì ho lavorato per due annetti.
Poi hanno messo i sigilli, per cui tutti fuori dalle balle in poco tempo. Sono rimasta senza laboratorio.
Ho trovato un capannone a Milano in viale Certosa.
La padrona, una donna molto sensibile, mi ha permesso di viverci dentro: mi ha detto “vivici pure, nessuno lo sa, non ti preoccupare”.
Era grande la metà di questo laboratorio. L’avevamo arredato tutto con i bancali,. Abbiamo carotato il muro, fatto lo scarico. C’era una specie di cucina. Pian pianino era diventato bellissimo.
Lì c’è passato il mondo, sono venuti grandi giornalisti: Armando Torno, responsabile della cultura per il Corriere della Sera e poi dell’inserto domenicale del Sole 24 Ore; Vittorio Sgarbi; Arensi, quello che ha curato la mostra di Rodin a Milano; i giornalisti di Oggi, che dedicava una pagina agli artisti abbastanza affermati; i curatori di Flash Art e di  Arte.
Tutto questo in fondo a viale Certosa, un posto adatto  solamente  a girare un thriller.  Se ci penso: quando non avevo ancora la cucinetta facevo le cene e avevo il lavandino in bagno, mi vergognavo. Allora un'amica siciliana mi copriva, diceva “qui non si può entrare”.
Venivano anche i ragazzi dell'Accademia, perché veder rifare i pezzi del duomo non era male.
Anche per intraprendere questa attività conta molto la passione. Quando mi sono  separata dal mio primo marito, sono rimasta tantissimo tempo da sola. L’unica cosa che facevo era la scultura: scolpivo e vedevo gente che, come voi, veniva in laboratorio. Non avevo altre necessità, tranne quella di sopravvivere, ah, ah ah...


Insomma, ce l’hai fatta a trasformare l’arte in un mestiere.
Sì, piano piano, piano piano. È stata dura, ma d’altronde sapevo fare solo quello. Avevo fatto un sacco di domande – ai grandi magazzini, alla Esselunga - , ma non avevo mai il profilo idoneo. 



Con il lavoro del Duomo vivevo molto a stento, ma è quello che mi ha garantito la sopravvivenza e mi ha anche permesso di continuare a realizzare le mie sculture, e di venderle. Ho conosciuto tanti collezionisti - collezionisti colti, non quelli che prendono le cose di tendenza - che mi compravano le robe, senza tirarmi il collo, avevano la dignità di non tirarmelo. Capivano che avevo bisogno e non mi mettevano in condizione di strisciare, come invece facevano alcuni  galleristi.
Poi ho anche insegnato.


Dove?
Prima in un liceo privato di Milano, il San Calimero, poi all’ACME, un’accademia di Belle Arti privata allora  in piazza Leonardo da Vinci a Milano.
Ho partecipato a un concorso all’Accademia: ero quarta, poi sono diventata nona e ho pensato: “Qua entro in ruolo a sessant’anni. Lasciamo perdere”.  Ho fatto domanda alle Preziosine di Monza, le suore che mi avevano bocciato al primo anno di liceo dicendo che non ero portata. Dopo vent’anni se ne sono dimenticate e mi hanno presa.
Ma è stata la Fabbrica del Duomo, l'ho già detto, che mi ha garantito la sopravvivenza.  Più che di arte, per tantissimo tempo, ho vissuto di artigianato. Quello  ha sovvenzionato l’arte, poi l’arte ha iniziato a ripagare.

Parliamo ancora della Fabbrica del Duomo, che mi incuriosisce. Chi sono le persone che ne fanno parte?
Sono dei privati che la sostengono, che si occupano di mantenere questo grandissimo monumento, insieme a degli sponsor, anche quelli privati.
Io in verità avevo a che fare  solo con l’ingegner Mörling e con il signor Biem, il capo cantiere.
Penso che l’ingegner  Mörling  avesse capito le mie difficoltà. Ogni tanto mi chiamavano per delle mostre importanti e non sapevo come fare a partecipare, perché non potevo mollare il duomo neanche un mese: se perdevo un “fiocco” perdevo tutta “la partita di giro”. Una volta mi è capitata una mostra a Madrid molto importante; l'avevo vinta a un concorso. Gli ho detto “ingegnere, io devo proprio  fare questa mostra, ma lei poi me lo dà ancora il lavoro?”. Lui mi fa:”non si preoccupi”.



I pezzi che vengono estratti dal Duomo per essere sostituiti che fine fanno?
Li mettono nel cosiddetto “cimitero”, uno dei due cantieri del Duomo (l'altro è il Duomo stesso, per  la messa in posa dei pezzi), in via Brunetti 35, in fondo a viale Espinasse. Una grande fabbrica, che ha dentro  dei piccoli laboratori per gli scultori interni, maschi.

È bello?
Bellissimo. Potreste chiedere di visitarlo, al massimo vi mandano a quel paese.
A un certo punto lavorare per il Duomo era diventato difficile, perché l'ultimo responsabile  mi odiava, o meglio mi amava e mi odiava. Era un “carrarino”. Io li conosco, sono duri, sono come la roccia. Guardava i pezzi con la lente. Non vedeva l’ora di darmi qualche punizione: se sbagliavi ti toglievano  un tot di ore sul pezzo, e questo si ripercuoteva sui pezzi successivi. A un certo punto mi sono stancata e gli ho detto “io non lavoro più per il Duomo, lei mi ha fatto perdere l'amore per questo lavoro”. Allora lui: “No, aspetti. Abbiamo da mettere uno in carcere” e mi sono fatta mettere in carcere.

In carcere?
In carcere la Fabbrica del Duomo aveva un cantiere e avevano bisogno di qualcuno che lo dirigesse. Mai più pensavano a una donna. Siccome chiudendo la partita Iva non avrei più mangiato, ho accettato e lì dentro ho fatto due annetti. Ho avviato il corso di   formazione e il lavoro nel cantiere interno al carcere per quelli “fine pena mai” .
Abbiamo fatto  cose stupende, dei camini bellissimi. Per avere degli sconti di pena,  abbiamo fatto dei vasi barocchi splendidi, che  non so a chi siano andati. Un giorno mi sono trovata a lavorare con loro, i carcerati, il giorno della vigilia di Natale e abbiamo fatto una scena di caccia bellissima, erano molto bravi.
Era bello lavorare lì perché avevi tutti gli attrezzi necessari, non dovevi pagare niente. Avevi bisogno di una cosa, schioccavi le dita e arrivava.

Con i carcerati ti trovavi bene?
Mi trovavo bene. Insegnando, ripassavo continuamente, perché spesso c’erano dei problemi da  risolvere. Ci portavano dei pezzi a cui magari mancava la mezzeria e dovevi capire come correggerli, perché il pezzo doveva essere simmetrico. Ragionavamo insieme. Lavoravano lì per  otto ore al giorno e  in quelle ore loro vivevano in un clima di libertà. Non era come stare in cella e avere due ore d’aria. Poi mandavano i soldi a casa. È stato bellissimo.

I tuoi clienti? All’inizio, mi hai detto,  erano quelli della fabbrica del Duomo…
Sì, erano clienti molto colti, non snob, non ricchissimi, persone normali, che magari compravano a rate.
Poi c'era qualche  privato, veniva da me perché  aveva bisogno di scaricare la spesa dalle tasse: comprava il pezzo e scaricava. Almeno fino al 1999 lo potevi fare. Ricordo che sotto Natale mi arrivavano un sacco di commissioni.
Altri miei clienti erano  calciatori,  cabarettisti, di cui non faccio il nome. Sono arrivate insomma delle persone particolari che hanno in sé l’amore per l’arte, anche quella di artisti non  famosi. Hanno comprato da me perché gli piaceva quello che facevo: se avessero voluto investire avrebbero comprato un altro artista.
 

Nel 2004 ho vinto un MiArt, con il comune di Milano. Lì ho capito che il collezionismo era cambiato. Iniziavano a girare per le fiere personaggi che spiegavano ai collezionisti che cosa era un investimento. In quel periodo, per loro, io ero un investimento: boh! Chissà come mai, forse perché avevo fatto un MiArt. Degli imprenditori arricchiti, che non è che capissero tanto, giravano per le fiere, con questi agenti, e compravano. Poi questi collezionisti si sono sganciati da quelle figure e hanno iniziato a comprare in studio, perché avevano capito che così costava meno. Ogni tanto comprano ancora.
 

In questi ultimi anni ho avuto la fortuna di incontrare un collezionismo particolare, che acquista opere per motivi culturali. Sono medici, ad esempio, che hanno passione per la storia e una forte inclinazione umanistica. Scrivono libri sui settori della medicina di cui sono specialisti e poi organizzano mostre con opere d’arte che hanno a che fare con il tema che loro stanno trattando. Ho partecipato a una mostra sulla mano al Caffè Pedrocchi di Padova, organizzata dal professor Renzo Mantero, un chirurgo specialista della mano appunto. In quell’occasione ha tenuto una bellissima conferenza sulla gestualità dell’Ultima Cena di Leonardo. Nella mostra c’erano opere di Salvator Dalì, De Chirico, Rodin, Camille Claudel, Breton e tanti altri.
Un’altra mostra di questo tipo è in preparazione. Sarà pronta fra un anno e mezzo circa.

Le gallerie sono uno strumento per far conoscere un artista e permettergli di vendere le sue opere. Mi parli del tuo rapporto con loro?
Sì, ti parlo dei galleristi che sono stati importanti per me.
Per la mostra di Madrid, a cui prima ho accennato, avevo mandato degli inviti ad Alain Toubas  della storica galleria di Giovanni Testori, che era il suo compagno. Lui ha voluto vedere due mani in marmo e me le ha comprate subito. Era tanto che mi proponevo alla sua galleria ma mi dicevano sempre che artisti giovani non ne prendevano, che avevano Mitoraj…
Probabilmente ad  Alain non era mai arrivato in mano niente delle mie richieste. Si capisce che quella volta invece la posta l’ha ricevuta lui e da lì è iniziato tutto.
Amava il mio lavoro. Grazie a lui non ho dovuto spendere soldi per sovvenzionare la mia arte: era lui che la pubblicizzava, che spendeva, che mi trovava i contatti con i galleristi.
Tramite lui e un altro bravo gallerista di Monza, che poi si è trasferito a Milano, un notaio, nel ’94 ho conosciuto Sgarbi e così la mia arte si è fatta conoscere.
 

Nel ’99 sono entrata in contatto con un gallerista che è stato un grandissimo stampatore, Linati. Mi ha preso a ben volere, mi ha insegnato l’incisione e raccontato storie sui falsi che giravano e sul mondo dell’arte. Incontrare, in quel periodo, gente che aveva tanti anni significava conoscere un pezzo della storia dell’arte. Lui mi ha comprato un sacco di pezzi.
Gabriele Cappelletti, che ha l’esposizione in via Brera, è diventato mio gallerista nel 2003. Era un imprenditore, collezionista e mi ha comprato i pezzi più difficili, quelli del periodo in cui la mamma ha perso tutto e ho fatto il lavoro sulle pazze.
 

Ci sono gallerie che fanno tanto per passione e tengono artisti come noi, relativamente nuovi, che non sempre vendono. Per poterlo fare devono avere proventi da altre parti, dal grande artista di spicco, dal cavallo di battaglia conosciutissimo.
Per anni ho lavorato con una gallerista così. Anche se era riuscita a vendere  un solo pezzo mio, si dava un sacco da fare per trovarmi le sponsorizzazioni: mi aveva fatto fare un’ importante mostra con Lucio Fontana e altri autori a Santa Giulia, a Brescia e un’altra in via Montenapoleone, a Milano. Stavo male per lei, che non riusciva a vendermi, eppure continuava, perseverava, perseverava… Non capita spesso.
Adesso ho una galleria di riferimento che lavora tanto all’estero, una cosa che in passato  non succedeva. La gallerista, una donna con una conoscenza della storia dell’arte più unica che rara, ha piglio sia sul commerciale che sul culturale, e si lascia guidare pochissimo dai curatori.

Chi sono i curatori?
Sono mediatori fra gli artisti e le riviste d’arte e fra gli artisti e il mercato dell’arte.   
Non sono i manager degli artisti, ma qualche volta ne fanno le veci, anche se in modo velato.

Invece questa signora, la tua gallerista…?
Non  usa il curatore perché lo fa lei, o li usa raramente, quando gli serve per qualche rivista. Non si fa strumentalizzare, è giovane.
Lavoro anche con una galleria salda, la ETRA, che ha le sedi a Firenze e Pietrasanta.
Ce ne vorrebbe una a Nuova York – come dice mia mamma, non a New York.

Hai fatto mostre personali e partecipato ad altre collettive. Oltre a farti conoscere, hanno anche un’importanza economica immediata?
No, immediata mai, purtroppo.




 
Brochure della mostra di Elena Mutinelli a Monza, estate 2016


In casa  hai qualche tua scultura?
Poche, pochissime, perché mi affliggono.


E disegni?
Sì, disegni sì.


Ci sono opere tue esposte al pubblico in modo permanente?
Sì. A  Vergnacco, una frazione del comune di Reana del Royale, in Friuli, c’è una mia scultura dedicata ai donatori di sangue. Si chiama “Vuoto di mani congiunte”. È in Fior di roccia del Timao, una bellissima roccia rossa, molto viva, molto dura, simile al porfido.
 

 
"Vuoto di mani congiunte", Elena Mutinelli, 2004



C’è un’altra mia opera a Nanto scolpita nella pietra gialla di Vicenza.
Molti miei disegni sono  a New York, ma non in uno spazio pubblico, al Jolly Hotel. Marta Marzotto, che era socia di questa azienda, voleva dei disegni  “rinascimentali”. Io stavo esponendo in una libreria di corso Vittorio Emanuele a Milano, e un architetto canadese ha deciso che i miei disegni erano quelli che cercavano. All’inizio dovevano essere venti, trenta disegni. Alla fine sono stati 170, tutti originali, non incisioni. Non ti dico cosa ho lavorato in quel periodo. Non avevo più idee, perché il corpo come lo sposti lo sposti, ma alla fine è sempre il corpo. Ho lavorato con dei ballerini veri. Non potevano posare, quindi andavo a filmarli o cercavo di farli a memoria.






Disegni di Elena Mutinelli alla parete di una camera del Jolly Hotel di New York

In America, in un museo dedicato alle religioni monoteiste, non mi viene  in mente dove esattamente, ci sono dei miei pezzi in marmo molto drammatici . Uno si chiama“Muti silenzi su di noi”. Il proprietario, un cultore di religioni monoteiste, aveva dedicato il museo alla figlia. Ho regalato per anni dei disegni a questo signore, perché il gallerista mi diceva che li regalava alla figlia. Dopo mi sono accorta che la figlia era morta: chissà dove li metteva il gallerista i miei disegni…
 


 
"Muti silenzi su di noi", Elena Mutinelli, 1998

Una mia opera dovrebbe essere ancora sulla scogliera di Caorle.s'intitola "Confronto" e l'avevo realizzata nel 1997 per un simposio internazionale di scultura.


"Confronto", Elena Mutinelli, 1997

Di tante delle mie opere esposte non ho traccia perché i galleristi non vogliono che si sappia dove siano, per non farci mettere in contatto direttamente con i collezionisti. Una cavolata, mica li vado a prendere i suoi clienti, se no perché dovrei avere il gallerista?
 

 
Bronzo di Elena Mutinelli nel cimitero di Usmate

C’è una cosa che ci tengo a dire: io non partecipo a mostre a pagamento. C’è un mucchio di gente che paga l’impossibile per dire che ha fatto mostre di qua e di là. Anch’io ricevo tante proposte. Economicamente, non me lo potrei permettere, ma anche  se avessi i soldi non lo farei. Rischi di crearti un curriculum, pieno di cose che effettivamente hai fatto, ma che  per gli addetti ai lavori, quelli veri, non vale niente. Lo potresti solo fare vedere a un amico, per dire “io ho fatto queste mostre…”, ma non vale proprio niente.
 

Lo stesso discorso  vale per le gallerie. Io non le pago per tenere le mie opere, guadagnano in base a quello che vendono. Per produrre un’opera investo nel materiale e ci metto il lavoro: questo è il mio rischio. Il gallerista lavora in conto vendita per cui non ha un rischio, se non  quello di avere un posto che non vende e quindi deve cercare di avviarlo bene.  Se ad esempio diversifica gli oggetti che offre riuscirà a vendere
 


Scolpisci e disegni dal vivo?
Tendenzialmente sì. Certo, se devo scolpire non posso tenere una persona di fronte a me, perché rischio di farle male. In questo caso preparo prima un modello in creta dal vivo.
Per i particolari, qualche volta faccio  fotografie.


Ritratto in creta eseguito da Elena Mutinelli
I tuoi soggetti si riconoscono nei tuoi ritratti?Sì, si riconoscono, ma non nell’idea di  “bellezza” che hanno di sé.
Ognuno ha, della propria immagine, l’idea immediata che si fa guardandosi allo specchio. Ma quando ritrai una persona in posa, vedi di lei molte cose  che lei non vede nello specchio, riesci ad arrivare al suo intimo.
Mi sono fatta un autoritratto allo specchio, quando ero molto più giovane, avevo 10 o forse 15 anni in meno, non ricordo. Però sembra che abbia l’età di adesso, perché stando lì a guardarti allo specchio, dopo tre ore hai una faccia più scavata, più presente, più viva di quando hai iniziato. Ovviamente il naso è il mio naso, non certo il naso da francesina che penso di avere, ah, ah... Una mia allieva l’altro giorno insisteva a dire di avere il naso all’insù: “no, non è vero, hai il naso che piscia in bocca come il mio”, le ho dovuto dire.


A  parte i volti,  usi il modello vivo anche se devi fare un corpo ?
Sì, sì, se posso sì. Riscaldo al massimo il laboratorio, però voglio  il modello. Prima lo imposto a memoria, lavoro molto dai disegni . Ma poi mollo lì tutto e mi porto il modello.



Quali sono i tuoi strumenti di lavoro?
Mazzette, punte, scapezzatori, quelli corti perché nello sbozzo permettono di far saltare tanto materiale senza creare l’errore. Se non si lavora al verso il marmo va in dentro, se usi uno scapezzature lungo salta e va un po’ in dentro. Uso soprattutto strumenti in ferro, non in vidiam, perché quando arrivo alle finiture si ha la sensazione di un modellato vivo morbido, vibratile più spontaneo.
 



Gli attrezzi che vedete  me li aveva dati il  vecchio Duà di Pietrasanta, quello che mi ha insegnato tutto e di cui vi ho già parlato. Aveva quasi 90 anni e lavorava con una passione… Ogni tanto passava via e pam, una pacca sul culo:“o bbimba”, diceva…


Le nuove tecnologie permettono di realizzare sculture senza sporcarsi le mani, ad esempio utilizzando il laser. Secondo te è ancora scultura e, soprattutto, il loro autore  è ancora uno scultore?
No, secondo me no. È vecchia  la disquisizione se è più importante l'idea o è più importante l'esecuzione. Io non dividerei le due cose, le mani e la testa.
Capisco l'importanza dell’idea,  e posso capire che l’idea abbia la prelazione, ma l’esecuzione è, secondo me,  esperienza imprescindibile per un artista  ed è anche quella che lo porta a partorire nuove idee.
Per carità, la tecnologia è di ausilio e se necessario la posso usare, anche il laser, al limite, se quello che devo fare è molto grande. Ma ci deve essere almeno un lavoro preliminare dell'autore, almeno un modello in creta. Ci sono autori che fanno fare le opere a laser senza neanche fare il modello…


Sulla base di cosa?
Se mi piace uno, vestito da Maria con intorno gli angioletti, gli faccio non so quante foto in 3D, gli metto intorno gli angioletti con photoshop  e io ho la mia opera bell’e fatta come mi è venuta in mente. Pago uno che la realizzi con il laser e poi l'opera diventa un’opera mia, perché la mia idea prevale su tutto.
Se  uno è convinto che l’opera dell'artista possa esaurirsi nell'idea e che la sua realizzazione sia altra cosa, deve avere almeno la correttezza di dire chi quell'opera l'ha realizzata concretamente.
Nei titoli di coda dei film non c'è solo il nome del regista, c'è quello del tecnico delle luci,  del doppiatore, del costumista... Tutti. Se il regista ha scelto queste persone che sono deputate a fare un’opera d’arte, è giusto che queste persone appaiano. Se il formatore (colui che si occupa di fare i calchi in gesso) è stato fondamentale nella realizzazione di un’opera, è giusto che si sappia.


È molto diffuso questo stile?
Diffusissimo. Molto prima che si cominciasse ad usare il laser.
Mitoraj, che però era un grandissimo disegnatore e aveva  idee spaziali, delegava agli artigiani. Però non lo ha mai detto che erano gli artigiani a realizzare le sue opere.
Ho lavorato come artigiana in un laboratorio a cui lui si rivolgeva. Un giorno doveva fare un video in cui appariva  lui che lavorava. Solo che non sapeva come si tenesse in mano il flessibile. Ci ha provato ma poi ha mollato tutto.


Tu hai mai avuto bisogno di qualcuno che ti aiutasse?
Certo, per molte opere ho bisogno del “formatore”.

Ossia?
Il formatore, una  figura che purtroppo nessuno conosce, è importantissimo per la scultura.  È quello che fa i calchi di tutte le materie duttili. Tutte le cose che  vedete qui in plastilina,  hanno bisogno di calchi in gesso ove colare i materiali non  morbidi come il bronzo. Il formatore è fondamentale. A suo tempo feci un bellissimo lavoro per la Gimoka e  ho avuto bisogno del formatore.  Con lui  ci deve essere un'ottima  intesa, se vuoi che il risultato sia buono. Questi personaggi nell’arte figurativa non sono conosciuti perché non vengono mai menzionati, ma noi non esisteremmo se non ci fossero loro.

Sono artigiani ?
Sì, che ti permettono di realizzare l’opera finita. Noi non siamo alla loro altezza.
Se una scultura è piccola cerco di arrangiarmi da sola, ma per le opere più impegnative non sono in grado, e ho bisogno del loro contributo
Il loro è un grandissimo mestiere, che si impara di anno in anno, di generazione in generazione. Bisogna avere la voglia di impararlo e adesso chi è che ce l’ha? Sono ormai in pochi a farlo.
Il loro lavoro dovrebbe avere più riconoscimento. Penso che su ogni scultura andrebbe scritto: opera di Elena Mutinelli, formatura di Mister X, sgrossatura del marmo di Mister Y,  e così via.

Ne hai uno di fiducia?
Ne ho uno molto bravo, Valerio Marraffa, ma purtroppo adesso lavora meno. È quello del teatro alla Scala. Lo conosco da una vita:  giocavo a baseball con lui da piccola.

A baseball?
Si, i miei fratelli giocavano a baseball e mio papà mi ha detto: "se vuoi vai a giocare a baseball con loro". Lui giocava con noi  e ha intrapreso il lavoro di suo padre, anche lui formatore. Quando sono tornata da Pietrasanta l’ho ricontattato e abbiamo lavorato sempre insieme. Fino a due anni fa.

Non abbiamo ancora detto niente delle tue opere in bronzo. Le fai?
Sì, certo. Il bronzo è un materiale che si presta bene ad essere trasportato e non si rompe. Le opere in bronzo sono molto  apprezzate all’estero e la galleria le vende più facilmente. Per questo, qui in laboratorio, ce ne sono poche.


In primo piano opera in bronzo di Elena Mutinelli
Tu sei un'artista figurativa. Hai mai fatto arte astratta?
Sì, tantissima. Ho fatto arte astratta perché  non ero ancora in grado di esprimermi come volevo, perché in accademia, a Brera, non mi avevano insegnato niente del mestiere. I miei insegnanti si facevano fare le opere, come potevano insegnarmi?
 

Elena Mutinelli
Per imparare sono  dovuta andare a bottega da Casentino e poi a Pietrasanta.
Dovevo provare il figurativo, magari per scartarlo in seguito. Invece me ne  sono innamorata, perché secondo me nella figurazione c’è anche una grande astrazione. L'astrazione è un pensiero, l’opera è l'arte del pensiero, quindi è tutto astratto: non ci deve essere una cesura. Certo se non avessi imparato…


Ci sono opere che sono solo tue, che non esponi e che non sei disposta a vendere?
Mi è dispiaciuto tantissimo vendere alcune delle sculture in marmo, è stato come perdere un arto del mio corpo. Ho dovuto vendere delle opere che non avrei mai voluto dar via. Ma non ho potuto fare a meno.

C’è però questa tendenza a tenerle?
Sì, tantissimo. Poi io non ho mai neanche fatto regali o meglio, regali ne ho fatti ma con opere che mentre le realizzavo già sapevo che non sarebbero state mie. Saperlo dall'inizio è diverso.
Ho regalato una scultura a cui tenevo molto a un giornalista, che a mio avviso non l’ha capita per niente. Si chiamava“Servo di chi come noi è mortale”. Aveva vinto un premio a Stoccolma, in occasione della commemorazione del premio Nobel letterario sulla pace. Mi è spiaciuto tantissimo averla data via: quando ci penso mi viene una “roba” allo stomaco.

Guardandoti indietro, cosa pensi della strada che hai percorso?
Penso di essere una che all'inizio ha avuto un po’ di sfortuna, neanche tanta, e, in seguito, tanta fortuna. Comunque anche la sfortuna mi è servita,  per perseverare. Vedo  tante persone che, pur avendo possibilità infinite, non rischiano niente. La trovo un’assurdità, dico “cazzo, sei stato baciato dalla grazia, fai qualcosa!!”.
Una delle mie fortune è stata quella di aver avuto persone che mi hanno ben consigliato. Una per tutte, la nonna che mi diceva sempre: “mi raccomando impara il mestiere, impara il mestiere, perché se sai quello troverai sempre qualcuno che ha bisogno di te”. Un po’ come se devi fare l’idraulico: se hai imparato il mestiere non resti mai a piedi.


Elena Mutinelli
Marco Bartesaghi















"LA SALETTE" SCOMPARSA. UN INTERVENTO DEL DOTT. GIORGIO BUIZZA, AGRONOMO

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Il 15 settembre scorso, aggiornando il blog, avevo segnalato ed espresso il mio rammarico per la scomparsa alla vista dei passanti della cascina "La Salette". Sull'argomento ho ricevuto l'articolo che ora vi presento dal dott. Giorgio Buizza, agronomo e, per dirla tutta, anche mio cognato.
Spero che anche altri, in sintonia o no con noi, intervengano. Tutti i contributi verrano pubblicati, purché siano corredati da firme riconoscibili(almeno nome e cognome)e non contengano insulti. 
Buona lettura.  M.B.



La lettura dell’appello di Marco Bartesaghi per ottenere il ripristino della visuale su “la Salette” è stimolante ed offre lo spunto per sviluppare alcune considerazioni sulla cultura e sulla tutela del paesaggio, oggetto ancora non del tutto identificato e per alcuni ancora evanescente, ma che i Padri Costituenti e lungimiranti hanno pensato bene di inserire nella nostra Costituzione.
La cascina Salette è un esempio di “paesaggio agrario” che dovrebbe avere la stessa dignità del paesaggio urbano, del paesaggio montano e del paesaggio costiero.
Dentro una situazione evolutasi nel corso dei secoli per effetto delle caratteristiche naturali e con l’apporto di numerose generazioni di operatoori, può capitare che l’inserimento di elementi nuovi costituisca una deturpazione del paesaggio preesistente: esempi eclatanti e purtroppo frequenti sono il complesso residenziale costruito sulla costa del mare, dentro uno scenario naturale e altamente suggestivo, oppure l’apertura di un fronte di cava che sventra una montagna e ne cambia completamente i connotati, o la torre del ripetitore che svetta sulla cresta di una montagna, una batteria di pale eoliche….. Sono casi clamorosi che danno origine a proteste spesso inascoltate e che fortunatamente sono sempre meno frequenti.
Ci sono però anche elementi molto meno dirompenti che, per effetto della loro frequenza e ripetitività, contribuiscono a deturpare e a mortificare il paesaggio che per centinaia di anni è rimasto intonso fino a caratterizzare un sito e il suo contorno.
Una siepe ed una recinzione metallica possono essere elementi di alterazione di un paesaggio alla stregua di una nuova strada o di un nuovo viadotto, non in quanto elementi distruttivi quanto elementi di nascondimento di oggetti o di una visuale, di cui la collettività ha potuto finora godere.
La storia e la cultura della nostra agricoltura non ha mai previsto la recinzione metallica attorno al podere; nessun vecchio agricoltore ha mai pensato di recintarsi l’azienda agricola; i confini erano costituiti dai fossi, dalle strade campestri, dai filari di alberi: questi oggetti erano sufficienti a delimitare le proprietà senza bisogno di aggiungere oggetti artificiali, reti, paletti, cancellate.


Foto di Gabriele Aldeghi

Il restauro edilizio della Cascina Salette, ben progettato e ben eseguito, ha restituito un edificio in disuso alla piena e aggiornata utilizzazione: non più stalle inattive, fienili, magazzini, abitazioni poco igieniche, ma appartamenti civili, confortevoli, dotati di tutti la moderna tecnologia.
I campi attorno alla cascina, aree squisitamente agricole, appezzamenti coltivati, non hanno cambiato destinazione: hanno mantenuto i caratteri dell’attività agricola e del paesaggio agrario, proprio quello che ha motivato un certo tipo di intervento sull’edificio.
Perché dunque nascondere tutto e recintare? Come si è potuto autorizzare un intervento tanto dirompente e alterante? Quali sono stati i parametri utilizzati dalla commissione di esperti del paesaggio che hanno dato l’assenso a tale modificazione?
La rete metallica al perimetro della proprietà non fa parte della cultura agricola né del suo paesaggio, ma serve a poco anche per tenere lontani gli eventuali ladri. I vecchi agricoltori recintavano, per necessità di protezione, lo spazio dedicato all’orto, per salvaguardare oltre che la verdura e la frutta i polli razzolanti e gli animali dell’allevamento famigliare.  Questo spazio era di solito localizzato nelle immediate vicinanze della cascina, di facile controllo nei confronti di possibili intrusioni dei ladri di polli o della volpe.
Non aveva senso fare una recinzione lontana 100 metri perché, a quella distanza dalla cascina, qualunque accesso estraneo era tollerato e non destava preoccupazioni, salvo giungere in prossimità della cascina dove l’intruso avrebbe potuto essere riconosciuto e fermato.
La siepe di conifere esotiche realizzata a ridosso della recinzione, con alberi di alto fusto (Cupressocyparis leylandii) è, in termini di paesaggio, un intervento di forte impatto negativo e, per di più, contrario alle norme: secondo il codice della strada gli alberi d’alto fusto possono essere piantati ad una distanza dal ciglio stradale pari almeno all’altezza dell’albero a maturità.
Oltre a ciò che si può visionare direttamente sul posto, non conoscendo la documentazione di progetto, non si possono fare considerazioni fondate e cogenti, ma semplici supposizioni.
Si può dunque immaginare che le attenzioni paesaggistiche delle commissioni varie e della Soprintendenza siano andate a verificare volumi, aperture, pendenze del tetto, sagome dei camini, colori delle facciate, disegno dei serramenti, rispetto materico, ecc. fino al minimo dettaglio per quanto riguarda l’edificio, ma non abbiano neppure considerato che piantare una siepe e una recinzione lungo la strada pubblica avrebbe voluto dire nascondere alla collettività il risultato (interessante) del restauro dell’edificio
.

Foto di Gabriele Aldeghi
La siepe di cupressacee è destinata a crescere molti metri; tenerla a bada per contenerla ad una altezza accettabile sarà sicuramente costosissimo; dopo qualche iniziale impegno si rinuncerà a tenere la siepe entro l’altezza giusta, quella che consenta di delimitare la proprietà lasciando però in vista La Salette, inserita nel suo contesto agricolo, perciò la siepe diventerà un ostacolo e una barriera visuale.
Il piacevole edificio dall’architettura particolare ed esclusiva, interessante sotto l’aspetto storico ed architettonico, sarà tolto alla vista di coloro che transitano sulla strada da e per Verderio. La collettività perderà la memoria di un elemento paesaggistico unico e irripetibile.
Se questo è il risultato dello sforzo e dell’impegno dei numerosi tecnici che hanno visionato il progetto di restauro per autorizzarne l’attuazione, si può dire che l’esito non soddisfa, significa che il tempo trascorso ad esaminare pratiche e progetti, o il tempo dedicato alle carte, alle relazioni, alle autorizzazioni e ai timbri non è impiegato nel migliore dei modi. Significa che le norme vanno interpretate ed applicate in modo coerente e con il supporto di conoscenza e di riferimenti culturali non facilmente reperibili sul mercato.
E’ anche con i dettagli che un progetto si qualifica. La installazione di una siepe formata da alberi d’alto fusto, appartenenti a specie esotiche, destinata a formare una barriera impenetrabile, non certo ai ladri o ai malintenzionati, ma allo sguardo del passante e del turista e di coloro che amano il bello e godono anche di un semplice sguardo su una proprietà altrui, è in evidente contraddizione con le norme di tutela del paesaggio e con la finalità di riqualificazione che ha dato forma e sostanza al progetto edilizio.
Come si diceva, forse il dettaglio della siepe con recinzione non è neppure stata oggetto di valutazione paesaggistica; nessuno ci ha pensato. Se così fosse, prendendo visione del risultato concreto, potrebbero esserci oggi motivi per imporre alla proprietà la modifica di quanto è stato installato, riconducendo tutto ad una dimensione accettabile. Non si tratta di spostare la siepe di conifere esotiche alla distanza prevista dal codice della strada, ma di ripensare alla scelta della siepe utilizzando specie locali di dimensioni idonee a lasciare libera la visuale sulla Cascina e sul territorio circostante
Il paesaggio attorno alla Salette, secondo la Costituzione, non è di proprietà dei soli residenti che possono godere della loro privacy e della loro nicchia privata. Il paesaggio è un bene collettivo cioè di tutti; tutti i passanti hanno il diritto di essere suggestionati da una visione inaspettata, da una cascina decorata a righe orizzontali, da una struttura modernizzata, ma storicamente correlata al territorio che la circonda.
 

14 ottobre 2018
 

Giorgio Buizza


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XIX SECOLO, ANNI QUARANTA. LA NUOVA STRADA PER CORNATE di Marco Bartesaghi

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“ … è una delle più frequentate della Brianza, per ivi provenendo i grani della Geradadda che conduconsi ai mercati di Merate, Santa Maria Hoè e Lecco”(1)

La strada di cui si parla è quella che attraversa Verderio e conduce a Cornate d’Adda. 

A scrivere così, nel 1844, era l’ingegner Giacomo Beretta, che aveva ricevuto l’incarico di redigere un progetto per rendere rettilineo il tratto di strada che dalla  chiesa parrocchiale di Verderio Superiore, quella che oggi è comunemente indicata come “chiesa vecchia”, arrivava alla “strada alla Fornace”, ossia all’attuale via Fiume Adda.
 

A dare l'incarico all'ingegner Beretta, il 22 ottobre 1844, era stata la “Deputazione all'Amministrazione comunale di Verderio Superiore” (2).

L'appalto per la costruzione fu assegnato al signor Giuseppe Villa, “possidente domiciliato a Verderio Superiore”. Il contratto, firmato il 28 luglio 1847, prevedeva la manutenzione per i nove anni successivi alla consegna, ad un  canone annuo di lire 313. Il costo dell'opera fu di lire 6599 (3).
 

Alla consegna dell'opera finita presenziano il signor Giuseppe Villa, appaltatore; il signor Quinterio, in sostituzione del deputato signor Gnecchi (probabilmente Giuseppe); il signor Fossati, in sostituzione del deputato Conte Annoni; il signor Gio Batta Paltenghi, agente comunale; il signor Giacomo Beretta, ingegnere consegnante.

 ***

Il tronco di strada realizzato allora è quello su cui ancora oggi transitiamo  per raggiungere Cornate. 

 
1844.Vecchia e nuova strada per Cornate nel progetto dell'ing. Giacomo Beretta



Al momento della sua costruzione, l'unico edificio esistente lungo il  percorso era la cascina Malpensata “la “Casinéta”), di proprietà della famiglia Biffi. 

 
Cascina Malpensata (Casinéta), vista dalla vecchia strada per Cornate


Nello stesso secolo, il XIX, dopo la costruzione della strada furono costruiti: la cascina Isabella, 1870/1871, regalo dei genitori a Francesco Gnecchi Ruscone, in occasione delle sue nozze con Isabella Bozzotti; il cimitero, nel 1891, in sostituzione di quello esistente situato sul fianco sinistro della chiesa parrocchiale; la cascina Provvidenza, verso la fine del secolo, di proprietà della parrocchia.

Cascina Isabella, vista dalla vechia strada per Cornate
















Portale del cimitero di Verderio ex Superiore


Cascina Provvidenza



















***


Con l'entrata in funzione del nuovo tronco stradale, il vecchio tracciato ha perso la sua importanza, è stato degradato a strada campestre, ma non è mai stato cancellato del tutto. Ancor oggi può essere in gran parte percorso ed è riconoscibile  anche laddove non esiste più.


Lo si imbocca girando a destra subito dopo la Chiesa Vecchia.

Particolare della tavola del progetto, con la vecchoa strada che scende verticalmente lambendo la  Chiesa Vecchia e la casa parrocchiale. Da notare il vechhio cimitero la cui area è oggi occupata da un'abitazione privata.
 
La freccia indica l'imbocco della vecchia strada per Cornate.



Si interrompe all'incontro con  la zona residenziale di via Papa Giovanni XXIV, realizzata negli anni novanta del novecento. .





Qui l'antica strada  sparisce per qualche decina di metri e quando riprende è poco più di una mulattiera che scorre attraverso i campi. Ha però conservato l'andamento che aveva prima di essere sostituita, le stesse curve e probabilmente gli stessi dislivelli. È il disegno del progetto del 1844 a confermarlo.


Dopo l'interruzione la strada riprende in leggera discesa e, dopo una ventina di metri svolta a sinistra







Dopo una breve discesa, la strada procede in piano per una ventina di metri, svolta a sinistra e poi prosegue  in modo quasi rettilineo fino all'incrocio con la via, già allora esistente, che conduce alla cascina Brugarola e ancor oltre fino alla roggia Annoni, che sarà stata attraversata da un ponte che ora non c'è più.





L'incrocio fra la strada vecchia per Cornate e la via Brugarola

Aldilà della roggia, della  strada è stata cancellata ogni traccia. Con l'aiuto del disegno e di una bindella sarebbe possibile individuare con precisione il suo percorso.




Io  mi sono accontentato di supporlo in modo  approssimativo: la strada attraversava il prato in direzione nord-est e  saliva fino al livello della strada attuale. I due tracciati correvano affiancati per un centinaio di metri per poi fondersi, pochi metri dopo l'incrocio con la via Fiume Adda.

Foto scattata dal greto della Rogia Annoni. la linea rossa è una mia supposizione sull'andamento che avrebbe potuto avere la strada vecchia. È  più probabile però che passasse un po' più a destra, dove adesso c'è il muro.

Più o meno in questo tratto le strade erano affiancate


Poco dopo la strada per Porto d'Adda , che allora si chiamava "Strada alla Fornace", il nuovo tracciato si innestava su quello vecchio.

NOTE
(1) Geradadda è il nome del territorio compreso fra il fiume Adda, a ovest, il fiume Serio, a est, e il Fosso Bergamasco, a nord.
 

(2) Sull'amministrazione comunale in quel periodo si veda l'articolo intitolato di Fabio Luini“Verderio Superiore. I bilanci comunali”: http://www.comune.verderio.lc.it/verderio/zf/index.php/servizi-aggiuntivi/index/index/idtesto/74
 

(3) Si tratta della lira austriaca, la moneta introdotta nel 1823 dall'Imperatore Francesco I, nel regno Lombardo -Veneto.


* Nel febbraio del 1996, all'Archivio Comunale di Verderio Superiore, ho consultato i documenti di un faldone che, allora, era così individuabile:  Categoria A, prima sezione, prima del 1899. Il fascicolo n.3, conteneva le carte relative alla "nuova strada per Cornate"

Marco Bartesaghi

RAFFRONTI FRA POTATURE di Giorgio Buizza

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Il 30 dicembre 2017, circa un anno fa, è stata eseguita la potatura del platano di Verderio.
Insieme al platano della Villa Sommi Picenardi a Olgiate, è uno dei platani più prestigiosi della Provincia di Lecco, con oltre 32 metri di altezza e circa 30 metri di diametro di chioma; circonferenza del fusto 565 cm. Differenza non da poco: il platano di Olgiate è di proprietà privata, quello di Verderio è sulla strada pubblica, è di proprietà comunale ed è visibile da tutti in ogni momento.
L’albero è ubicato al centro di una rotonda attorno alla quale transitano migliaia di auto e autocarri ogni giorno; non è quindi un luogo sperduto tra campi e boschi.
Al termine della potatura l’albero appariva come nella immagine n° 2 cioè con la chioma molto simile alla condizione iniziale (Immagine n° 1), senza drastiche riduzioni di dimensione, senza aver effettuato tagli di grandi dimensioni, sempre deleteri e pericolosi per la salute dell’albero.



1 - Prima della potatura (da E)



2 - Dopo la potatura (da W)

Ad un osservatore poco attento l’albero sembra uguale a prima; sono invece stati asportati numerosi rami secchi, anche di grosse dimensioni, incombenti sulla strada e sono stati eliminati alcuni rami interni valutati in soprannumero o malamente indirizzati, o ricadenti nelle parti basse della chioma fino ad interferire con il passaggio dei veicoli.

























3a e 3b Tree climber al lavoro

La potatura, finalizzata a garantire la sicurezza del transito e la buona conservazione dell’albero, ha impegnato 4 operatori climber per una intera giornata con l’ausilio di una piattaforma aerea. Sono stati asportati circa 10 q.li di materiale legnoso, verde e secco.




















































4-5-6-7 Tree climber alla ricerca dei rami da tagliare
 
Secondo un pensiero fortemente radicato e diffuso, derivante dal tempo in cui la potatura era una delle poche possibilità di ricuperare legna per scaldare la casa, molti sono convinti che la potatura sia un modo per rinforzare l’albero.
Non è vero.
Precisiamo che stiamo trattando di alberi ornamentali, non di alberi da frutto. Per questi ultimi la potatura serve a selezionare i frutti per averne meno ma di migliore qualità e dimensioni. Le piante da frutto, infatti, dopo trenta anni di produzione, sono considerati vecchi e vengono sostituiti.
Nonostante gli sforzi dei tecnici più competenti e avveduti e delle imprese più serie e preparate, permane la tendenza a privare le piante di tutte le ramificazioni terminali, con i rami segati in posizione più o meno mediana, grande quantità di legname da smaltire o da bruciare, apertura di grandi ferite che devono essere poi rimarginate, privazione di tutte le gemme già formate nella stagione precedente e eliminazione di buona parte delle riserve accumulate, invito ai parassiti ad entrare e a fare danni irreparabili.
Tutto ciò per l’albero non è una condizione favorevole né utile, ma fonte di stress perché si devono utilizzare molte energie per rifare tutto da capo in tempi brevi, quando a primavera i germogli dovrebbero essere pronti a germogliare e invece devono essere rielaborati da capo.
Le prime foglie di un albero potato in modo eccessivo e scorretto compaiono alcune settimane più tardi rispetto al normale ciclo vitale, perciò l’albero è costretto a svolgere un lavoro stressante e ritardato quando potrebbe invece iniziare da subito l’azione di cattura della C02 e l’azione fotosintetica con l’effetto collaterale di rilasciare ossigeno.
Le due cose non sono di secondaria importanza perché oltre agli alberi non ci sono altre entità al mondo in grado di svolgere queste funzioni e, viste le condizioni ambientali dei tempi nostri, l’attività degli alberi dovrebbe essere potenziata anziché castrata da potature inutili o eccessive.

Nella foto n° 2 si vede il platano, a potatura conclusa, la sera del 29.12.2017; la giornata si è chiusa con uno spettacolare tramonto che ha consentito di apprezzare, oltre le forme, anche i colori (ma questo è solo un dettaglio). Pochi sono in grado di riconoscere che l’albero è stato potato, anzi, potato correttamente. Qualcuno si sarà certamente lamentato perché la potatura non viene ben percepita.

Si viene poi colti da un senso di tristezza nel vedere eseguire le potature di alberi belli, vigorosi, sani con le modalità che predispongono l’albero a formare situazioni di criticità future, ad ammalarsi, ad accogliere parassiti di varia natura e a restare senza foglie per le prime settimane della prossima stagione.
Siamo tutti immersi in aria inquinata, subiamo limitazioni alla circolazione, al riscaldamento, ecc. ma, nonostante tutto questo, ci permettiamo di sprecare foglie, germogli, parti di chiome degli alberi che avrebbero la possibilità di riequilibrare, almeno in parte, le emissioni nocive soprattutto di CO2 ma anche di catturare le polveri sottili, il pulviscolo di varia natura, e di ridurre le ondate di calore estivo con ombra e frescura all’interno delle zone edificate.
Nelle due foto seguenti sono rappresentati due esempi di potature fatte senza criterio e con poco rispetto per la fisiologia dell’albero







8-9 Platani privati della parte più periferica e più importante della chioma

I raffronti possono continuare anche con altre specie presenti e frequenti nelle nostre strade urbane. Nelle due foto seguenti si vede un ippocastano, di proprietà privata, lasciato allo sviluppo spontaneo e quasi “dimenticato” ripreso in inverno e in estate. Si può dire sia più largo che alto, tanto la chioma si è distribuita spazialmente, regolata dalle leggi della natura, dal patrimonio genetico della specie e dalle condizioni ambientali specifiche di quel luogo. I giardinieri non ci mettono mani e motosega da decenni e questo è, per lui e per tutti noi, una fortuna.



10-11 Portamento naturale di ippocastano cresciuto in assenza di interventi correttivi

Questo albero ha subìto le medesime sollecitazioni di vento e bufera degli altri alberi della città, ma non ha fatto una piega, non si è spezzato un ramo, alla faccia di chi consiglierebbe una drastica potatura per (presunte) ragioni di sicurezza.
Pur essendo confinato in uno spazio piuttosto modesto, ma sufficiente per le sue esigenze, ha prodotto un apparato radicale talmente ampio da potersi mantenere in piedi nonostante il vento e da poterlo alimentare per la produzione dei numerosissimi fiori primaverili e di tutto il fogliame di cui si riveste nella stagione estiva.
L’amministrazione pubblica, invece, pensa di gestire il patrimonio arboricolo riducendo periodicamente le chiome come mostrano le immagini seguenti; i posteri accerteranno che gli alberi sono diventati insicuri e pericolosi per la pubblica incolumità ed avranno fondati motivi per abbatterli.




12-13 Potatura drastica e dannosa su ippocastani




A questo punto sorge spontanea la domanda: si possono fare potature decenti che garantiscano la sicurezza e non penalizzino la salute dell’albero?
Dopo aver descritto il platano di Verderio indichiamo un altro bell’esempio, sempre in ambito urbano, per un albero secolare di olmo.
L’albero, attorno al quale sono state eseguite opere per la riorganizzazione del parcheggio pubblico, è stato assoggettato a potatura che ha comportato il sacrificio di qualche ramo debole, di qualche ramo cariato, o in soprannumero, ma ha conservato la gran parte dei rami, degli apici e delle gemme. A primavera potrà riprendere a vegetare immediatamente e ci farà compagnia per molti anni ancora.


14  Razionale potatura su un albero centenario di olmo
Lecco, 10 febbraio 2019                Giorgio Buizza – dottore agronomo



"FINO A QUI NOI SIAMO", la mostra di Elena Mutinelli a Milano

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Dal semibuio di un elegante bistrò si accede alla luce intensa della galleria Après – coup, dove la scultrice Elena Mutinelli espone una trentina di opere (29, per la precisione) in una mostra intitolata  FINO A QUI NOI SIAMO.


Sculture in creta, in marmo, in travertino, in resina; tavole scolpite e poi dipinte; disegni a matita o china; un dipinto ad olio.


Elena Mutinelli, Di nuovo Saturno, 2018, terracotta patinata





Corpi. Corpi nudi che si mostrano, che si affiancano,  che si incontrano. Corpi che generano altri corpi.

Elena Mutinelli, Nell'arena, 2015, olio su tavola scolpita
Richiami alla cultura classica: Orfeo e Euridice che si allontanano dall'Ade;  i personaggi di Poros e Penia, rispettivamente  padre e  madre di Eros, la nascita e il compleanno di Venere, la morte del centauro.

Elena Mutinelli, Orfeo e Euridice, 2016, argilla bianca






















Elena Mutinelli, La nascita di Venere, 2015, terracotta patinata
Sono i temi di Elena, la sua arte, la sua poetica

“Il mio lavoro vuole ripercorrere le tappe della tensione forte dell'uomo tra la vita e la morte. Una sorta di pellegrinaggio nell'anima, in cui egli è rappresentato alle prese con le intenzioni quotidiane dell'esistere nel gesto, nel frammento del suo stesso corpo o di altro cui sta per divenire.
In questa frammentarietà quotidiana taluni cercano di conoscere un volto che gli appartiene ma che, immediatamente dopo, diverrà altro. È il mutamento, la metamorfosi che prende forma nella mia opera: un ricongiungersi a sé stessi in un divenire dentro di sé e nell'altro.
Più o meno visibilmente, il mito è chiamato in causa per la sua straordinaria attualità. 
Mito che ripercorro attraverso la penna di Rilke e attraverso i suoi occhi che sanno vedere l’irrevocabilità dell’essere….
Leggendo le Elegie Duinesi, tante immagini vengono alla luce per la scultura: infinite maschere, sfumature e Orfeo, cantore che riesce a vedere e a sentire le cose non per come si mostrano ma per come si offrono nella loro intimità.
La bellezza degli angeli di Rilke è magnifica, ma non conosce mutamento, è  immutabile, non è metamorfosi. Non è l'immagine del nostro essere.
Nell'angelo il poeta esprime  la nostalgia per  una bellezza  che l'uomo, nella sua caducità e nel suo non permanere,  tocca e conosce, ma  non può raggiungere.


Elena Mutinelli, Fino a qui noi siamo, 2018, terracotta patinata
Ho rubato a Rilke le parole“Fino a qui noi siamo”, per la visione forte che mi offrono. Le ho date come nome a una mia opera e ora le ho usate per il titolo di questa mostra.
Oggi abbiamo paura del bello come del terribile. Siamo alla mercé dei linguaggi che ci allontanano dall’attenzione, dall’ascolto, dalla compressione e  anche dal tempo necessario per filtrare tutto questo.
Rilke ci insegna a vedere, a scoprire l'ostilità delle cose, a guardare in faccia la paura e a sconfiggerla  con la scrittura”
.



La mostra è allestita nella galleria Après-coup Arte di Milano, in via privata della Braida 5. Resterà aperta fino al 29 marzo e può essere visitata dal martedì al sabato, dalle  9.30 alle 22.00.

Una lunga intervista a Elena Mutinelli è pubblicata su questo blog al seguente indirizzo:
https://bartesaghiverderiostoria.blogspot.com/2018/11/elena-mutinelli-una-scultrice-verderio.html


"LA VITA È BELLA. Acquarelli & Chiacchiere di un pittore della domenica". Il nuovo libro di Francesco Gnecchi Ruscone

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“LA VITA È BELLA. Acquarelli & chiacchiere di un pittore della domenica” è il nuovo libro di Francesco Gnecchi Ruscone, il terzo, dopo quello dedicato al suo contributo alla lotta di Liberazione dal fascismo e l'altro dove racconta, rispondendo alle domande  di Adine Gavazzi, le storie legate alla professione di architetto (1).








In quest'ultimo libro sono raccolti i disegni ad acquarello a cui si è dedicato, avvicinandosi agli ottant'anni e alla fine della sua attività professionale, quando ha dovuto “inventare qualcosa da fare per riempire il mio tempo: non ho mai conosciuto le gioie del dolce far niente: ne ho sempre solo temuto la noia”


Tre libri, tre epoche della vita, tre argomenti completamente diversi. Cosa hanno in comune? Lo stile del loro autore, la sua arte di avanzare con  passo leggero (devo spiegarmi meglio? allora la dico così: la sua arte di non tirarsela) che credo sia evidente nei tre brani che ho trascritto.

Della sua partecipazione alla Resistenza, nel primo libro, scrive, con una nota di autoironia: “... il mio contributo personale è certo modesto: l'organizzazione di qualche lancio, il rilievo di una linea di fortificazione che in definitiva non è mai neanche stata guarnita, mesi di inattività causati da una mia mancanza di prudenza, la partecipazione alla insurrezione di Milano, che in sostanza è solo consistita nell'accettare la resa di nemici scoraggiati e rassegnati, tutto questo non è materia da farci su un'Iliade”
(2)

“Alla mia età si sente un forte richiamo di affinità e simpatia per chi ha voglia di raccontare le sue storie: l'anziano del villaggio nell'ombra fresca dei rami di un banyan o il resgiô della cascina davanti al paiolo della polenta, nel camino”,dice nel secondo (3).

Ne'“La vita è bella”, il nuovo libro, scrive: “Se da questo libro dovrà uscire un mio profilo, vorrei rappresentasse qualcuno che vuole condividere con il suo prossimo sguardi sui momenti felici, spargere incoraggiamento e buon umore, almeno fra chi, come me, cerca il bello fra le piccole cose”(4).





***

“C'è in questi acquarelli di Gnecchi Ruscone qualcosa che ci riporta indietro nel tempo, quando il frastuono del mondo non era ancora arrivato a distrarci a ogni ora del giorno e della notte”. Sono parole di Susanna Tamaro, che del libro ha scritto la prefazione, intitolandola “Un piccolo mondo antico".
 


Paesaggi, dove l'orizzonte è chiuso da profili di montagne o di colline, da filari di alberi o da una riga blu scuro di mare.
 



"CALA ROSSA A FAVIGNANA", pagg. 42-43


Paesaggi abitati da vari animali, per ricordarci “che non siamo gli unici abitanti di questo giardino fiorito” (Susanna Tamaro).

***

Ogni acquarello è  accompagnato dalle  “chiacchiere”, un breve racconto, che ne spiega il contesto o si concentra sul “personaggio principale”:
 

“Molti importanti scienziati sostengono che non sono le cicogne a portare i bambini alle mamme; finché non avremo prove certe del contrario dobbiamo crederlo. Questi bellissimi uccelli... ecc.”.
 

 
"LA VISTA DAL NIDO DELLE CICOGNE", pagg. 64-65


Altre "chiacchiere" sono in versi, brevi poesie, alcune dedicate alla moglie Lola, la compagna di una vita, mancata qualche anno fa:
 

Ardi, Peonia
nel sole di un mattino di Maggio,
danzando tra piume ondeggianti
di alti bambù.
Io siedo,
rana su una foglia di loto,
muto per tanto splendore.

 
Per Lola, 10/6/1982 (5)

 
"PEONIA", pagg. 66 - 67


Per deformazione personale, ho cercato se fra i disegni ce ne fosse qualcuno riguardante Verderio. L'ho trovato. È l'ultimo, intitolato ALLODOLE:

“Il paesaggio che ho dipinto è la ricostruzione idealizzata di un paesaggio reale della mia infanzia: i prati intorno alla cascina Bergamina, la casa di mio padre […]. È il ricordo di una mattina lontana: dovevo avere dieci o dodici anni ed ero uscito a passeggiare nei prati, senza una meta precisa. A un certo punto mi sono sdraiato sull'erba […]. Totalmente rilassato, udivo le allodole, altissimi puntini vibranti, trillare componendosi nel fruscio dell'acqua scorrente nella chiusa di una roggia, vedevo la lucentezza del cielo inquadrato dalle creste nitide  di Grigne e Resegone sopra l'ondeggiare leggero delle cime dei pioppi, [...]”
 

"ALLODOLE", pagg. 112 - 113

***


Non sono affatto da trascurare, a mio avviso, anche gli schizzi a matita presenti nel libro, frutto di un'antica abitudine dell'autore di portare con se nei viaggi, nelle vacanze e  nelle brevi gite, un piccolo notes su cui fissare paesaggi o scene di vita che meritavano di essere ricordate. 
“Da quell'abitudine – afferma Francesco - ho imparato a scegliere un'inquadratura, a riconoscere una gerarchia tra gli oggetti che, riprodotti, avrebbero costituito l'immagine”.
 









***

Il modo più semplice per acquistare il libro è quello di affidarsi a internet. Non sono di certo io però che vi può insegnare come, dato che ho dovuto farlo fare a mia moglie.

NOTE
(1) - Missione “Nemo”. Un'operazione segreta della resistenza militare italiana 1944 – 1945, Milano, 2011; Francesco Gnecchi Ruscone, Storie di Architettura, conversazioni con Adine Gavazzi, Milano, 2014.

(2)Missione “Nemo”, pag.118


(3) -  Storie di Architettura, pag. 17. Banyan:  è una pianta sempreverde diffusa nel subcontinente indiano. La sua caratteristica più evidente sono le radici aeree che, partendo dai rami e raggiunto il terreno, si trasformano in altrettanti tronchi, allargando così la superficie coperta da ogni albero. Wikipedia . Resgiô: è l'anziano, il capo della famiglia contadina.


(4) -  La vita è bella, pag. 16.


(5) -  La poesia "Peonia"nel libro è pubblicata sia in inglese, la versione originale, che in italiano.

 

VERDERIO 3 FEBBRAIO 2019. POSA DELLE PIETRE D'INCIAMPO IN RICORDO DEI FRATELLI MILLA filmato di Denise Motta

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Il 3 febbraio scorso, per ricordare Amelia, Laura, Lina, Ferruccio e Ugo Milla, il comune di Verderio, ha posato cinque "pietre d'inciampo", in via ai Prati, in prossimità dell'edificio dell'"Aia".

In questa casa essi abitarono dalla fine del 1942 al 13 ottobre 1943, quando soldati tedeschi arrestarono Ferruccio e Ugo.

Amelia, Laura e Lina, che quella sera erano riuscite a sfuggire alla cattura, furono arrestate qualche giorno dopo a Milano.

Dopo un periodo di detenzione a San Vittore, il 6 dicembre i fratelli Milla, che erano ebrei, furono deportati ad Auschwitz, dove  l'11 dicembre, il giorno del loro arrivo, furono assassinati nella camera a gas.

In questo filmato, realizzato da Denise Motta, la cerimonia della posa delle pietre.

Questo è l'indirizzo Youtube del filmato:
https://www.youtube.com/watch?v=S8tWtyAPNfs&feature=youtu.be



                         

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BIBLIOTECA COMUNALE DI VERDERIO
LA SCIENZA NEL 3° MILLENNIO
L’Uomo e l’Ambiente
Primo ciclo di conferenze 2019
 



Venerdì 29 marzo 2019
Ore 21.00

. PRESSO LA SCUOLA PRIMARIA "COLLODI" DI VERDERIO


AMICO ALBERO: RUOLI E BENEFICI
DEL VERDE IN CITTÀ
Alessio FINI


Università degli Studi di Milano
 


Ciclo di conferenze promosso dalla Biblioteca Comunale di Verderio, grazie alla collaborazione scientifica gratuita dei professori Gabriella CONSONNI e Giuseppe GAVAZZI, dell’Università degli Studi di Milano.
 

COSTRUZIONE PONTE SULL'ADDA A IMBERSAGO - 1900

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Ho acquistato queste fotografie qualche anno fa al mercatino dell'antiquariato di Imbersago. La didascalia su ognuna delle foto è: "Costruzione ponte sull'Adda a Imbersago - 1900". Successivamente, allo stesso mercatino, ho trovato una copia della terza fotografia in cui è specificato che il ponte fu costruito nel settembre del 1900.
Purtroppo, non avendo trovato niente sulla stampa locale dell'epoca, non ho altre informazioni riguardanti questa esercitazione militare. Se qualcuno trovasse altre  notizie me le faccia avere. Grazie, M.B. 












SANTUARIO DELLA MADONNA DELLA ROCCHETTA - UNA VISITA GUIDATA DA FIORENZO MANDELLI di Marco Bartesaghi

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2 giugno 2019, Festa della Repubblica. 
Fiorenzo Mandelli, il protagonista dell’articolo che sto impaginando, sarà insignito oggi del titolo di Cavaliere della Repubblica, per il suo impegno a favore del santuario della Madonna della Rocchetta. Penso sia un riconoscimento meritato e lo applaudo con molto piacere. M.B.






SANTUARIO DELLA MADONNA DELLA ROCCHETTA - UNA VISITA GUIDATA DA FIORENZO MANDELLI

Il Santuario della Madonna della Rocchetta




l Santuario della Madonna della Rocchetta è senz'altro uno dei luoghi più notevoli che si trovano lungo il corso del fiume Adda. Come lo si raggiunge? Percorrendo l'alzaia, per circa tre chilometri  partendo dal ponte di Paderno; dal cimitero di Porto d'Adda, scendendo per la strada a ciottoli che arriva proprio  ai piedi della scalinata che sale alla chiesa; dal mulino di Paderno d'Adda, imboccando la strada a ciottoli che conduce al fiume e prendendo a destra, dopo qualche decina di metri, il sentiero  che attraversa i boschi e passa dall'acquedotto di Paderno d'Adda. Queste le tre possibilità che conosco.
Il santuario è aperto tutti i sabati e tutte le domeniche. Ma anche negli altri giorni della settimana è facile trovarlo aperto. Per maggiore sicurezza basta telefonare a Fiorenzo Mandelli e chiedere informazioni.

 
Fiorenzo Mandelli

E Fiorenzo è sempre disponibile ad accompagnarvi nella visita e a raccontarvi tutto quello che sa del luogo e dei suoi dintorni.
Quello che segue è il racconto che ci ha fatto durante l'ultima visita:
 

“La nostra chiesa è costruita sui resti di una torre di controllo. Un dottore di Milano, di nome  Bertrando, un benestante che aveva dato un’ingente somma per la costruzione  del Duomo di Milano, aveva  voluto costruire  per sé un luogo sacro. Così, sulle fondamenta di una preesistente torre di controllo, ha fatto edificare questa chiesa e l’ha data ai frati agostiniani. Era l’anno 1386, lo stesso della fondazione del Duomo: sono gemelli”.
 

“Il lunedì di Pasqua– Pasquetta - è la festa del santuario. Tradizionalmente viene celebrata la messa con molti sacerdoti.  Un tempo, al momento dell’Elevazione, dal piazzale esterno partiva un segnale di fumo, in seguito al quale, dall’altra parte del fiume, venivano sparati tre colpi. Era un avviso. Chi era nei dintorni, magari nei terreni a lavorare, sapeva che doveva inginocchiarsi perché era il momento più solenne della Messa”.
 

“Qui siamo al confine fra tante province: la scalinata è provincia di Lecco, qui – ossia la chiesa – ora è  Monza Brianza, prima era Milano, oltre l’Adda è Bergamo.
Questo  santuario, che è stato costruito ancor prima di quello della Madonna del Bosco, era oggetto di molta devozione.  Tanti anni fa la gente, nel periodo estivo, non andava al mare o in montagna: veniva lungo il fiume, il luogo dove passavano le barche. Il fiume era la vita, poiché dava lavoro,  dava da mangiare. Per questo motivo qui c’era tanta devozione, anche se non è una cattedrale, è una chiesa piccolina, costruita con i sassi. Però, se guardate sull’altare, ci sono tante grazie ricevute.”


La visita all’interno del santuario inizia con la descrizione del Crocifisso posto sulla parete destra. È un crocifisso inconsueto che Fiorenzo ci presenta così:
 

“ Al posto del corpo sofferente del Cristo vediamo i fiori, le stelle, la luna. Come mai non ci sono i chiodi nei piedi e nelle mani? IL Cristo, indipendentemente dal colore della pelle delle persone o dalla religione di provenienza , abbraccia tutti. Dunque il significato di questo  Crocifisso, che può anche non piacere,  è la nostra vita. Che poi essa abbia un inizio e una fine, questo vale per tutti noi. Per il credente però muore il corpo e non l’anima”. 

 
Il Crocifisso del Santuario della madonna della Rocchetta
“Se dovessimo parlare tra di noi della vita e della morte –continua proponendoci alcune sue idee molto personali -  ci sediamo e ne discutiamo. Ma ai bambini piccoli non parlo della morte. È la loro vita che va avanti, è la mia vita che invece va a finire. Gliene parlerò quando sarà il momento opportuno. Mi capita di vedere nel periodo pasquale alcuni genitori o nonni che obbligano i bambini a baciare il Cristo morto. Ma se hanno paura perché li devi obbligare? Aspetta un momentino, gliene parlerai quando sarà il momento. Questo Crocifisso rappresenta la vita, non la morte”.

Le pareti a sinistra dell’entrata della chiesa sono addobbate con rami spinosi di robinia, ritorti per fargli assumere particolari forme e intrecciati con fili di lana rossi, in parte ancora avvolti a formare una matassa.







“Il santuario è circondato da boschi di robinia, una pianta spinosa con cui sono state fatte queste corone che formano l’albero della vita. Il rosso – dei fili – rappresenta il sangue, ma rappresenta anche l’amore. Il santuario si chiama Rocchetta, perché è su una rocca, e questa matassa, che viene usata in tessitura per fare le maglie, è un rocchetto. Il filo è ciò che ci tiene tutti insieme, ci tiene uniti. Qualcuno mi chiede: <>.  Gli spiego che nell’arco della vita la nostra strada non è sempre piacevole a volte troviamo difficoltà, che però si possono superare. Così dico: <>. Qui c'è chi intravvede un pesce, chi una barca: il santuario si trova vicino al fiume, quindi  all’acqua. Addirittura, se girato, qualcuno vede uno scudo: l’Adda è sempre stato un confine fra lo stato veneto e quello milanese. In questo contesto di luogo sacro, è stata creata questa opera con materiale del posto"






Lungo l’alzaia, sia arrivando da Lecco che da Milano,  si trovano dei simboli segnavia, una freccia o una cintura. Qual è il loro significato?

“Sono i segnali del Cammino di Sant’Agostino, di cui il Santuario della Rocchetta fa parte. La cintura ricorda la Madonna della Cintura a cui Agostino era particolarmente devoto. Sua mamma, Monica, che poi è diventata  santa, pregava sempre la Madonna. Alla fine Lei  le è apparsa, si è tolta la cintura e gliel’ha data affinché l’indossasse.
Monica pregava la Madonna soprattutto per suo figlio Agostino, che si è convertito a 33 anni e da giovane non era per niente un santo. Ai ragazzi delle scuole dico che era un po’ un birichino, in realtà era un donnaiolo”.

 

Il Cammino di Sant’Agostino è un  percorso che, nel nome del santo dottore della chiesa tocca vari santuari mariani disegnando idealmente, una rosa stilizzata le cui radici sono in Africa, nei luoghi della gioventù del santo, il gambo unisce le città di Monza, Milano, Pavia e Genova, le foglie si estendono verso est e ovest , lungo le province di Monza e Brianza, Milano, Varese e Bergamo.
In Brianza il Cammino inizia e finisce  a Monza, è lungo 415 chilometri e tocca 25 santuari. Il Santuario della Madonna  della Rocchetta lo si raggiunge il 14° giorno di cammino, nella tappa di circa 32 Km che inizia da Madonna del Bosco  e termina al Santuario della Madonna del Lazzaretto a Ornago.


***

Terminata la descrizione dell’interno del santuario, ci avviamo verso la cisterna tardo-romana.
“Qui, fino a qualche anno fa, era tutto bosco. A un certo punto, proprio al centro, il terreno ha cominciato a cedere. Il parco Adda Nord, che ha messo gran parte della cifra, e i comuni di Paderno e Cornate hanno stanziato 240 mila euro per finanziare il lavoro di due archeologhe che hanno portato alla luce la cisterna. Io ho avuto il piacere di seguire la loro ricerca giorno per giorno”.


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In primo piano, la cisterna tardo romana

Come si è proceduto?
“Per prima cosa, a distanza di circa un metro e mezzo dal perimetro della cisterna, sono stati infilati nel terreno 70 pali, alti tre metri, per evitare che il terreno franasse. Poi è stata costruita la struttura metallica, che richiama la volta che copriva il grande invaso. All’estremità vediamo il segno dei mattoni della corona”




La posa dei pali antifrana intorno all'area dello scavo (Arch. F. Mandelli)
“I romani quando occupavano un territorio come primissima cosa  realizzavano una riserva d’acqua, perché l’acqua è la sopravvivenza. Possiamo stare anche giorni senza mangiare, ma senza bere… Per esserci una  cisterna così grande doveva esserci un “castrum”, ovvero un insediamento, una popolazione. Ne è testimonianza la fortificazione esterna, dopo la recinzione vediamo le mura che affiorano”

Resti della fortificazione dell'area della Rocchetta
Non era inutile una fossa per l’acqua, avendo il fiume che scorre qui sotto?
“I romani non erano stupidi. In caso di attacco dovevano essere sicuri di avere acqua pura a sufficienza . Acqua che il nemico non poteva inquinare, come avrebbero potuto fare ad esempio abbandonando dei cavalli morti nel fiume, a monte dell’insediamento. Nei momenti tranquilli invece scendevano al fiume a prendere l’acqua e anche il pesce. 
Parlando di cisterna tardo romana, parlo di un’opera del IV/V secolo dopo Cristo”




I lavori di scavo della cisterna (Arch. F. Mandelli)
 ***
 
Torniamo alla chiesa. Sul retro c’è un piazzalino panoramico.
“Cerchiamo dei punti di riferimento: in quella vallata, dove mancano le piante, c’è il ponte di Paderno, non so se ne avete sentito parlare. È un ponte in ferro  molto importante, che unisce Paderno d’Adda con Calusco d’Adda".






"La parte di là dal fiume è provincia di Bergamo. Il primo campanile che vediamo è quello di Solza, l’altro è di Medolago, più avanti c’è Suisio”.




“Qui, proprio sotto i vostri piedi, sono state trovate alcune tombe con scheletri che sono stati portati all’istituto di medicina e studiati. Le tombe sono state ricoperte perché il finanziamento è stato utilizzato per recuperare la cisterna tardo romana. Quando ci saranno altri fondi verrà sistemata e resa visibile anche tutta questa area”.


Sepolture rtrovate sul retro del santuario della Rocchetta /Arch. F. Mandelli)
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Proseguiamo e ci spostiamo nei locali sotto la chiesa, un tempo abitati dai frati. C’è un lungo tavolo, noi visitatori ci sediamo da una parte. Fiorenzo, dall’altra, continua il suo racconto e ci mostra le fotografie appese al muro. Quella del naviglio di Paderno quando era ancora in funzione gli dà l’occasione di spiegarci perché fu necessario costruirlo e come funzionavano le chiuse. 





Navigazione sul naviglio di Paderno d'Adda (Arch. F. Mandelli)

“Guardiamo Milano su una cartina: alla sua destra, ossia a est, c’è il fiume Adda, che esce dal lago di Como; a sinistra, ovest, il Ticino,  che esce dal lago Maggiore. I “fiumi”, o meglio i canali,  che arrivavano a Milano erano il Naviglio Grande e il Naviglio Pavese, il primo derivato dall’Adda, il secondo dal Ticino. Attraverso i canali, con le barche, venivano trasportate le merci. Tanti anni fa i fiumi e i canali corrispondevano alle autostrade del giorno d'oggi.
Il fiume Adda nasce in Valtellina, è lungo 313 chilometri e va a finire nel Po. È tutto bello, largo e piatto, tranne per circa tre chilometri a valle di Paderno. Qui ci sono le rapide, che sono affascinanti, ma le barche che provenivano da Lecco, una volta arrivate a Paderno non potevano più proseguire. Immaginiamoci la situazione: si doveva scaricare tutto il materiale, caricarlo sui muli, superare le rapide e ricaricarlo dove l’Adda torna piatta. È per questo che, parallelamente al corso  del fiume,  è stato costruito un canale che serve a baypassare il tratto  non navigabile, il cosiddetto Naviglio di Paderno”



Le rapide. Immagine ripresa dalla sponda bergamasca
















Le rapide.

Le rapide. Il fiume durante la piena del giugno 1916.


















 

Fiorenzo con i modellini di una conca e di un barcone



“Il problema per le barche non era però solo quello di superare le rapide. Dovevano anche superare un dislivello di 27 metri. Come? Ai ragazzi delle scuole lo spiego in modo semplice perché devono capire bene. Gli dico: << a casa riempite una delle vaschette del lavandino  della cucina  e metteteci dentro una spugna che galleggia come se fosse una barchetta. Se volete farla passare nell’altro lavello, senza farla cadere, dovete riempire anche  l’altro lavello. Quando è pieno la barca deve superare solo un breve tratto fra i due lavandini. Le chiuse sono dei lavandini grandi. Guardate la fotografia, le persone aspettavano il carico, come alle fermate del pulman o della metropolitana. La conca più bassa veniva riempita d'acqua. Quando il livello dell'acqua nelle due conche era uguale si apriva il portone e la barca veniva avanti;  quando poi veniva fatta defluire l'acqua, la barca raggiungeva un livello più basso e poteva andare avanti. Nel lavandino di casa superiamo un piccolissimo  tratto, con una chiusa superiamo un tratto molto più lungo, nei tre chilometri abbiamo tante chiuse che ci permettono di superare il dislivello di 27 metri”.

La chiusa nei pressi della Rocchetta, in una foto dell'Archivio F. Mandelli e, sotto, come si presenta attualmente



“I primi studi per la costruzione del naviglio sono di Leonardo da Vinci, che muore il 2 maggio 1519 ad Ambois, in Francia.  Il  naviglio è terminato nel 1777. Come mai c’è voluto così tanto tempo? Per le guerre, che fermavano tutto, per la  mancanza di soldi, perché si scavava con piccone e pala, non esisteva la ruspa. Questo  naviglio è stato portato a termine dall’ingegner Meda e dal comasco Mosetti ed è terminato sotto il periodo di Maria Teresa d’Austria. A Milano il Naviglio Grande era in funzione già dal 1200. Qual è stato allora il contributo innovativo di Leonardo?  Lui aveva notato che a volte la pressione dell’acqua vinceva la resistenza delle porte che quindi si aprivano quando non dovevano. Allora pensò di chiudere le porte a cuneo, per opporre  più resistenza all’acqua.  Ha poi introdotto dei piccoli portelli, comandati da chiavistelli, che regolavano l’acqua. I gradoni che voi vedete solamente qua, servono a rallentare la forza dell’acqua. Sono tutte migliorie di Leonardo.
“Questo naviglio ha funzionato fino al 1930, qualche persona un po’ più anziana di me può averlo visto. Le barche che partivano da Lecco arrivavano a Milano in 23 ore; da Milano poi risalivano, trainata da due cavalli, e trasportavano controcorrente metà carico in dieci giorni. Dove adesso c’è il ristoro, “lo stallazzo”, c’era il ricovero dei cavalli: lì si trattavano meglio i cavalli degli uomini. Naturalmente di questi luoghi ce n’erano anche altri.
Lungo il fiume ci sono tanti piccoli edifici che ora sono completamente abbandonati, malridotti e invasi dalla vegetazione. È un peccato perché qua veramente c’è tanta storia”.


 
Lo stallazzo (Arch. F. Mandelli)




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In un’altra fotografia è rappresentato il Ponte di Paderno …
 “Questo ponte, a tre chilometri da qui, è più importante della Torre Eiffel  e tanti non lo sanno. Non me lo sto inventando io. Nessuno ci crede perché  la Torre Eiffel è a Parigi, in piazza, la vedono tutti. Questo ponte è stato progettato dall’ingegnere svizzero  Röthlisberger nel 1889. Non aveva il computer per fare i calcoli. Aveva solo matita, gomma e tanta testa. Cosa ha progettato? Un’enorme arcata che sovrasta completamente il fiume. La cosa grandiosa, che dovete osservare,  è che non ha piloni centrali di sostegno , nonostante debba reggere due vie di comunicazione una per i veicoli e una ferroviaria. A volte vediamo il treno che ha la locomotiva già dall'altra parte e non è ancora terminato. Il ponte è lungo 266 metri. Ora è fermo per la manutenzione, ma solitamente passano ogni giorno 55 treni. Perché ha retto fino adesso? Perchè l'ingegnere non l'ha costruito dentro l'alveo del fiume, ma esternamente e ha scelto di appoggiarlo dove ci sono le rocce, il ceppo dell'Adda.
È stato costruito da due squadre di lavoratori che hanno lavorato contemporaneamente, partendo una di qua e l'altra di là del fiume e i due tronconi si sono congiunti perfettamente. Con le tecnologie che ci sono adesso ci fanno vedere alla televisione che costruiscono tratti di strada che non riescono a congiungersi: ma dico? Siamo fuori di testa? Il ponte non ha bulloni, che non avrebbero tenuto alle vibrazioni provocate dal treno: al loro posto hanno scaldato, fino ad essere incandescenti, 100.000 chiodi di ferro che infilati nei fori sono meglio delle saldature. Tutta questa grande opera è stata costruita in due anni. Adesso in due anni non ti fanno una rotonda in strada”.


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La galleria che porta l'acqua alla centrale Bertini, svuotata per la manutenzione


“L'uomo ha pensato di deviare una parte dell'acqua del fiume, incanalandola per produrre energia pulita e rinnovabile. Chi arriva da Paderno vede l'imbocco dei canali sotterranei che vanno ad alimentare le centrali elettriche che sono a valle. Secondo te come sono grossi questi canali? Sono gallerie attraverso le quali l'acqua viene portata in un bacino posto sopra la centrale. Dopo essere stata pulita dalle schifezze che buttiamo noi (bottiglie di plastica, di vetro, sacchetti, eccetera) l'acqua entra nella condotta forzata e va a far girare la turbina che a sua volta fa girare l'alternatore che produce energia elettrica. Immediatamente dopo l'acqua rientra nel letto del fiume.
La  centrale Bertini, del 1898.  è stata la prima che ha portato l'energia elettrica a Milano. Due chilometri più in basso c'è la Esterle, costruita 15 anni dopo, che è molto più bella”.


La centrale Bertini.
La centrale Esterle
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È il momento dei “trofei”: Fiorenzo ci mostra le fotografie dei visitatori celebri a cui ha fatto da Cicerone:“Claudio Bisio, l'attore, che stupito della storia di questo luogo, ha fatto in modo che la scuola dei suoi figli venisse in gita; il rettore dell'Università Pontificia, il vescovo che fa gli esercizi spirituali a papa Francesco; Philippe Leroy, l'attore francese che ha interpretato Leonardo nello sceneggiato andato in onda su RAI 1”; il console generale d'Austria; il cardinale Scola; la cantante Rosanna Fratello; Vittoria  Haziel, una studiosa di Leonardo , che ha parlato di Fiorenzo in uno dei suoi libri; il figlio di Mike Bongiorno. Visitatore abituale è il duca Melzi d'Eril, di Vaprio d'Adda, un cui antenato aveva ospitato Leonardo da Vinci.


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La visita sembra conclusa ma Fiorenzo si ricorda di non averci ancora “ spiegato i due dipinti della Vergine delle rocce”.  Così torniamo in chiesa  dove il racconto continua:
“ La confraternita della chiesa di San Francesco Grande a Milano aveva commissionato a Leonardo  una pala d'altare raffigurante la Madonna . Lui doveva fare la figura centrale, per quelle ai lati avrebbero preso parte altri. La data di consegna sarebbe dovuto essere l'8 di dicembre, festa dell'Immacolata. Leonardo ha firmato il contratto, ha iniziato il dipinto ma poi ha cominciato a studiare il volo delle farfalle. Non avendo rispettato il termine della consegna è andato sotto processo e condannato a pagare una forte penale. Però in suo aiuto è intervenuto Luigi XII, re di Francia, che ha pagato tutto. Leonardo per sdebitarsi verso il re cosa ha fatto? Ha terminato il dipinto e glielo ha regalato . Ecco perché l'originale è al Louvre. Per la confraternita ha fatto un nuovo dipinto, che però è stato completato dai suoi allievi. Questa seconda “Vergine delle rocce” ora si trova alla National Gallery di Londra.   Come faccio io a capire qual è la versione completata da Leonardo e quella con la mano dei suoi allievi? Guardate bene, c'è una differenza che balza immediatamente all'occhio  …. Cedete? In uno ci sono le aureole e una croce, nell’altro no. Ricordatevi che in nessun dipinto di Leonardo ci sono simboli religiosi. È stata la confraternita a volerli aggiungere per poterli presentare in chiesa”.





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Fiorenzo con i suoi familiari  il giorno della nomina a Cavaliere della Repubblica
Il racconto ora è proprio finito e non vi ho ancora presentato Fiorenzo come si deve. Lo lascio fare da lui:
“Il mio nome è Fiorenzo Mandelli, sono nato a Concorezzo e risiedo a Mezzago, sono felicemente sposato, ho una figlia adulta e una nipotina di 2 anni. Ho lavorato per molti anni per un'importante industria di microelettronica finché è arrivato, anche per me, il momento di andare in pensione. Ho quindi potuto allacciare nuove amicizie  e conoscere meglio i luoghi che prima avevo visto solo di sfuggita. Fra questi il Santuario della Madonna della Rocchetta.
Notavo però che il Santuario veniva aperto solamente una volta all'anno (gli anziani di Porto d’Adda che se ne occupavano ora hanno più di 90 anni e tanti sono tornati alla casa del Padre), le erbacce e i rovi stavano prendendo il sopravvento. Così, dal 2006, con alcune persone di età avanzata sempre di Porto d'Adda, ho iniziato a fare qualche taglio delle erbe infestanti e di pulizia dell'area esterna attorno alla chiesa della Rocchetta e delle conche sottostanti del naviglio di Paderno d’Adda. Successivamente l’ex parroco don Egidio Moro, parroco di Cornate d'Adda, mi ha designato curatore e responsabile del Santuario, costruzione a ridosso della quale esiste un'area archeologica con una cisterna tardo romana e questo mi consente di parlare di questa chiesina ai numerosi pellegrini e visitatori che passano lungo il fiume Adda".

 

Fiorenzo ci regala una cartolina che oltre all’immagine della Rocchetta, ha il suo numero di telefono (3382800822)  e l’indirizzi e-mail ( fiorema22@tiscali.it )  . Chiamandolo prima della visita  si può sapere se il santuario è aperto.

***   


Lo Stallazzo visto dal piazzale della Rocchetta
Ora scendiamo per il pranzo allo stallazzo. Questo edificio, che un tempo, come ha ricordato Fiorenzo, fungeva da ricovero per i cavalli, oggi è un punto di ristoro per i “viandanti”, pedoni o ciclisti.





Gestito dalla cooperativa Solleva, è aperto tutti i giorni, dalle 8 alle 19 (anche 20) il sabato e la domenica, dalle 9 alle 17 gli altri giorni. Il sabato e la domenica si può sempre consumare un pasto caldo, preferibilmente su prenotazione: zuppe e altri primi piatti; “casóla”, brasato e spezzatino nelle stagioni fredde; grigliata in estate. Se prenotati, i piatti caldi possono essere consumati anche negli altri giorni della settimana. Sempre disponibili invece i panini imbottiti e i taglieri di formaggi o salumi.



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P.S. È passato qualche mese dalla visita alla Rocchetta che vi ho raccontato. Giorni fa, quando sono tornato per far controllare il testo a Fiorenzo, ho trovato una novità: la statua di Leonardo che, accostato al muretto che delimita il sagrato, guarda il fiume che scorre in basso, lo indica con una mano mente nell’altra tiene dei disegni arrotolati.
 



L’idea di dotare il piazzale di un segno che ricordasse Leonardo da Vinci a 500 anni dalla sua morte è stata di Fiorenzo. In un lettera al sindaco di Paderno d’Adda, Renzo Rotta, si era offerto di mettere a sue spese una targa in ricordo. Il sindaco accogliendo lo spirito della proposta ha però optato per una scultura a spese del comune.
Ma il ruolo di Fiorenzo non si è esaurito con la proposta poiché  suo è stato anche il suggerimento per la postura del soggetto. 


Fiorenzo mentre suggerisce la posa per la statua di Leonardo da Vinci



L'ADDA NEI DISEGNI DI TELESFORO DAVIDE GASPANI di Marco Bartesaghi

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Telesforo Davide Gaspani è un pittore.
Nella sua lunga carriera artistica – è nato nel 1937 – il fiume Adda ha rappresentato una costante fonte d’ispirazione. Ha studiato gli scorci più interessanti, si è soffermato sui particolari delle cose, delle piante, dei fiori. Ne ha tratto dipinti ad olio o a pastello che, a volte, ha popolato di personaggi, reali o fantastici.



Dipinto ad olio di Tefesforo Davide Gaspani


Un giorno, parlando con lui, avevo saputo che conserva ancora un buon numero di disegni ripresi lungo il fiume, perlopiù a matita, tracciati su fogli volanti, tagliati in modo irregolare, di diverse dimensioni. Forse poco più che appunti, utili per realizzare le opere più importanti, ma belli in sé, per la loro immediatezza e la loro sinteticità.

Disegni ispirati al fiume Adda, di Telesforo Davide Gaspani
Con questi disegni e con il permesso del loro autore, ho realizzato il breve filmato che qui vi presento, che ho intitolato “Il fiume Adda nei disegni di Telesforo Gaspani”.





      



https://www.youtube.com/watch?v=pCJGVCBV5z8

LEONARDO DA VINCI E GLI STUDI IDRAULICI. UN ITINERARIO LUNGO IL MEDIO CORSO DELL'ADDA. Tesi di laurea di Romina Villa

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Questa è la tesi di laurea in “Operatore del turismo culturale” che Romina Villa ha discusso il 25 giugno 2013 all’Università degli Studi di Ferrara.
Romina - che vive a Verderio, è nata il 3 aprile 1967, è sposata con Gianfranco e ha un figlio, Gianluca, di 18 anni –  ha sempre lavorato nell'editoria,  in particolare nei settimanali femminili, prima “Gioia” e ora “Elle”.
Si è iscritta all’Università dopo i quarant’anni, potendola frequentare, continuando a lavorare, grazie alla frequenza a distanza: “Non è stato facile. Gianluca era piccolo e il mio lavoro è sempre stato molto impegnativo. L'appoggio della mia famiglia e dei miei amici è stato fondamentale”. 
A Ferrara ha trovato un corso in grado di unire la sua passione per i viaggi con le sue materie di elezione, in particolare la storia dell'arte
“Mi sono iscritta per pura passione – racconta -  poi con il tempo, confrontandomi spesso  con i compagni di corso, ho capito che la passione poteva diventare anche un lavoro. Infatti dopo la laurea ho preso il patentino di guida turistica ed oggi sto cercando di sviluppare il mio piano B. La Brianza "operosa" sta scoprendo solo in questi anni la sua vocazione per il turismo, in particolare quello culturale e sono certa che tanto avrà da dire in futuro”.
La tesi è stata l'occasione per approfondire la figura di un grande della storia che per vari periodi della sua vita ha vissuto e lavorato nei nostri territori. Un argomento che l’ha appassionata, tanto che i suoi studi su Leonardo non si sono fermati lì.
Romina è attiva anche in paese: oggi è al suo secondo mandato come presidente della giovane Proloco di Verderio. M.B.
 

La tesi di Romina Villa è qui pubblicata pressoché integralmente. Le modifiche che ho apportato sono dovute al fatto che, per le caratteristiche del blog, il testo non è suddiviso in pagine. Perciò ho tralasciato di indicarle nel sommario, non ho pubblicato l'indice analitico e ho trasformato le note  piè di pagina in note a fine testo.
Mi sono permesso anche di aggiungere al testo le prime tre fotografie. M.B.

 
LEONARDO DA VINCI E GLI STUDI IDRAULICI. UN ITINERARIO LUNGO IL MEDIO CORSO DELL'ADDA.


SOMMARIO

Premessa
Introduzione
Cronologia della vita e delle opere di Leonardo

LEONARDO DA VINCI E LA SCIENZA. DA ARTISTA E INVENTORE A TEORICO DELLA NATURA. L’EVOLUZIONE INTELLETTUALE ATTRAVERSO L’ESPERIENZA DEI SOGGIORNI MILANESI

La lettera di presentazione al Duca di Milano
Leonardo e l’importanza dell’esperienza formativa nella bottega del Verrocchio
I rapporti con Lorenzo il Magnifico e il neoplatonismo della corte medicea
Leonardo lascia Firenze per Milano
 Milano e gli Sforza
Il difficile esordio sulla scena milanese
L’accettazione a corte e il compimento di una brillante carriera
Leonardo e Donato Bramante
Leonardo e Luca Pacioli
Leonardo e Francesco di Giorgio Martini

LEONARDO E L’ACQUA. DALLA PRATICA ALLA FORMULAZIONE TEORICA

La natura come essere vivente alla base del metodo scientifico
Gli studi idraulici nei manoscritti leonardeschi
Acqua vettore e matrice di vita
Acqua come risorsa economica e fonte di energia
Dall’ingegneria idraulica allo studio scientifico dei flussi. Il contributo di Leonardo
Esperienza e processi mentali
I risultati di Leonardo nell’ingegneria idraulica lombarda
Il secondo soggiorno milanese
Gli studi per rendere navigabile l’Adda

 
Immagine fuori testo


SULLE ORME DI LEONARDO. L’IMPRONTA DEL GENIO IN UN ITINERARIO LUNGO IL MEDIO CORSO DELL’ADDA

Il Parco Adda Nord. L’ambiente naturale e i caratteri storico-culturali
L’Ecomuseo di Leonardo
Il traghetto di Imbersago
 Il ponte in ferro di Paderno
Il Naviglio di Paderno
La chiesa di Santa Maria della Rocchetta
Le centrali idroelettriche. Bertini, Esterle, Taccani
Il villaggio operaio di Crespi
Verso Vaprio
 


Appendice. I manoscritti leonardeschi
Indice analitico
Bibliografia
Sitografia
Ringraziamenti 

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Costruire una sintesi di questo Grande
nell’ignoranza di tanta parte di ciò che pensò
e scrisse e nella scarsezza di monografie
coscienziose, sarebbe opera vana; né io volli
tentarla.
Edmondo Solmi “Leonardo” (1923)


PREMESSA

Ernst H. Gombrich, in un saggio che dedicò a Leonardo da Vinci, scrisse: «Si dovrebbe essere Leonardo per discutere qualsiasi aspetto di Leonardo; e anche in questo caso non si arriverebbe probabilmente mai a una conclusione»(1). Parole che suonano come un ammonimento a chiunque si appresti ad affrontare l’opera vinciana, spesso fonte di dubbi e incertezze.
Leonardo è universalmente chiamato «il genio», ma nessuno come lui seppe condensare nel suo agire la vera essenza dell’essere umano, ricercando con inesauribile tenacia la verità delle cose. «Questo è il vero motivo» - ebbe a scrivere una volta Mario De Micheli - «per cui possiamo ritenerlo un contemporaneo a tutti gli effetti»(2).
Fin dalla sua prima apparizione sulla scena fiorentina, dimostrò di aver appreso la lezione del primo Rinascimento e dell’Umanesimo che aveva spalancato le porte alla visione di un uomo nuovo che ora rifiutava l’ideologia medievale e i suoi rigidi principi teologici, per andare ad occupare il centro della realtà visibile. Per Leonardo, tuttavia,l’uomo riveste un ruolo di comprimario nel complesso e mirabile sistema della natura,che egli cercherà di indagare in tutti suoi aspetti con una carica intellettuale e una meticolosità pari a pochi.
La comprensione del suo pensiero non può prescindere dallo studio dei suoi manoscritti (3). I quaderni, in cui si sono condensati gli studi di tutta una vita, testimoniano l’incursione di Leonardo in ogni campo della scienza allora conosciuta (o filosofia naturale, com’era chiamata allora) e da sempre hanno suscitato la meraviglia degli studiosi tanto quanto quella suscitata dalla sua produzione pittorica, peraltro ridotta a un numero limitato di opere. I codici leonardeschi sono un concentrato impressionante di scritti e disegni, che raccolgono non solo le riflessioni sapienti sui fenomeni da lui osservati, ma anche note che rimandano alla quotidianità, il tutto in una specie didisordine apparente, reso ancor più ostico dalla tipica scrittura speculare. Queste «stratificazioni cronologiche oltre che d’argomenti»(4) che a prima vista confondono il lettore, si fanno più chiare proseguendo la loro scoperta;testimoniano innanzitutto «l’universalità del genio leonardesco» e spianano la strada alla conoscenza di quelmetodo scientifico che egli elaborò e di cui si parlerà più approfonditamente nelle pagine che seguono. Un metodo che presupponeva un’indagine posta su differenti livelli e campi del sapere in un continuo e inevitabile confronto tra di essi.
Alla morte di Leonardo, avvenuta il 2 maggio 1519 ad Amboise in Francia,i manoscritti (si ritiene fossero 13mila fogli) e la biblioteca furono ereditati per via testamentaria dal discepolo e amico Francesco Melzi d’Eril (5) che li riportò in patria dove vennero gelosamente conservati nella villa di Vaprio d’Adda, vicino a Milano. Negli anni seguenti Melzi cercò di riordinare l’ingente materiale, distinguendo i fogli con lettere alfabetiche o sigle e aggiungendo personali osservazioni. Dando realtà poi ad un’intenzione mai realizzata del suo maestro, il fedele discepolo lesse e organizzò i fogli dedicati alla pittura costituendo il famoso Trattato che un amanuense trasferì nel codice Urbinate (ora Vaticano 1270).
 

 
Immagine fuori testo




La dispersione dei manoscritti cominciò inesorabile dopo la sua morte avvenuta nel 1570, quando gli eredi non compresero il valore di quei documenti e ne permisero l’asportazione sistematica dalla soffitta della villa, dove erano stati nel frattempo relegati. La vicenda dei codici è complessa, a tratti avvincente, e merita una trattazione a parte. Per più di due secoli, chiunque entrò in possesso dei manoscritti, cercò di riordinarli secondo criteri discutibili, ritagliando e assemblando arbitrariamente i fogli, costituendo raccolte ex novo suddivise per argomento. Si stima che almeno metà dei
manoscritti siano andati perduti durante i vari passaggi di mano, tra una nazione e l’altra dell’Europa. Oggi si conservano circa 6000 fogli. Le collezioni più consistenti si trovano in Italia, Francia, Inghilterra, Spagna e Stati Uniti (6).
Tornando infine all’incertezza e ai dubbi espressi all’inizio di questa riflessione, appare saggio rivolgersi proprio a Leonardo per cominciare a dipanare la matassa. Egli scrisse:
«Noi conosciamo chiaramente, che la vista è delle veloci operazioni che sia, e in un punto vede infinite forme, nientedimeno non comprende se non è una cosa per volta.Poniamo caso: tu, lettore, guarderai in una occhiata tutta questa carta scritta, e subito giudicherai, questa essere piena di varie lettere, ma non conoscerai in questo tempo,che lettere sieno, né che voglian dire; onde ti bisogna fare a parola, verso per verso, a voler avere notizia d’esse lettere; ancora se vorrai montare a l’altezza d’un edifizio ti converrà salire a grado a grado, altrimenti fia impossibile pervenire alla sua altezza. E così dico a te, il quale la natura volge a quest’arte, se vogli avere vera notizia delle forme delle cose, comincerai alle particule di quelle, e non andare alla seconda, se prima non hai bene nella memoria e nella pratica la prima; e se altro farai, getterai via il tempo e veramente allungherai assai lo studio. E ricordoti ch’impari primo la diligenza, che la prestezza» (7).
La conoscenza si raggiunge facendo piccoli passi, uno dietro l’altro. E senza fretta.



INTRODUZIONE

La riscoperta dell’opera di Leonardo da Vinci ebbe inizio nel XIX secolo, quando i suoi quaderni - o meglio, ciò che rimaneva di tutto il materiale ereditato da Francesco Melzi dopo la sua dispersione - rivide la luce dopo secoli di oblio. Dalle polverose collezioni private i manoscritti vinciani presero la via delle grandi istituzioni culturali pubbliche, come i musei, le biblioteche nazionali e gli archivi di Stato, che da allora promuovono lo studio e la divulgazione della sua opera.
Nell’odierno immaginario collettivo Leonardo da Vinci continua ad occupare un posto di primaria importanza; nonostante la storiografia recente abbia ridimensionato il suo contributo di inventore e di scienziato, sbriciolando luoghi comuni nati più dalla leggenda che da certezze storiche, la sua popolarità non conosce battute d’arresto.
Dei seimila fogli manoscritti che sono pervenuti a noi, gli studiosi ne hanno studiato ogni riga e analizzato ogni disegno, mettendo a confronto l’opera di Leonardo con quella dei suoi contemporanei; eppure l’estrema complessità del suo pensiero, unita alla scarsità di notizie certe, generano continue revisioni e nuove ipotesi da parte della critica, costretta a esprimersi su di lui sempre con molte riserve.
Per il mondo scientifico quindi Leonardo da Vinci rimane una sfida e una fonte di probabili sorprese; nel 1967, la casuale scoperta di nuovi manoscritti presso la Biblioteca Nacional di Madrid ha da allora nutrito la speranza di ritrovare altro materiale, che potrebbe – ancora una volta – rimettere in discussione le tesi finora affermate e svelare l’incerto. Per il grande pubblico, Leonardo rimane una superstar, il   genio unico e inarrivabile. E l’artista che ha dipinto il quadro più famoso di tutti i tempi.
 

Leonardo e Milano. Nelle pagine che seguono si è deciso di analizzare l’evoluzione del pensiero scientifico di Leonardo alla luce delle sue esperienze di vita e di lavoro in Lombardia come tecnico e ingegnere, prima al servizio di Ludovico il Moro (1482-1499) poi come celebrato artista presso la corte francese a Milano (1506-1513). Questi due lunghi soggiorni, che messi insieme corrispondono a più di un terzo della sua esistenza, vedono la sua lenta e difficoltosa trasformazione da inventore e ingegnere praticante a teorico della scienza.
L’analisi della sua evoluzione intellettuale ci offre l’occasione per mettere in luce un lato di Leonardo meno noto, o, se vogliamo, quello debole. E’ difficile – ad esempio -immaginarsi il genio per eccellenza in difficoltà, nel tentativo di farsi notare alla corte sforzesca o intento a colmare le sue carenze di formazione con studi tardivi. La storiografia recente ci ha restituito un Leonardo diverso, forse più “umano” ma proprio per questo, più straordinario. Curiosità scientifica e tensione intellettuale uniche gli hanno permesso di oltrepassare dei confini come nessun altro prima di lui aveva saputo fare.
 

Leonardo e l’acqua. La progressione delle sue conoscenze e il passaggio dalla pratica alla teoria scientifica si può ravvisare con chiarezza negli appunti e nei disegni che trattano il tema delle acque. L’acqua, in tutti i suoi significati, fu insieme alla pittura,l’argomento di studio prediletto da Leonardo. Per comprendere meglio il suo approccio alla scienza ci si è domandati in queste pagine cosa hanno significato per lui l’elemento acqua con le leggi fisiche e meccaniche che da essa derivano, seguendo quell’intreccio tra invenzioni ingegneristiche e teorie sul moto dei fluidi che, come un filo conduttore, attraverserà tutto l’arco della sua carriera.
 

 
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Leonardo e l’Adda. Acqua significa fiume e fiume significa Adda. E’ la storia di un incontro vissuto soprattutto durante il secondo soggiorno milanese, quando per un periodo Leonardo fu ospite a Vaprio d’Adda presso la villa del nobile Girolamo Melzi, padre dell’allievo prediletto Francesco. Nei territori abduani si dice che questo fiume sia “femmina”, ed è proprio nel tratto tra Lecco e Vaprio (quello – per intenderci -frequentato e studiato da Leonardo) che l’Adda manifesta i tratti “femminili”, perché come una donna, ora è placida, ma un attimo dopo diventa capricciosa; così le sue acque tranquille nel giro di pochi chilometri si fanno turbolente e si vorrebbero imbrigliare e domare, come anche Leonardo progettò di fare.
Egli rimase affascinato da questo fiume e dalla natura che lo circonda. Ne furono contagiate sia la sua arte sia la sua scienza. Oggi è possibile rivivere le sue sensazioni percorrendo un itinerario – esclusivamente ciclo-pedonale – che segue il corso del fiume, a sud del lago di Lecco e prosegue per poco meno di trenta chilometri in un ambiente naturale di selvaggia bellezza, tra gli echi della presenza di Leonardo e le opere che l’uomo ha saputo fare dopo di lui seguendo il suo esempio, per sfruttare il fiume senza danneggiare l’ambiente circostante. Una vera fortuna questa, se si pensa a quanto siano state antropizzate queste zone.



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CRONOLOGIA DELLA VITA E DELLE OPERE DI LEONARDO (8)

1452– Leonardo nasce il 15 aprile ad Anchiano, frazione di Vinci, nei pressi di Firenze. Figlio illegittimo di Ser Piero da Vinci, notaio, e di una giovane contadina di nome Caterina. E’ allevato dal nonno paterno e dallo zio Francesco, ed educato secondo le consuetudini borghesi. Essendo figlio naturale, non può accedere agli studi universitari, ma per tutta la vita cercherà di colmare la mancanza di una dotta istruzione.

Primo periodo fiorentino1464/1469 – Dopo la morte del nonno va a vivere con il padre a Firenze, il quale –intuito il talento del figlio – lo introduce nella bottega di Andrea del Verrocchio, a quel tempo tra le più prestigiose in città. Lì Leonardo fa il suo apprendistato con Botticelli, Perugino e Lorenzo di Credi.

1472 – Il nome di Leonardo compare negli elenchi della corporazione dei pittori fiorentini, quella di San Luca. Continua comunque a lavorare nella bottega del Verrocchio. La formazione prevede non solo l’esercizio della pittura, ma anche quello del disegno. Apprende differenti tecniche di scultura, di oreficeria e nozioni di meccanica, ingegneria e architettura.

1473 – E’ datato 5 agosto un disegno a penna raffigurante una Veduta della Valdarno (Firenze, Galleria degli Uffizi). E’ la prima opera datata e firmata dell’artista a noi nota. Il disegno preannuncia i fondamenti di tutta la produzione vinciana con due importanti innovazioni: il paesaggio, fino ad allora concepito nel campo dell’arte come elemento secondario, assume il ruolo di protagonista della composizione. E’ inoltre un ritratto reale e non composto attraverso un processo mentale dell’artista. Inizia così la ricerca da parte di Leonardo della resa dell’atmosfera e dell’effetto vibrante dell’aria.

1473/1475 – Un olio su tavola raffigurante l’Annunciazione (Firenze, Galleria degli Uffizi) testimonia il superamento dell’esperienza condotta presso la bottega del Verrocchio. Leonardo si lascia alle spalle l’uso della linea di contorno tipica della pittura fiorentina (che si basa sul disegno) e intraprende la sperimentazione della fusione tra luce e ombra. E’ l’origine del cosiddetto «sfumato», una peculiarità di Leonardo che raggiungerà la perfezione nelle opere del periodo milanese.

1474/1478 – Il Ritratto di Ginevra de’ Benci (Washington, National Gallery) propone uno schema differente rispetto ai consueti canoni fiorentini. La nobildonna è ritratta in figura a tre/quarti e collocata in un suggestivo ambiente naturale che si dissolve in una luce azzurrina. Lo stile rivoluzionario di Leonardo si evidenzia in un'altra opera commissionata al Verrocchio e realizzata con l’ausilio degli allievi. E’ il Battesimo di Cristo (Firenze, Galleria degli Uffizi) in cui si riconosce la mano di Leonardo nella morbida resa dell’angelo visto di profilo e della rarefatta atmosfera del paesaggio che
circonda la scena del battesimo.

1478/1481 – Risalgono a questo periodo i primi scritti e i primi disegni oggi riferibili al Codice Atlantico e ai fogli conservati nella raccolta di Windsor. Nonostante la giovane età, i suoi appunti mostrano già elaborazioni teoriche complesse che spaziano dalla scienza meccanica alla matematica, dall’astronomia alla fisica, dalla botanica all’anatomia. Compaiono anche le prime invenzioni. Nel 1481 i monaci del convento di San Domenico a Scopeto gli commissionano l’Adorazione dei Magi (Firenze, Galleria degli Uffizi). L’opera, un olio su tavola, rimarrà incompiuta, ma rivoluzionerà nella composizione e nel suo significato più profondo l’iconografia di uno dei temi pittorici più in voga dal 1300. Laddove i dettami dell’epoca prevedevano il tradizionale corteo di
personaggi in adorazione, Leonardo sostituisce una folla in tumulto attorno alle figure placide della Madonna e il Bambino. Le espressioni dei volti, i cavalieri in affanno e i ruderi che fanno da sfondo testimoniano lo stupore e lo sbigottimento per la venuta sulla terra del Figlio di Dio. E’ il manifesto della sua poetica e della sua capacità di trasporre sui volti i moti dell’animo umano. Sono di questo periodo altre importanti opere tra cui
spiccano: la Madonna con Bambino o Madonna Benois (San Pietroburgo – Ermitage) in cui colpiscono la familiarità dei gesti e gli scambi affettuosi tra Maria e il Bambino; e il San Girolamo (Roma – Pinacoteca Vaticana), incompiuto. Per Leonardo però sembra essere giunto il tempo di grandi cambiamenti.

Primo periodo milanese1482 – Leonardo lascia Firenze per Milano. Secondo le fonti è Lorenzo il Magnifico che lo invia come ambasciatore alla corte di Ludovico il Moro. Per Leonardo però è anche l’occasione per allontanarsi dall’ambiente delle speculazioni intellettuali che caratterizzano la cerchia del Magnifico e nel quale egli non è mai riuscito ad inserirsi.
La corte sforzesca gli appare come il luogo ideale in cui poter approfondire i suoi studi scientifici. Milano è una città vivace e piena di stimoli. Il Moro è un ottimo stratega e intrattiene rapporti diplomatici con le corti di tutta Europa. Nel Codice Atlantico è contenuta una lettera – ritenuta autentica anche se non è autografa – in cui, offrendosi al servizio di Ludovico, egli elenca le sue capacità di inventore e architetto, esperto nei campi della meccanica e dell’ingegneria militare. C’è solo un accenno alle sue doti artistiche e questo la dice lunga sul ruolo che Leonardo ambisce a ricoprire a corte.

1483 – Insieme ai fratelli Evangelista e Ambrogio De Predis firma un contratto con i frati dell’Immacolata Concezione per la decorazione di una pala d’altare. Gli è affidata la parte centrale del trittico che prevede la Madonna con il Bambino, ma contravvenendo alle precise indicazioni stilistiche e di contenuto ordinate dai frati, dipinge un’opera destinata a scatenare il malcontento dei committenti. Aveva dipinto la Vergine delle rocce (Parigi, Louvre). La tavola raffigura l’incontro tra il Battista Bambino che si reca nel deserto e Gesù di ritorno dall’Egitto. I due infanti e la Vergine formano un gruppo reso omogeneo da un mirabile gioco di gesti, uniti in uno schema a piramide. Tutt’attorno la natura composta da rocce, acque correnti e vegetazione,
modulata da un uso sapiente di luci ed ombre, rivela uno studio meticoloso dei fenomeni naturali.

1484/1488 – Milano è colpita da un’epidemia di peste. Leonardo si dedica ad un lungo programma di studi (ottica, botanica, urbanistica, volo degli uccelli, geologia). Conosce Donato Bramante con il quale collabora al progetto per il tiburio del Duomo. Sono di questo periodo due opere significative: Ritratto di musico (Milano, Pinacoteca Ambrosiana) e Dama con l’ermellino (Cracovia, Czartoryski Museum). Quest’ultima raffigura Cecilia Gallerani, la favorita di Ludovico. Con questo ritratto conquista il pieno favore del Moro e una certa notorietà, anche fuori dai confini del Ducato.

1489/1490 – Ludovico gli affida il compito di realizzare una statua equestre per onorare il padre Francesco I. Leonardo si dedica anima e corpo al progetto di un monumento in bronzo di grandi dimensioni; compie studi accuratissimi sull’anatomia e il movimento del cavallo rintracciabili in molti suoi disegni, ma si applica a questo progetto in maniera incostante, tanto da indurre il Moro a sollecitare più volte la consegna.
Leonardo è però molto impegnato a corte. Tra i lavori degni di nota c’è la realizzazione dell’allestimento per la Festa del Paradiso, una rappresentazione allegorica i cui versi sono scritti dal poeta Bernardo Bellincioni e messa in scena in occasione del matrimonio tra Gian Galeazzo, il legittimo erede del ducato, e Isabella d’Aragona, nipote del re di Napoli. In questi anni approfondisce i suoi studi di anatomia (cranio,stimoli visivi, sistema nervoso, muscoli) e quelli concernenti le proporzioni umane (disegna L’Uomo vitruviano). Conosce l’architetto senese Francesco di Giorgio Martini, del quale Leonardo conosce bene il Trattato di architettura e che sarà una figura fondamentale per la sua formazione; con lui si reca a Pavia per compiere studi sul duomo in costruzione; la città è un forte stimolo per l’artista: studia il corso del Ticino e le piante di numerose chiese; visita la prestigiosa biblioteca dell’università dove conosce e allaccia proficue relazioni con alcuni dotti come il matematico Fazio Cardano e il pittore Agostino da Pavia.

1491/1494 – Leonardo è impegnato nell’organizzazione dei festeggiamenti per il matrimonio di Ludovico con Isabella d’Este, ma allo stesso tempo lavora alla
realizzazione di un modello in argilla del cavallo, che – date le imponenti dimensioni – viene chiamato il «colosso». I problemi su questo fronte sono notevoli: il progetto è fin troppo ambizioso e per questo motivo viene rivisto più volte. Sono necessari studi approfonditi sulla fusione dei metalli e complicati calcoli matematici per scongiurare il fallimento totale del progetto. Nel frattempo compie un viaggio, probabilmente al seguito della duchessa Bianca Maria – figlia illegittima di Ludovico – destinata a sposare a Vienna l’imperatore Massimiliano I d’Asburgo. Visita il lago di Como e la
Valtellina, descrivendo meravigliato nei suoi appunti la Fonte Pliniana,l’orrido di Nesso, Fiumelatte e Bellagio. Non è comunque il suo unico viaggio di questo periodo:nel 1494 si reca a Vigevano per seguire i lavori di ristrutturazione del castello sforzesco.
E’ in questi anni che Leonardo matura il suo interesse per le acque. Al suo arrivo a Milano aveva già avuto modo di osservare le imponenti opere di canalizzazione realizzate sotto il dominio dei Visconti in tutto il territorio. Il suo contributo come ingegnere ducale prevede dunque anche gli interventi di miglioramento della fitta rete idrica, così importante per l’economia del ducato.

1495/1497 – Gli viene affidato l’incarico di affrescare il refettorio dei Frati Predicatori presso il complesso di Santa Maria delle Grazie, la cui chiesa aveva già raggiunto il massimo splendore con la realizzazione della cupola firmata da Bramante. Il tema è quello dell’Ultima Cena di Gesù e gli apostoli. Leonardo esegue numerosi schizzi preparatori e sceglie con cura i modelli. La leggenda lo vuole aggirarsi tra i vicoli della città alla ricerca dei volti che possano incarnare i personaggi del sacro banchetto. La fretta è sua nemica e nelle sue opere è abituato a procedere con lentezza. Proprio per questo motivo non sceglie la consueta tecnica dell’affresco, ma decide di usare i colori a tempera per poter lavorare sull’intonaco asciutto e poter operare così gli opportuni aggiustamenti richiesti dai suoi continui ripensamenti. Fu un tragico errore ed è risaputo che l’opera cominciò a deteriorarsi solo dopo pochi anni dal suo compimento. I disastrosi interventi di restauro operati nei secoli e il lavoro di recupero dell’originale compiuto da Pinin Brambilla nell’arco di un ventennio a partire dal 1977, mostrano oggiun’opera sostanzialmente diversa (soprattutto nella resa del colore) da quello che dovette sembrare allora, ma certo rimane un’opera che desta stupore e meraviglia, così com’era capitato per i contemporanei di Leonardo che avevano visto l’opera. Con intensa tensione drammatica, egli dipinge il momento immediatamente successivo alle parole del Cristo che annuncia il tradimento. Gli apostoli sono pervasi da un’intensa
emozione e i loro volti mostrano reazioni diverse. La scena sembra prendere vita nel refettorio grazie anche al mirabile gioco di prospettiva che prolunga lo spazio reale e che lo fa sconfinare in un paesaggio luminoso appena scorto attraverso una finestra dipinta sul fondo. Nel frattempo a Milano era giunto dalla Toscana un frate domenicano, Luca Pacioli, un matematico già attivo in molte città della penisola, considerato uno dei più eminenti studiosi di aritmetica ed algebra del tempo. L’incontro con il Pacioli è fondamentale per Leonardo; è una profonda amicizia destinata a durare nel tempo e che permetterà a Leonardo di approfondire i suoi studi matematici, in particolare la teoria di Euclide. Sono di Leonardo le mirabili illustrazioni dei poliedri nel trattato «De divina proportione» che il Pacioli scriverà di lì a poco e che oggi ritroviamo anche nel Codice Atlantico. Di questi anni è il noto ritratto ad un’altra
favorita di Ludovico, Lucrezia Crivelli, conosciuto oggi con il titolo di «Belle Ferronnière» (Parigi, Louvre).

1499 – La situazione politica del ducato si è fatta difficile. I Francesi, già scesi in Italia qualche anno prima alla guida di Carlo VIII, rivendicano i diritti della casata d’Orléans, imparentati un tempo con i Visconti e reclamano Milano con i suoi territori. Il re Luigi XII si allea con i veneziani e mette a capo del suo esercito il nobile milanese Giangiacomo Trivulzio. A settembre i Francesi entrano in città, costringendo il Moro a fuggire. Dopo diciassette anni al servizio di Ludovico, a dicembre Leonardo lascia Milano con Lucia Pacioli e uno dei suoi allievi, il Salaì. Il gigantesco modello del cavallo è distrutto dai soldati francesi e cala per sempre il sipario sulle vicende della
dinastia degli Sforza.

Secondo periodo fiorentino1500 – Durante gli ultimi giorni a Milano, Leonardo aveva provveduto a trasferire i suoi risparmi a Firenze con l’intenzione di ritornarvi. Prima di arrivarci fa però tappa a Mantova e poi a Venezia. A Mantova è ospite di Isabella d’Este, che in passato aveva avuto modo di ammirare il dipinto raffigurante Cecilia Gallerani; non esita quindi a chiedere per lei stessa un ritratto. Leonardo ricambia l’ospitalità ricevuta schizzando su un cartone il volto di Isabella con la promessa di ritrarla, cosa che mai fece, nonostante le continue richieste della marchesa che giungeranno a Leonardo tramite i suoi
ambasciatori. A Venezia propone i suoi servigi come ingegnere militare ed ha anche l’opportunità di visitare l’entroterra della Repubblica, studiando in particolar modo i corsi d’acqua. Nel Codice Atlantico possiamo oggi ravvisare i progetti militari (tra cui il noto palombaro) che egli fece in gran segreto per i veneziani impegnati a difendere i confini orientali dal pericolo turco. A primavera è già a Firenze, dove risiede probabilmente presso il complesso della Santissima Annunziata, ospite dei Frati Serviti.

1502 – Su incarico di Cesare Borgia, comandante generale delle truppe papali, si reca in Romagna, dove svolge principalmente il ruolo di architetto ed ingegnere militare.
Disegna una mappa di Imola. Visita Pesaro e Urbino. Si ferma a Cesena dove fa dei rilievi per le fortificazioni della rocca. Progetta il porto di Cesenatico e ne segue i lavori.
E’ durante questo soggiorno che conosce Niccolò Machiavelli, con il quale condivide parte del viaggio.

1503/1505 - Di ritorno a Firenze è incaricato dal gonfaloniere della Repubblica Pier Soderini di affrescare una parete nella Sala del Gran Consiglio di Palazzo Vecchio. La rinata repubblica fiorentina vuole celebrare il suo glorioso passato affidando a Leonardo il tema storico della Battaglia di Anghiari, che nel 1440 vide i fiorentini aver la meglio sull’esercito milanese. Ad un altro grande artista, Michelangelo, è affidata la decorazione di un’altra parete della sala con la rappresentazione della Battaglia di Cascina, avvenuta nel 1364 tra fiorentini e pisani. Secondo il Vasari, tra i due «era sdegno grandissimo» ed è facile supporre quanta rivalità ci fosse anche in questa occasione. E’noto però che entrambi non portarono a termine l’incarico. Michelangelo lasciò solo un cartone prima di ripartire per Roma nel 1506. Per quanto riguarda Leonardo, il suo affresco – di nuovo realizzato con tecniche sperimentali – non viene terminato e nel 1563, già in rovina, scomparirà dalla parete con le modifiche apportate alla sala da Vasari. Grazie ad alcuni suoi schizzi e a copie realizzate dai contemporanei, sappiamo che l’artista aveva, ancora una volta, dipinto un’opera di grande potenza figurativa e di forte impatto emotivo, esaltato da un vortice di uomini e cavalli avvinghiati tra loro nel momento più terrificante della battaglia. Gli impegni con la Repubblica non si limitano però alle commissioni artistiche. Per Firenze svolge compiti di ingegnere idraulico e militare. Viaggia infatti per tutta la Toscana, in stretto contatto con Machiavelli; progetta fortificazioni per Piombino e anche un’ambiziosa deviazione dell’Arno per mettere in difficoltà gli eterni nemici pisani. Nel 1504 riceve la notizia della morte del padre che sarà presto motivo di contrasto con i fratelli per via della contestata eredità. Intanto il grandioso progetto di deviazione dell’Arno prende avvio tra mille difficoltà con l’impegno di ingenti mezzi economici e centinaia di uomini. Il fallimento è dietro le porte e causa un raffreddamento dei rapporti con le autorità fiorentine, che cominciano a dubitare di lui. Anche i lavori dell’affresco a Palazzo
Vecchio vanno a rilento tra mille difficoltà. Le opinioni su Leonardo vanno più o meno tutte nella stessa direzione; il malcontento è evidente e, tra le accuse di essere troppo lento e di portare avanti progetti irrealizzabili, nessuno immagina quali “assurdità” –almeno per quel tempo – riempiano la mente dello scienziato. Un sogno lo ossessiona fin da quando era bambino: librarsi nell’aria come un uccello. Nel Codice sul volo degli uccelli, oggi conservato presso la Biblioteca Reale di Torino, sono fissate le importanti teorie leonardesche sul moto dei corpi nell’aria. Ancora una volta quindi, è pronto a
lasciare Firenze.

Secondo periodo milanese
1506/1508 – E’ di nuovo a Milano, questa volta al servizio del re di Francia; il governatore del ducato Carlo d’Amboise, suo grande ammiratore, l’ha reclamato a corte. Si tratta inizialmente di un permesso di trasferimento temporaneo, concesso dai fiorentini che ancora pretendono da lui di terminare la Battaglia di Anghiari. Questa volta a Milano Leonardo si trova in una condizione privilegiata; gli sono messi a disposizione tempo e denaro che egli utilizza principalmente per approfondire i suoi studi sulle acque; sta meditando di raccogliere i suoi appunti sull’argomento in un unico Trattato. Nel 1507 conosce Francesco Melzi d’Eril, un giovane nobile che diventerà presto suo allievo prediletto e seguace. Per alcuni mesi soggiorna presso la villa Melzi a
Vaprio d’Adda. In questo periodo ha modo di studiare il fiume Adda e i territori circostanti. A Windsor si conservano numerosi disegni che ritraggono il paesaggio abduano e i suoi progetti idraulici per rendere navigabile il fiume in questo tratto.
Continua inoltre la oramai ventennale disputa con i frati domenicani per la Vergine delle Rocce; insieme ad Ambrogio de Predis mette a punto una nuova versione (Londra, National Gallery) che mira ad andare incontro alle richieste della committenza. Non mancano però trasferimenti temporanei a Firenze per portare avanti commesse e seguire gli affari di famiglia. Durante uno di questi soggiorni, compie l’autopsia sul corpo di un centenario presso l’ospedale di Santa Maria Nuova.

1509/1510- Al rientro a Milano, ricomincia a dipingere. Continua a lavorare su alcune opere iniziate nel precedente soggiorno a Firenze. Lì, quasi dieci anni prima aveva realizzato un cartone della Sant’Anna con la Vergine e il Bambino molto ammirato, tanto che Vasari racconta che «finita ch’ella che fu, nella stanza durarono duoi giorni di andare a vederla gli uomini e le donne, i giovani et i vecchi, come si va a le feste solenni, per vedere le meraviglie di Lionardo, che fecero stupire tutto quel popolo». Il cartone a cui si riferisce Vasari è perduto, ma sono noti studi che mostrano il Bambino intento a giocare con un agnellino. Un successivo e più noto cartone del 1508 (Londra, National Gallery) vede un San Giovanni Bambino in luogo dell’agnello. A Milano incomincerà il dipinto nella versione con l’agnello (Parigi, Louvre) intorno al 1510, per proseguirlo anni dopo in Francia e lasciandolo incompleto nella veste della Madonna.
Gli schemi geometrici studiati per il Sant’Anna si rinnovano in un’altra importante opera dal tema mitologico e purtroppo perduta, la Leda. L’importanza dell’opera è dedotta dai numerosi disegni preparatori che oggi ritroviamo in alcune collezioni e da opere successive realizzate dagli allievi, che utilizzarono l’impianto compositivo del maestro. Infine, un altro dipinto concepito a Firenze, continuato a Milano e portato con sé in Francia è la notissima Gioconda (Parigi, Louvre), la summa di tutta la poetica leonardesca, in cui si riflettono gli studi affrontati. Per Leonardo la pittura è una scienza,
il mezzo più appropriato per la resa del mondo sensibile, nonché della sua conoscenza più profonda. Sul fronte scientifico, è importante sottolineare l’incontro con un medico di Pavia che Leonardo frequenterà con assiduità fino alla morte improvvisa di questo; si tratta di Marcantonio della Torre che era noto i suoi corsi di anatomia tenuti nel prestigioso ateneo pavese.

1511/1513 – Nel dicembre del 1511 truppe mercenarie di soldati svizzeri alleate al papato invadono Milano e scacciano i Francesi. Leonardo lascia la città e si trasferisce a Vaprio d’Adda presso i Melzi, dove vi rimarrà per due anni. Qui continua gli studi sul moto delle acque e compie escursioni importanti per i suoi studi su rocce, fossili e piante. Risale il corso dell’Adda fino a Lecco, esplora la Valsassina dove visita le miniere. Esplora anche la Valtellina dove rimane affascinato dalle vette sempre innevate e dalle acque curative che sgorgano a Bormio, già conosciute ai tempi dei romani. Di questo periodo è noto anche uno studio architettonico per la ristrutturazione della villa dei Melzi. Intanto a Roma viene eletto un nuovo papa; si tratta di Giovanni de’ Medici –
figlio di Lorenzo - che sale al soglio pontificio con il nome di Leone X. Nello stile che contraddistingue la famiglia fiorentina, amante dell’arte, il nuovo papa chiama a Roma una schiera di artisti e letterati. E’ tanto l’entusiasmo e tanta la voglia di fare del pontefice, che non si risparmia in nulla. Anche Leonardo parte per Roma su invito di Giuliano de’ Medici, fratello di Leone X.

Il periodo romano1513/1514 - A Roma risiede presso il Belvedere vaticano, dove Giuliano gli ha fatto preparare uno studio. E’ un artista venerato, ma costretto a misurarsi con i talenti più alla moda in quel momento nella corte papale, come il giovane Raffaello. Si sente per questo tagliato fuori dalle nuove dinamiche della committenza romana. A questo periodo si fa risalire il notissimo autoritratto in sanguigna su carta (Torino, Biblioteca Reale). Nonostante l’età, continua a viaggiare. A Civitavecchia studia il porto e visita le rovine. Si ha notizia anche di viaggi a Parma e nella pianura pontina per gli studi sulle bonifiche.

1515/1516 – Il nuovo re di Francia, Francesco I, riconquista Milano e i suoi territori. A Lione, durante un ricevimento per festeggiare il suo rientro dall’Italia, viene presentato un leone meccanico ideato da Leonardo, che dopo aver compiuto alcuni passi apre il petto dal quale cascano gigli bianchi, simbolo della casa reale di Francia. Intanto a Roma Leonardo comincia ad avere qualche problema con le autorità per via dei suoi studi di anatomia; gli viene revocato il permesso di eseguire autopsie. Nel marzo 1516 muore Giuliano de’ Medici e, ritrovandosi a Roma senza il suo protettore, decide di accettare l’invito di Francesco I a trasferirsi presso la sua corte in Francia, con il titolo di «peintre du roi».

Il periodo francese1516/1519 – Parte per Amboise con Francesco Melzi e Salaì. Con sé porta tutti i suoi manoscritti, la sua biblioteca, nonché la Sant’Anna, la Gioconda, e il San Giovanni Battista (Parigi, Louvre), dipinto durante il soggiorno romano. Non farà mai più ritorno in Italia. Ad Amboise gli viene messo a disposizione un’ala del castello di Cloux; qui trascorre le giornate fra studi e progetti; ha intenzione inoltre di riorganizzare i suoi quaderni di appunti senza però mai riuscirci. Intanto comincia ad avere qualche problema di salute, ma continua a lavorare senza interruzione. Nel 1517 accompagna il re a Romorantin, dove sviluppa progetti per una nuova capitale del regno. Nello stesso anno riceve una visita dal cardinale Luigi d’Aragona e del suo segretario Antonio de
Beatis, che riporta l’evento nel suo diario. De Beatis riferisce delle precarie condizioni di Leonardo, ma allo stesso tempo non nasconde la sua meraviglia per l’enorme quantità di manoscritti che vede nello studio dell’artista.

1519 - Il 23 aprile, molto sofferente, si reca presso la corte reale per depositare il suo testamento. Il 2 maggio, a sessantasette anni, Leonardo muore. Viene sepolto, seguendo le sue ultime volontà, nel chiostro della chiesa di Saint-Florentin ad Amboise, andata poi distrutta. Francesco Melzi, nel ruolo di esecutore testamentario, scrive alla famiglia per dar loro la notizia. Nel testamento, oltre a dare precise istruzioni sul suo funerale, indica gli eredi dei suoi beni. Vengono citati i fedeli servitori, gli allievi a lui più vicini e pure i fratellastri che tanto l’avevano contrastato in vita. A Francesco Melzi il gravoso compito di riportare in Italia e custodire il preziosissimo patrimonio intellettuale.



 
Figura 1 – Leonardo da Vinci – Veduta della Valdarno – 1473 (Firenze, Uffizi)


LEONARDO DA VINCI E LA SCIENZA

DA ARTISTA E INVENTORE A TEORICO DELLA NATURA L’EVOLUZIONE INTELLETTUALE ATTRAVERSO L’ESPERIENZA DEI SOGGIORNI MILANESI

Leonardo visse e lavorò a Milano per gran parte della sua vita. Due i suoi soggiorni: il primo dal 1482 al 1499 al servizio di Ludovico il Moro; il secondo a partire dal 1506 fino al 1513 sotto la protezione dei Francesi. In totale quasi venticinque anni di lavoro e studio che saranno fondamentali per la sua carriera, ma soprattutto per la sua essenza di uomo in continua ricerca.


La lettera di presentazione al Duca di Milano  

«E se alcuna de le sopra dicte cose a alcuno paresse impossibile e infactibile, me òffero paratissimo a farne esperimento in el parco vostro, o in qual loco piacerà a Vostr’Excellenzia. A la quale umilmente quanto più posso me recomando»(9).
Con queste parole, Leonardo concluse la nota lettera di presentazione a Ludovico ilMoro, in occasione del suo trasferimento a Milano nell’inverno del 1492. La lettera nonè autografa, ma la sua autenticità è oggi ammessa universalmente dal mondoscientifico (10). Forse Leonardo aveva ritenuto saggio farsi aiutare nella stesura da qualcuno più avvezzo e preparato ai modi della lingua ufficiale e quindi essere il più convincente possibile, data la sua la sua ferma intenzione di proporsi al Moro come inventore di macchine belliche, ingegnere civile e architetto.
L’arte militare era questione di fondamentale importanza per un governante dell’epoca e, avere al proprio servizio i migliori ingegneri in quel campo, poteva garantire la necessaria sicurezza dei confini. L’interesse per le macchine da guerra si rintraccia già negli scritti giovanili di Leonardo e si riflette ampiamente nella lettera di presentazione.

Il documento contiene un lungo elenco di strumenti bellici e consigli per il loro utilizzo.
«Ho modi de ponti leggerissimi e forti e atti a portare facilissimamente; e con quelli seguire, e alcuna volta fuggire, li inimici» (11). E ancora «… occurrendo di bisogno, farò bombarde, mortari e passavolanti di bellissime e utile forme, fora dal comune uso».
Nella sua lettera, Leonardo scrive di macchine per l’attacco e la difesa a terra, nonché per i combattimenti sull’acqua; armi e strumenti per l’attacco a fortificazioni e per la difesa all’interno di esse.
Per i periodi di pace Leonardo si propone di «satisfare benissimo a paragone de omni altro in architettura, in composizione di edifici e pubblici e privati, e in conducer acqua da un loco ad un altro» (12), dichiarando quindi le sue abilità nei campi dell’architettura civile e dell’ingegneria idraulica. E infine un cenno alle sue abilità di pittore e di scultore, con la proposta di «dare opera al cavallo di bronzo» di cui aveva sentito già parlare, forse quando Ludovico il Moro era venuto a Firenze per partecipare ai funerali di Giuliano de’ Medici, fratello del Magnifico, assassinato nel 1478 da un gruppo di congiurati.
Martin Kemp parla di «ingenuo eccesso di fiducia nei propri mezzi». In uno dei suoi più noti libri dedicati all’artista (13), ci aiuta a riflettere sul testo della lettera. «Ma fino a che punto le sparava grosse per accattivarsi i favori del sovrano del più bellicoso stato dell’Italia rinascimentale?» (14). Appare del tutto improbabile – afferma Kemp – che Leonardo osasse esagerare nel presentare le sue credenziali nella città che a quel tempo era il più importante centro di fabbricazione delle armi e dove la professione del soldato era tenuta in gran conto.
La risposta va piuttosto ricercata nei suoi disegni, in particolar modo nel Codice Atlantico (Milano, Biblioteca Ambrosiana), ritenuto la più straordinaria raccolta di scritti e disegni di Leonardo, perché abbraccia totalmente la sua carriera per un arco di quarant’anni, dal 1478 fino al 1519, anno della sua morte. E’ quindi l’unico codice che testimonia in maniera completa gli interessi e l’evoluzione degli studi compiuti. Nello specifico, sono gli stupefacenti disegni giovanili (1478-1481) a mostrarci un interesse per le macchine belliche e per i dispositivi per il sollevamento dell’acqua; per le macchine utensili e in generale per la meccanica. In questo periodo i progetti ingegneristici la fanno da padrone, ma alcuni disegni – pochi per la verità, ma di fondamentale importanza – preannunciano gli studi teorici che Leonardo svilupperà negli anni a venire.
Fin da giovane inoltre, non ebbe mai problemi ad ammettere i debiti nei confronti di altri artisti o scienziati, tanto da copiare sui fogli i progetti di altri – come ad esempio quelli del Brunelleschi – quasi creando personale libro di testo, su cui sviluppare le proprie idee.



Leonardo e l'importanza dell'esperienza formativa nella bottega del Verrocchio.
Giorgio Vasari racconta che Ser Piero da Vinci, stupito dal talento di Leonardo nel disegnare e nel «fare di rilievo», chiese all’amico Andrea del Verrocchio se il figlio avrebbe potuto trarre profitto da queste abilità che «gli andavano a fantasia più d’alcun altra»(15). Quando il maestro vide i disegni che Ser Piero aveva portato con sé, fu impressionato dalle capacità del giovane e chiese al padre che venisse a bottega da lui.
Nella Firenze del Quattrocento le botteghe artigiane svolsero un ruolo fondamentale nell’ambito della produzione artistica e furono una tappa obbligata per gli artisti attivi lì durante il primo Rinascimento.
Nella città dei banchieri, dei fiorenti commerci e del mecenatismo della famiglia Medici, un nuovo stile di vita caratterizzava la società, che ricercava il lusso per affermarsi sul piano sociale.
Pittura e scultura erano le arti predilette dalle piùimportanti committenze, ma notevole impatto ebbero anche le arti applicate, dal cui campo scaturì una pregevole e articolata produzione manifatturiera (16).
La bottega aveva la struttura di un laboratorio artigiano, che poteva soddisfare la sempre più crescente richiesta pubblica e privata; era un’officina organizzata da cui uscivano senza sosta manufatti pregiati di ogni genere. Accanto alle botteghe dei pittori, c’erano quelle degli orefici, degli intagliatori e intarsiatori di legno, quelle degli artigiani della pietra e del marmo e quelle delle maioliche. La Firenze comunale e repubblicana aveva permesso, qui più che altrove, lo sviluppo di questa complessa organizzazione del lavoro, orchestrata e tutelata dalle potentissime corporazioni delle arti e dei mestieri. Le fonti della seconda metà del XV secolo, testimoniano la presenza in città di centinaia di botteghe e non era raro che un maestro fiorentino, chiamato altrove a prestare servizio, esportasse questo modello, che metteva poi radici e continuava ad esistere anche dopo la sua partenza.
L’alto livello delle botteghe fiorentine poggiava sulle solide basi di una lunga tradizione, già fiorente nel Trecento. Cennino Cennini, nel suo celebre ricettario Il libro dell’arte, presentò se stesso come «piccolo membro esercitante nell’arte dipintoria» e formato «nella detta arte XII anni da Agnolo di Taddeo da Firenze mio maestro, il quale imparò la detta arte da Taddeo suo padre; il quale suo padre fu battezzato da Giotto e fu suo discepolo anni XXIII»(17).
Stili e metodi di lavoro trovavano dunque una certa continuità in questa sorta di scuolelaboratorio,dove il maestro, depositario di tecniche tramandate, aveva il compito ditrasmetterle agli allievi. Nel Quattrocento però, i maestri, che erano spesso artistiprestigiosi, oltre ad occuparsi di insegnare la tecnica, avevano anche il compito diformare gli apprendisti sotto il profilo intellettuale e culturale. Inoltre, l’articolatarichiesta della committenza - la famiglia Medici in primis e poi le agiate famiglie di banchieri e mercanti - aveva trasformato le botteghe artigiane in piccole aziende, il cui successo, ma spesso anche la sopravvivenza, dipendevano da una gestione imprenditoriale che richiedeva una certa oculatezza.
Alla luce di tutto questo è più facile farsi un’idea di quanto importante fu per Leonardo l’esperienza pluriennale con Andrea del Verrocchio. La sua bottega, insieme a quella dei Pollaiolo, fu protagonista indiscussa sulla scena fiorentina per tutta la seconda metà del Quattrocento. Il Verrocchio era un brillante maestro che aveva iniziato il suo apprendistato come orafo; col tempo era diventato un abile artigiano, rinomato come pittore e soprattutto come scultore (18). Il suo laboratorio non produceva solo dipinti e sculture, ma anche un’ampia varietà di oggetti, come armature, cassoni in legno, modelli architettonici in scala, strumenti e scenografie per spettacoli teatrali, oltre ad ogni sorta di oggetti di lusso.
I suoi allievi lavoravano in un contesto vivace e stimolante anche dal punto di vista culturale, un luogo in cui arte, tecnologia e scienza si fondevano con le teorie artistiche e scientifiche più all’avanguardia. La bottega era infatti frequentata da filosofi e intellettuali del tempo, che qui si ritrovavano per scambiarsi opinioni e commentare gli eventi del momento, favorendo così la circolazione delle idee. Fu questo un ambiente di lavoro ideale per Leonardo, che fece il suo apprendistato con molta disciplina e continuò a frequentare la bottega in qualità di collaboratore, anche dopo la sua ammissione nella gilda dei pittori fiorentini.



I rapporti con Lorenzo il Magnifico e il neoplatonismo della corte medicea
Al tempo in cui Leonardo faceva il suo apprendistato, Firenze era governata dai Medici.
Diplomazia, ricchezza e mecenatismo avevano permesso a Cosimo il Vecchio, al figlio Piero e poi al nipote Lorenzo di essere arbitri incontrastati della politica fiorentina per quasi tutto il Quattrocento; una Signoria de facto, in quanto ufficialmente a Firenze c’era la Repubblica, ma il controllo di istituzioni e persone aveva permesso di predominare sulle famiglie rivali, garantendosi l’effettivo potere.
Il mecenatismo attraversò come un filo conduttore la carriera politica dei primi Medici (19) e non c’è dubbio che, al di là dell’amore per l’arte che li contraddistinse, fu per loro un potente strumento di dominio. Cosimo, il principale artefice del successo politico della famiglia, cambiò il volto di Firenze e dei suoi territori, grazie a numerose opere architettoniche e artistiche. Fece altrettanto il figlio Piero, nonostante regnò per un tempo più breve.
Quando Piero morì di malattia nel 1469, gli succedette il figlio Lorenzo, di soli vent’anni. Quest’ultimo è considerato dalla storia il più famoso membro della famiglia, ma anche il più enigmatico.
Indicato fin da bambino, per la sua fine intelligenza, l’erede ideale del nonno, gli era stata impartita un’educazione di stampo umanistico e classico. Una volta salito al potere, si dimostrò un politico dalle eccezionali doti diplomatiche. Protettore delle arti e degli artisti, la sua corte era celebre per lo sfarzo. Il suo essere un sovrano illuminato gli valse il titolo di Magnifico.
Il suo mecenatismo fu però di natura profondamente diversa rispetto a quello dei suoi predecessori. Lorenzo era un intellettuale; la conoscenza dei classici e della filosofia antica gli era stata trasmessa dai più valenti maestri e pensatori dell’epoca, come Marsilio Ficino, il quale, insieme al poeta Angelo Poliziano e al filosofo Pico della Mirandola, aveva fondato l’Accademia neoplatonica con sede nella villa medicea di Careggi (20).
Lorenzo fu sostenitore e protettore dell’Accademia; il neoplatonismo si proponeva non solo la riscoperta dell’opera di Platone (sebbene filtrata dagli interpreti successivi come Plotino), ma in generale quella della cultura classica, sollecitando la traduzione e lo studio dei testi antichi. A Firenze, gli ideali neoplatonici influirono profondamente sul linguaggio artistico, caratterizzato in quel periodo dal trionfo dei soggetti mitologici e delle allegorie. Nel campo della produzione artistica si guardava agli esempi dell’arte greca e romana e si rivalutavano le tecniche antiche. Non era semplice imitazione ma
ispirazione ai principi e alla morale della classicità.
La critica ha supposto che numerosi artisti attivi a Firenze subirono il fascino delle idee neoplatoniche. Tra questi, Filippino Lippi e Piero di Cosimo; anche Luca Signorelli e il Perugino non seppero sottrarsi alle suggestioni della poesia classicheggiante del circolo di Lorenzo, lui stesso autore di versi. Sandro Botticelli, secondo alcuni, ne fu l’interprete principale, colui che meglio rappresentò l’intellettualismo filosofico del Magnifico, senza mai tralasciare la celebrazione del suo potere.
Come si pose Leonardo nei confronti della dottrina neoplatonica? Urge innanzitutto sottolineare che in campo artistico la tradizione del naturalismo fiorentino continuava nell’ambito di botteghe come quella del Verrocchio, dove erano ancora validi i principi di quel metodo scientifico propugnato da Leon Battista Alberti qualche decennio prima.
Da profondo assertore degli ideali umanistici, l’Alberti confidava nell’uomo e nella sua razionalità. In campo artistico aveva teorizzato nei suoi trattati le idee rivoluzionarie della sua generazione (21), quelle cioè di Brunelleschi, Masaccio e Donatello, da cui era scaturito un naturalismo basato sull’indagine razionale della natura con l’ausilio della prospettiva e delle leggi matematiche.
Leonardo aveva fatto suoi tali principi e nella bottega di Andrea del Verrocchio aveva avuto la possibilità di metterli in pratica. Le basi delle sue ricerche scientifiche poggiavano sulla fede incontrastata per la sperimentazione e l’osservazione diretta della realtà che lo circondava, il tutto filtrato poi dalla ragione, capace di sostenere ed elaborare ciò che i sensi avevano catturato.
Nel seguente passo contenuto nel Codice Atlantico (22), databile intorno al 1489-90, Leonardo polemizza contro coloro che – abitudine consueta a quei tempi – sostenevano le loro teorie basandosi solo su opinioni di maestri o filosofi del passato. «Molti mi crederanno ragionevolmente potere riprendere, allegando le mie prove esser contro all’alturità(23)d’alquanti omini di grande reverenza apresso de’ loro inesperti iudizi, non considerando le mie cose essere nate sotto la semplice e mera sperienzia, la quale è maestra vera». Questa polemica contro il principio di autorità ritorna spesso nei suoi appunti in cui accusa i dotti del suo tempo di essere semplicemente «recitatori e trombetti delle altrui opere»; e ammonisce il lettore al quale dice «La sapienza è figliola della sperienza. Fuggi i precetti di quelli speculatori, che le loro ragioni non sono confermate dalla isperienza»(24).
E’ perciò del tutto evidente che le speculazioni filosofiche degli accademici riuniti attorno a Lorenzo non lo potevano interessare, anche se ciò non significa che non nutrisse rispetto per i classici; aveva solamente un modo decisamente più terreno e distaccato di accostarsi alla lezione degli antichi.


Leonardo lascia Firenze per Milano
Quali altre ragioni spinsero Leonardo a trasferirsi a Milano? Non è logico pensare che alla base della sua decisione ci sia stata solo l’avversione agli ambienti filosofeggianti della Firenze medicea. Con tutta probabilità entrarono in gioco esigenze di carattere
materiale.Fu lo stesso Lorenzo a dar l’incarico di ambasciatore a Leonardo. In generale il Magnifico era più interessato al prestigio culturale che poteva godere al di fuori dei confini di Firenze, esportando i suoi artisti, piuttosto che dar loro possibilità di lavorare presso la sua corte. Rispetto al padre e al nonno, visse l’arte in una dimensione più privata. Era un estimatore e un collezionista di opere d’arte, piuttosto che un promotore di grandi opere architettoniche come i suoi predecessori. Questo suo modo di agire ebbe col tempo conseguenze deleterie per Firenze; la diaspora degli artisti fu la causa di un certo impoverimento culturale della città e contribuì alla dispersione di quelle forze che costituivano la struttura portante delle botteghe (25).
Firenze,inoltre, sulla carta rimaneva una repubblica e gli affari venivano condotti secondo l’imprinting che questa forma di governo dava (26). Gli artisti non facevano eccezione: quando ricevevano una commissione, non era raro che venisse loro fornito un anticipo che serviva ad acquistare i materiali; spesso i versamenti erano molteplici e si interrompevano se il lavoro non veniva portato a termine.
Leonardo non seppe abituarsi a questo sistema di lavoro. Dal momento in cui il suo nome fu iscritto nei registri della Compagnia di San Luca (1472) fino alla partenza per Milano, la sua attività a Firenze non diede risultati consistenti. Nel 1478 gli fu commissionata una pala per la cappella di San Bernardo a Palazzo Vecchio, probabilmente su richiesta di Lorenzo. E nel 1481 ricevette la commissione per l’Adorazione dei Magi dai monaci del convento di San Domenico a Scopeto. E’ noto che per quest’ultimo lavoro, Leonardo si limitò al cartone preparatorio, mentre per quanto riguarda la pala di Palazzo Vecchio, dopo qualche anno di inutile attesa il Magnifico passò la commissione al Ghirlandaio.
Se si ripercorre l’intera carriera d’artista, non sono rari gli episodi in cui i committenti chiesero a Leonardo spiegazioni per i suoi ritardi. Anche Ludovico il Moro dovrà fare i conti con la sua lentezza e le sue “distrazioni” in occasione dei lavori per il Cenacolo. E così anche il gonfaloniere Pier Soderini fu costretto a lamentarsi qualche anno più tardi, quando Leonardo partì una volta ancora per Milano, posando in tutta fretta i pennelli e lasciando incompiuta la Battaglia di Anghiari.
La continua tensione intellettuale unita ad una curiosità impossibile da arginare, spinsero Leonardo a ricercare un situazione professionale che gli permettesse di dedicarsi con maggior libertà agli studi che intendeva compiere. La ricca e potente corte sforzesca sembrava poter soddisfare tali aspirazioni.


Milano e gli Sforza
Leonardo giunse a Milano nel 1482 in compagnia di Atalante Migliorotti, musico, e di Zoroastro da Peretola, meccanico (27). Migliorotti era anche attore e cantore; nel 1490 Francesco Gonzaga lo chiamò a Mantova per sostenere il ruolo principale nell’Orfeo del Poliziano.
Peretola, il cui nome vero era Tommaso Masini, si dichiarava anche mago, mosaicista e pittore. Rimase con Leonardo fino a quando morì a Roma nel 1515.
Leonardo e Migliorotti furono ricevuti da Ludovico al castello di Porta Giovia quali ambasciatori di Lorenzo. I cronisti coevi, come l’Anonimo Gaddiano, riferiscono che in dono portarono uno strumento musicale ideato da Leonardo stesso. Si trattava di una lira d’argento a forma di teschio di cavallo, che egli suonò così bene tanto da superare, riferisce Vasari, «tutti i musici, che quivi erano concorsi a suonare»(28). E’ comunque probabile che Lorenzo lo avesse inviato a Milano, soprattutto per soddisfare una richiesta del Moro che da tempo era alla ricerca di un’artista che potesse realizzare il monumento equestre a Francesco Sforza.
La corte di Ludovico era una delle più ricche e sfarzose d’Europa. La sua idea di farne l’Atene d’Italia scaturiva da una tradizione culturale che durava oramai da più di un secolo (29). Già a metà del Trecento la corte viscontea era un importante centro di civiltà umanistica; Milano potè contare sulla presenza di una figura d’eccellenza come Francesco Petrarca che lì soggiornò dal 1353 al 1361. Raffinatezza e culto per l’antico permearono un crescendo di attività artistiche e letterarie che raggiunsero il loro apice proprio durante il governo del Moro.
Lo storico milanese Bernardino Corio (30), nella sua monumentale Mediolanensis Patria Historia, celebrando i fasti della corte sforzesca, scriveva così circa la nutrita presenza di letterati, artisti e musici al servizio del duca: «…. Ludovico Sforza, principe glorioso et illustrissimo, a suoi stipendii e quasi insine da le ultime parte de Europa haveva conducto homini excellentissimi. Quivi nel greco era la doctrina, quivi versi e la latina prosa risplendevano, quivi nel rimitare eran le muse, quivi nel sculpire erano i maestri, quivi nel depingere li primi da longique regione erano concorsi» (31). Corio era lo storico di corte e ciò può spiegare il tono celebrativo del passo citato, ma non v’è dubbio circa la presenza a corte e nelle università del ducato di un folto numero di personalità provenienti da ogni parte d’Italia e d’Europa.
Fin dai tempi dei Visconti, Milano era per dimensioni la terza città d’Europa, dopo Londra e Parigi (32). Contava duecentomila abitanti, una città enorme per i canoni del tardo Medioevo. Per due secoli i Visconti erano stati assoluti protagonisti delle vicende politiche della penisola e agli inizi del Quattrocento, i loro domini occupavano parte dell’Italia settentrionale e ampie zone del centro. Quando nel 1447, Filippo Maria Visconti morì senza lasciare un erede, entrò in scena la famiglia Sforza, grazie al matrimonio di Francesco Sforza con Bianca Maria Visconti, figlia di Filippo Maria.
Il duca Francesco traghettò la città nella modernità. Salito al potere, si preoccupò di rendere più agile l’amministrazione dello stato. Proseguì inoltre le opere di canalizzazione, vanto dei territori milanesi, con la realizzazione del Naviglio della Martesana che avrebbe collegato la città al fiume Adda e di conseguenza ai territori alpini. Sui resti di una rocca viscontea, fece costruire il Castello Sforzesco ed è a lui che si deve la realizzazione dell’Ospedale Maggiore, per il cui progetto si rivolse al fiorentino Filarete che introdusse in città il gusto architettonico rinascimentale. Milano divenne anche un polo economico di primo livello, grazie all’agricoltura e alla produzione di armi, lana e seta che poi venivano esportati. La città era inoltre una piazza
finanziaria strategica, tanto che i Medici vi istituirono una filiale per le loro attività bancarie. I numerosi figli di Francesco (tra cui Ludovico) ricevettero un’educazione classica grazie all’opera di valenti eruditi dell’epoca, come Francesco Filelfo, che già aveva servito i Visconti.
Gli succedette il figlio Galeazzo Maria che non fu all’altezza del padre. Nel 1476 venne ucciso in un agguato organizzato da alcuni nobili milanesi. Suo erede era il figlio Gian Galeazzo Maria che allora aveva appena nove anni. La reggenza del ducato fu affidata alla madre Bona di Savoia, che Galeazzo Maria aveva sposato in seconde nozze. Da questo momento in poi, Ludovico fu protagonista di una guerra dinastica che si risolse in pochi anni, quando riuscì nel 1480 a diventare reggente in luogo di Bona. Gian Galeazzo era di salute cagionevole e inadatto alla politica. Ludovico lavorò per estrometterlo dal potere e ci riuscì. Morì giovanissimo, nel 1494, forse avvelenato.
Ludovico governò seguendo l’illuminante esempio del padre per quanto riguardò l’amministrazione del ducato, ma nei rapporti con gli altri stati preferì agire sul piano della diplomazia; alleanze strategiche e matrimoni combinati gli assicurarono l’amicizia di altri governanti italiani (Medici, Este, Gonzaga, Stato Pontificio) ma anche il favore della Francia e l’Impero degli Asburgo. Gli equilibri che reggevano le sorti dell’Italia erano destinati però a cozzare verso la fine del secolo contro le mire delle potenze straniere che da tempo avevano rivolto il loro sguardo verso i ricchi principati della penisola. Furono proprio gli “alleati” Francesi che nel 1499 scacciarono il Moro e gli Sforza da Milano. A nulla servirono gli sforzi e le richieste di aiuto di Ludovico, che
l’anno successivo, in un tentativo di riconquista dei territori, fu fatto prigioniero e portato in Francia, dove morì nel 1508.
La storia ci ha consegnato un’immagine di Ludovico, macchiata dai fatali errori di politica estera, che aprirono per l’Italia la lunga stagione delle dominazioni straniere. Non bisogna dimenticare però la sua figura di sovrano illuminato e colto. Sotto il suo governo, Milano visse il suo periodo di massimo splendore. La città cambiò il suo volto grazie agli interventi di abbellimento di vie e quartieri (33). Tra gli edifici di utilità sociale che Ludovico fece costruire ci fu il Lazzaretto, l’ospedale per il ricovero degli appestati.
Uno degli obiettivi principali del suo governo fu la diffusione della cultura che il Moro perseguì con l’apertura di scuole. A Pavia, la seconda città più importante del ducato, l’università vantava docenti di grande fama, retribuiti in proporzione al successo dei loro insegnamenti.
L’industria dei velluti, dei broccati e della seta ebbe un notevole sviluppo per la crescente richiesta di abiti e stoffe da parte della corte e dei ceti più ricchi. Su questo fronte Milano si rese indipendente da Firenze, acquistando anzi un certo primato per quantità e qualità di produzione. L’industria delle armi, già fiorente in passato, divenne ora una vera e propria arte per l’eleganza dei modelli e la raffinatezza della loro esecuzione. L’eccellenza in questo settore venne raggiunta con la produzione di armature.
Uno stato così strutturato aveva esigenze organizzative e di logistica molto complesse, che necessitavano l’ausilio di esperti in vari settori. Dal punto di vista militare, il duca poteva contare solo su truppe di mercenari che non potevano dare le stesse garanzie di un esercito regolare; la difesa dei confini quindi era una priorità a cui si doveva costantemente guardare.
In qualche modo gli interessi di Leonardo combaciavano con tali esigenze e questo gli faceva ben sperare.


Il difficile esordio sulla scena milanese
La risposta di Ludovico alla lettera si fece attendere e per Leonardo i primi tempi a Milano furono difficili.
La tiepida accoglienza che gli era stata riservata fu imputabile principalmente alla natura pratica del Moro e all’essenza stessa dei lombardi, culturalmente diversi dai toscani (34). Popolo laborioso, i milanesi conducevano una vita frugale, in condizioni economiche più precarie. Il ducato inoltre era perennemente minacciato ai confini e perciò Ludovico aveva bisogno di persone attive che fornissero soluzioni ai problemi in tempi brevi. Le invenzioni e le proposte di Leonardo dovettero apparire sì strabilianti, ma poco adatte alle reali esigenze. Non c’era spazio per la fantasia e gli spiriti visionari in una città in cui contava di più il fare che il proporre. Del resto la corte già brulicava di architetti e ingegneri, i quali erano considerati, né più né meno, dei semplici impiegati.
Leonardo doveva dunque fare i conti con una società chiusa, dove si preferiva l’utilizzo di maestranze locali, già consapevoli delle richieste e dei ritmi di lavoro.
Anche gli artisti al servizio del duca avevano una limitata libertà d’azione. Pittori,intagliatori, scultori, miniaturisti, erano impiegati soprattutto nella decorazione del Castello e nei cantieri della Certosa a Pavia. Pare che Ludovico imponesse rigidamente le proprie direttive anche quando si trattava di talenti come Vincenzo Foppa o il Bergognone. In generale poi, le maestranze locali erano ancora saldamente legate alla tradizione gotica e le novità del Rinascimento fiorentino non avevano ancora attecchito.
Era inevitabile che questi canoni artistici si riflettessero di conseguenza nel gusto e nelle richieste dei committenti.
Tra questi, i più importanti ma allo stesso tempo i più esigenti erano chiese e conventi.
Vigevano regole precise per l’appalto dei lavori e i compensi venivano stabiliti secondo le stime di priori o abati, spesso poco avvezzi all’arte. Per cautelarsi, gli artisti si riunivano spesso in società di due o tre componenti, che si dividevano lavoro e guadagni. E’ quello che fece Leonardo che si mise in società con i fratelli De Predis, con i quali accettò nel 1483 il contratto offerto dai frati dell’Immacolata Concezione per una pala d’altare e dal quale scaturì la Vergine delle Rocce.
Nel 1484 Milano fu investita da un’epidemia di peste che durò due anni e che falcidiò più di un terzo della popolazione. Il Moro si rifugiò nel castello di Vigevano con tutta la corte per scampare al pericolo di contagio e, sebbene lontano, contribuì per alleviare i disagi, inviando regolarmente denaro agli ospedali cittadini. Leonardo ebbe modo di studiare gli effetti devastanti della malattia e ne fu impressionato. Detestava i dottori che secondo la sua opinione sapevano solo prescrivere ricette senza avere una reale conoscenza del corpo umano e della malattia. Cosciente del fatto che il principale responsabile del contagio era la mancanza di adeguate norme igieniche, mise a punto alcune soluzioni urbanistiche.
L’idea era quella di suddividere la popolazione in nuclei di trentamila abitanti ciascuno ed evitare così il sovraffollamento. Una nuova città sarebbe sorta vicino a un fiume (probabilmente stava pensando al Ticino) e prevedeva la regolare pulizia delle strade grazie all’acqua fluviale debitamente canalizzata. La parte più sorprendente (e anche più visionaria) del progetto prevedeva che ciascun nucleo abitativo fosse strutturato su due livelli: quello superiore avrebbe ospitato abitazioni e giardini e sarebbe stato destinato ai pedoni. Delle scale avrebbero collegato questo livello a quello inferiore, destinato a
magazzini e botteghe, con strade e canali per il trasporto delle merci. La vicinanza al fiume avrebbe assicurato lo smaltimento regolare dei rifiuti urbani.
Utopie a parte, Leonardo aveva compreso che la salubrità e di conseguenza la vivibilità di una città, dipendeva dal fluire continuo di tutte le sue parti, ovvero acqua, persone, cibo, materiali quasi fosse una sorta di organismo vivente. La sua idea di salute pubblica  come conseguenza di un ambiente a sua volta salubre lascia stupefatti se si pensa che l’attenzione all’ambiente è materia piuttosto recente.
Le idee proposte da Leonardo rimasero con tutta probabilità ferme sulla carta visto che Ludovico non fece mai realizzare nulla di simile. Solo qualche anno più tardi Leonardo rivelò più concretezza nella ricerca di soluzioni urbanistiche (35) non più considerando lo sviluppo della città solo dal punto di vista dell’emergenza sanitaria, ma come opportunità con implicazioni di carattere politico-sociale. Infatti, per il piano di ampliamento della città che ideò intorno al 1493 (36), Leonardo fece accurati studi per conoscere il tessuto urbano esistente e poi con molta probabilità disegnò una nuova pianta di Milano per la quale tuttavia non vi è la certezza dei documenti (37). Pochi sono i riferimenti certi a quello che doveva essere un grandioso piano di espansione
urbanistica, ma secondo alcuni studiosi (non ultimo Pedretti) doveva prevedere una nuova visione della città - non più costretta dalle mura – ma pensata in senso moderno”.
Intanto, l’indifferenza del duca nei suoi confronti lo spinse ad una profonda riflessione su se stesso e le sue conoscenze. Si rese conto che cominciava a pesargli la mancanza diun’educazione formale, che avrebbe dovuto sostenerlo nell’ambiente dotto della corte milanese. A quasi trentacinque anni, non solo conosceva a malapena il latino, ma aveva difficoltà a scrivere anche in italiano volgare.
Se in campo artistico poteva considerarsi un maestro, altrettanto non poteva dirsi in campo scientifico. Tanto forti erano le sue inclinazioni quanto deboli le basi su cui poggiavano la sua curiosità e il suo talento. Si accinse così a colmare le sue lacune con determinazione e metodo; gli studi lo occuparono intensamente per diverso tempo.
I manoscritti testimoniano ampiamente il fervore intellettuale di questi anni, desumibile anche da brevi annotazioni riportanti vocaboli, nomi di persone e promemoria. Per poter attingere alle fonti scritte, doveva in qualche modo impadronirsi prima della lingua, latino o volgare che fosse. Non dovette essere un compito facile per Leonardo, che da autodidatta cominciò gli studi partendo dalle basi, ovvero studiando la grammatica e compilando vocabolari.
Per il latino utilizzò i testi correnti, come i Rudimenta grammatices di Niccolò Perotto (38), da cui trascrisse coniugazioni di verbi, rintracciabili nel manoscritto H, e la grammatica di Elio Donato (39) che viene citata nel codice Trivulziano. In quest’ultimo codice sono presenti fogli che recano liste di vocaboli, perlopiù latinismi, con relativo significato.
Purtroppo per lui la lingua latina rimase sempre ad un livello di conoscenza trascurabile ed è presumibile che attingesse autonomamente alle fonti classiche in maniera saltuaria.
A quel tempo inoltre, le traduzioni di testi classici e medievali in volgare erano limitate a un ristretto numero di opere; l’italiano infatti era soprattutto la lingua dei poeti, ai quali Leonardo si accostò con difficoltà, data una certa tradizione poetica che richiedeva solide cognizioni filosofiche per la sua comprensione (si pensi ad esempio alla simbologia e alle implicazioni filosofiche della Divina Commedia che Leonardo comunque ebbe modo di leggere).
Nonostante le evidenti difficoltà Leonardo non si perse mai d’animo; col tempo riuscì a costituirsi una biblioteca personale che inventariava con regolarità, riportando negli appunti i titoli delle opere che possedeva. Proprio da questi elenchi è stato possibile ricostruire il percorso di studi compiuto e ad avere una conferma delle sue letture.
 

L’accettazione a corte e il compimento di una brillante carriera
Nel 1487 Milano usciva malconcia dall’incubo della peste, ma con la voglia di ricominciare. La città era un brulicare di cantieri per la costruzione e la ristrutturazione di strade, edifici e piazze. Nello stesso anno fu indetto un concorso per il progetto del tiburio del Duomo, che richiamò in città architetti di chiara fama. Leonardo volle partecipare al concorso, presentando alla Fabbrica del Duomo un modello in legno. Il suo progetto fu rigettato, ma per lui fu un’occasione per fare la conoscenza di due architetti in carriera, che – come vedremo – saranno figure fondamentali per la formazione di Leonardo: Donato Bramante e Francesco di Giorgio Martini.
Intanto alla corte di Ludovico cominciava a circolare il nome di Leonardo. Forse fu introdotto nell’ambiente dallo stesso Bramante che lavorava a Milano già da qualche anno e si era già conquistato il favore degli Sforza; o forse fu perché egli stesso si era guadagnato una certa reputazione dipingendo la Vergine delle rocce.
Il contatto con la corte sforzesca ebbe per Leonardo conseguenze importanti (40); più concretamente, gli permise di lavorare, guadagnarsi uno stipendio e mettere mano ad una serie di progetti che fino a quel momento erano rimasti sulla carta. Sono di questo periodo due opere pittoriche che gli faranno guadagnare la stima del duca: Ritratto di musico e Dama con l’ermellino, quest’ultima commissionata proprio da Ludovico per celebrare il suo amore per Cecilia Gallerani, la favorita fra le favorite. Il ritratto piacque molto, tanto che il poeta di corte Bellincioni scrisse un sonetto adulatorio per
l’occasione. Il duca mise a disposizione dell’artista uno studio alla Corte Vecchia (oggi Palazzo Reale) nei pressi del Duomo e da quel momento iniziò il lungo rapporto di collaborazione tra i due.
Alla Corte Vecchia Leonardo viveva e lavorava con i suoi collaboratori, Marco d’Oggiono e Giovanni Antonio Boltraffio, anch’essi pittori e allievi del maestro.
Leonardo non organizzò mai una bottega con allievi a pagamento a cui insegnare l’arte, ma si avvalse dell’ausilio di persone che lui stesso remunerava (41) Dalle fonti risulta chepercepisse un regolare stipendio da Ludovico per i numerosi incarichi a corte, ma spessoquesto denaro non bastava; capitava che il duca fosse in ritardo nei pagamenti, ma allo stesso tempo Leonardo manteneva uno stile di vita dispendioso, come risulta dalle sue annotazioni riguardanti le spese di casa.
Nel 1490 si aggiunse al gruppo un ragazzo di soli dieci anni, Gian Giacomo Caprotti, che Leonardo doveva aver raccolto dalla strada. Era chiamato “Salaì” che in gergo significava “diavolo” e questo per via del temperamento poco addomesticabile del ragazzo, per il quale Leonardo provava un profondo affetto. Spesso Salaì era responsabile di furti compiuti in casa o presso i conoscenti del maestro, il quale era poi costretto a intervenire per porvi rimedio. La protezione che godeva il ragazzo fu causa  di un certo malcontento e di gelosie tra i collaboratori di Leonardo, soprattutto quando, durante il secondo soggiorno milanese, tra gli allievi si aggiunse Francesco Melzi.
Nonostante le difficoltà di convivenza i due rimarranno fedelissimi al loro maestro, accompagnandolo in tutti i suoi spostamenti, compreso quello definitivo in Francia.
Nei diciotto anni del primo soggiorno milanese gli accordi con il duca gli permisero di portare avanti i suoi studi con discreta tranquillità. In cambio, il suo impegno a corte fu totale. Leonardo non si sottrasse mai a nessun tipo di incarico; le grandi commissioni (Cenacolo, monumento equestre a Francesco Sforza), si alternarono con ogni sorta di compito, come l’approntare scene e costumi per le feste di corte; decorare le sale del castello come richiestogli in occasione del matrimonio del duca con Isabella d’Este, nonché svolgere incarichi come ingegnere idraulico, architetto e urbanista.
Con il suo ingresso a corte, la conseguenza più importante per Leonardo fu di natura intellettuale perché venne a contatto con un folto gruppo di dotti in tutte le discipline.
Da quel momento ebbe la possibilità di attingere alle risorse culturali del ducato, sia a Milano, sia a Pavia dove Leonardo soggiornò con Francesco di Giorgio nel 1490.
Il duca ospitava tante celebrità di svariate discipline. Per esempio, nella corte milanese,lavorava con regolarità Franchino Gaffurio, musicista di talento e importante teorico della sua generazione. Nominato da Ludovico magister della Cappella musicale del Duomo, fu tra i più importanti insegnanti ed esecutori di musica polifonica della seconda metà del secolo. Gaffurio, insieme a tante altre personalità come il filologo Giorgio Merula, il medico scienziato Giovanni Marliani, il giureconsulto e matematico Fazio Cardano, rappresentavano in pieno la figura dell’umanista rinascimentale polivalente e versatile. Queste frequentazioni costituirono per Leonardo la chiave di volta per il prodigioso sviluppo come filosofo naturale; fu a Milano, in quegli anni, che avvenne la sua trasformazione da artista a ingegnere praticante, da semplice inventore di macchine (se ci permettiamo di definire semplici le sue invenzioni) a teorico in grado di spaziare in ogni campo della scienza conosciuta.
Importanti per lui furono gli incontri con Donato Bramante, Luca Pacioli e Francesco di Giorgio Martini, con i quali intrattenne fruttuose collaborazioni e rapporti di profonda amicizia.


Leonardo e Bramante
Giorgio Vasari nelle sue Vite pose cronologicamente Donato Bramante dopo Leonardo, in virtù degli importanti incarichi che ottenne presso la corte papale di Giulio II dopo la sua partenza da Milano; infatti, a partire dal 1503, il nuovo papa commissionò all’architetto una serie di importanti progetti volti al rinnovamento dei palazzi vaticani e della Basilica di San Pietro (42). Fu proprio in questo periodo che Bramante raggiunse l’apice della sua carriera; Vasari ne tesse le lodi perché fece «agli altri dopo di lui la strada sicura nella professione dell’architettura, essendo egli di animo, valore, ingegno e scienza in quella arte non solamente teorico, ma pratico et esercitato sommamente»(43).
In realtà aveva qualche anno in più di Leonardo. Era nato infatti vicino ad Urbino nel 1444, città nella quale ricevette la sua formazione artistica di pittore e architetto. Qui assimilò i principi della prospettiva di Piero della Francesca ed ebbe modo di entrare in contatto con importanti artisti che caratterizzavano a quel tempo l’area urbinate: Melozzo da Forlì, Luca Signorelli, Perugino e Francesco di Giorgio Martini. Dopo il 1470 giunse in Lombardia. A Mantova ebbe modo di studiare da vicino l’opera di LeonBattista Alberti e di Andrea Mantegna che confermarono gli orientamenti della sua ricerca. Dopo un passaggio a Bergamo, giunse a Milano dove si propose inizialmente come pittore e prospettico.
Il bagaglio culturale che portava con sé fu riversato nelle prime opere milanesi. L’eco delle suggestioni esercitate su di lui dagli ambienti della corte ducale dei Montefeltro (si pensi alla prospettiva delle tarsie lignee dello studiolo di Federico) ispirarono sicuramente le soluzioni architettoniche applicate per la ricostruzione dell’antica chiesa di Santa Maria presso San Satiro, alla cui unica navata con cupola centrale fu aggiunto un corpo longitudinale, che creava così due nuove navate e trasformava la vecchia chiesa in transetto. Nell’opera di ricostruzione dell’edificio era stata occupata tutta l’area disponibile e per ovviare all’impossibilità di costruire un coro adeguato alle nuove dimensioni della chiesa, Bramante ne realizzò uno dipinto, in cui lo spazio reale cedeva il passo ad uno spazio prospettico in stucco, fornendo così una profondità illusoria capace di bilanciare l’effetto visivo in rapporto al resto. Con questa sorprendente soluzione, Bramante si era servito della prospettiva non più per la rappresentazione di uno spazio reale, ma per crearne uno fittizio che dava l’illusione della sua esistenza.
Quando Leonardo giunse a Milano, l’architetto urbinate era quindi da tempo un artista affermato e ben introdotto negli ambienti della corte sforzesca. I due si conobbero probabilmente nel 1487, quando, secondo i documenti (44), Leonardo iniziò la sua collaborazione con la Fabbrica del Duomo, alle prese con il difficile problema del tiburio. Il loro rapporto si trasformò ben presto in una solida amicizia, che favorì un continuo scambio di sollecitazioni.
Fino ad allora, il loro percorso artistico era stato simile; dopo un’importante formazione avvenuta in terra natale, si ritrovavano insieme al servizio di una corte che, come già sottolineato, era sicuramente meno raffinata di quelle dei Medici e dei Montefeltro, ma che dava loro la possibilità di sviluppare le proprie idee in piena libertà. Inoltre, la scuola locale, seppure ancorata ai retaggi del gotico, si dimostrò sensibile e pronta ad accettare i nuovi linguaggi artistici proposti dai due artisti. La loro attività sulla scena milanese correrà su due binari paralleli per un ventennio, in direzione del superamento delle scuole regionali.
Il confronto con le personalità giunte a Milano in occasione del concorso indetto dalla Fabbrica del Duomo e gli esiti delle prime opere bramantesche portarono Leonardo ad approfondire le sue nozioni di architettura. Nel manoscritto B, ritenuto oggi il carteggio più antico, sono contenuti alcuni disegni che testimoniano i suoi studi sugli edifici a pianta centrale (importante materia di studio teorica e pratica per Bramante), mentre nel
codice Trivulziano trovano spazio alcune sue proposte per la costruzione del nuovo tiburio. Relativamente a quest’ultima questione, a cui egli si dedicò tantissimo, il manoscritto I di Madrid contiene una serie di disegni e appunti che trattano argomenti di statica costruttiva; in particolare Leonardo affrontò un problema che durante il Rinascimento affliggeva spesso i cantieri e le fabbriche, ovvero il crollo degli archi impiegati come elementi portanti dell’edificio in costruzione. Pur nell’inesattezza o nell’insufficienza di certe sue deduzioni, con questi studi Leonardo anticipò quello che per lui sarà un importantissimo campo di studi teorici, quello relativo ai concetti forza e moto.
Negli anni Novanta del secolo, mentre Bramante realizzava l’imponente tribuna di Santa Maria delle Grazie e cambiava il volto dell’architettura lombarda con i suoi interventi a Pavia e Vigevano, Leonardo si dedicava a progetti di miglioramento e abbellimento della città, nel continuo e incessante dilatarsi delle sue ricerche, che lo portavano a considerare più argomenti alla volta.
In uno studio compiuto da Pietro Marani (45), i due vengono messi in relazione, in un rapporto di reciproca influenza, anche come architetti militari. Al di là della scarsità didocumentazione, soprattutto per quanto riguarda l’effettivo apporto di Bramante in questo campo nel periodo milanese, appaiono plausibili i loro incarichi, considerato il ruolo che entrambi ricoprivano a corte come ingegneri ducali.
Dato il continuo intrecciarsi di esperienze condivise e per la scarsità di notizie, è difficile oggi stabilire con certezza un primato tra i due o definire con precisione chi e in che misura l’uno influenzò l’altro; resta il fatto che nelle successive opere di Bramante si fusero mirabilmente l’eredità urbinate e quella fiorentina, mentre Leonardo, grazie al suo metodo di indagine ad ampio spettro, fu portato a riflettere profondamente sul tema dell’architettura, riuscendo a far propria la lezione di Bramante.


Leonardo e Luca Pacioli
Nel 1496 giunse a Milano il francescano Luca Pacioli, a quel tempo uno tra i matematici più brillanti e richiesti per le sue pregevoli doti di insegnante.
Era nato a San Sepolcro intorno al 1445, dove probabilmente era stato allievo del concittadino Piero della Francesca. A tal proposito, alcune affermazioni contenute in entrambe le edizioni delle Vite (46) hanno gettato per molto tempo un’ombra sulla sua reputazione e sulla validità del suo operato. Vasari infatti lo accusò apertamente di aver sottratto alcuni libri del maestro dopo la sua morte e di essersi poi attribuito la paternità di un testo sulla geometria euclidea scritto da Piero, il De quinque corporibus regularibus, riportato in volgare da Pacioli nella sua opera più conosciuta, De divina proportione.
Se una parte della storiografia non lo assolve da questa accusa, è altresì necessario sottolineare il suo importante apporto nell’insegnamento e nella divulgazione della matematica, che lui non considerò solo come materia di mera speculazione intellettuale, ma soprattutto come valido strumento per la risoluzione di problemi pratici (47).
A Venezia, dove si trasferì giovanissimo per svolgere il compito di precettore privato,perfezionò la propria formazione frequentando le lezioni di Domenico Bragadin (48) presso la Scuola di Rialto. Intorno al 1470 si fece francescano e negli anni successivi insegnò in diverse città italiane (Perugia, Roma e Napoli) e straniere (Zara).
Di ritorno a Venezia, scrisse un’opera enciclopedica dal titolo Summa di Arithmetica, Geometria, Proportioni et Proportionalità, principalmente basata sugli studi di Fibonacci. L’opera si presenta come un compendio di scienze matematiche; oltre a nozioni di aritmetica e geometria, Pacioli trascrisse il sistema contabile della partita doppia che era già in uso presso i mercanti veneziani e che lui ebbe il merito di strutturare ed esporre in modo organico. Il trattato fu criticato dai contemporanei perché scritto in volgare; nella realtà uno dei meriti del francescano fu proprio quello di tradurre in volgare argomenti abitualmente trattati in lingua latina e quindi riservati a un pubblico ristretto (49). A Venezia, che pullulava di artigiani e mercanti,l’opera ebbe un notevole successo, tanto da essere pubblicata a stampa da Paganino Paganini (50) nel 1494.
Si trasferì poi a Milano, chiamato da Ludovico per l’insegnamento pubblico della matematica. L’incontro fra Leonardo e il francescano fu fruttuoso per entrambi; il loro rapporto professionale si trasformò ben presto in una solida amicizia, destinata a durare nel tempo.
Fino a quel momento Leonardo si era dedicato allo studio della matematica in maniera abbastanza superficiale, ma i manoscritti di quel periodo (soprattutto i manoscritti I e M) rivelano un intensificarsi di appunti relativi a problemi di aritmetica e geometria; tutto ciò non può non essere messo in relazione con l’arrivo di Pacioli a Milano, la cui presenza a corte incoraggiò Leonardo ad affrontare in maniera più approfondita – come osserva Kemp - «quell’ordine matematico che aveva costituito la base implicita di tanta della sua arte e scienza precedenti» (51). Negli studi che lo avevano impegnato fino ad
allora, aveva solo intuito quel sistema sotteso alla natura di tutte le cose, che trovava la sua espressione «nella perfezione astratta della matematica pura» (52). I fenomeni osservati e studiati in architettura, meccanica, fisica e anatomia impegnato negli anni altro non erano che manifestazioni fisiche di quell’ordine.
Pacioli introdusse Leonardo allo studio sistematico della geometria di Euclide. I manoscritti I e M contengono un centinaio di pagine che riportano agli Elementi del matematico greco; non trascrisse nulla in latino, se non qualche raro vocabolo, ed è quindi plausibile che Pacioli gli fu indispensabile anche per superare la barriera linguistica. Probabilmente il matematico gli traduceva i passi euclidei, che poi Leonardo riportava condensati in forma di appunti.
La geometria diventò per Leonardo una vera passione, che continuò a coltivare per il resto della vita. L’entusiasmo dell’appassionato lo portò in seguito a cercare di risolvere enigmi matematici diventati ormai storici, come quello della quadratura del cerchio, già affrontato nell’antichità da Archimede, proponendo soluzioni alternative, spesso clamorosamente errate o incomplete (53). Nonostante ciò, è innegabile la sua profonda comprensione della matematica come disciplina fondamentale per la formulazione di teoremi scientifici e per la valutazione critica dei risultati ottenuti dagli esperimenti.
Durante il soggiorno milanese, Luca Pacioli scrisse l’opera De divina proportione, riferita alla geometria di Euclide e della quale furono compilate tre copie manoscritte: la prima, dedicata a Ludovico il Moro (conservata a Ginevra nella Biblioteca Civica); la seconda, donata da Pacioli a Galeazzo Sanseverino (Milano, Biblioteca Ambrosiana); la terza, dedicata a Pier Soderini, poi andata perduta. L’opera venne poi stampata a Venezia nel 1509.
La divina proportione altro non era che il riferimento alla sezione aurea, una delle costanti matematiche più antiche, per la quale una quantità qualsiasi può essere divisa in due parti diseguali, così che la minore sta alla maggiore come questa sta all’intero (54). La maggior parte del testo di Pacioli fa riferimento ai cinque corpi regolari che secondo la filosofia platonica, corrispondono ai cinque elementi: tetraedro-fuoco, esaedro-terra,
ottaedro-aria, icosaedro-acqua, dodecaedro e quintessenza, l’elemento attraverso il quale il divino«comunica virtù celeste ai quattro elementi: terra, aria, acqua e fuoco»(55). Questa sezione del testo è corredata da una sequenza di sessanta immagini di solidi, che lo stesso Pacioli – nell’introduzione alla sua opera – attribuisce a «l’ineffabile sinistra mano» di Leonardo. Per ognuno dei corpi solidi e dei loro derivati, Leonardo fece una rappresentazione in forma solida a tre dimensioni (solidus), seguita da una rappresentazione trasparente in forma scheletrica (vacuus).
Le sessanta illustrazioni non presentano la stessa qualità, segno che probabilmente alcune furono eseguite da altre mani. I disegni originali sono andati persi, ma la raffinatezza del tratto di Leonardo si riconosce nell’esecuzione delle figure più complesse, alcune delle quali riscontrabili nel manoscritto M e nel Codice Atlantico, a ulteriore prova della collaborazione con Pacioli e del suo profondo interesse per lo studio dei solidi.
Alla necessità dell’esperienza, Leonardo unì dunque la necessità della matematica (56), affermando a più riprese come il metodo sperimentale dovesse essere convalidato dalla ragione con le «matematiche dimostrazioni», ovvero con quei processi astratti attraverso i quali dall’esperienza si dovevano ricavare le leggi universali.


Leonardo e Francesco di Giorgio Martini
La revisione del giudizio su Leonardo da Vinci come tecnico e inventore, si è resa necessaria dopo che negli ultimi decenni sono state compiute ricerche più approfondite sui manoscritti di tecnici ingegneri suoi contemporanei o di quelli attivi negli anni immediatamente precedenti (57); con ciò è stato possibile stabilire come tante delle sensazionali invenzioni o scoperte attribuite a Leonardo, fossero in realtà ascrivibili a periodi antecedenti alla sua epoca. Si è giunti così alla formulazione di un nuovo giudizio, che tenendo comunque in considerazione la straordinarietà del suo intelletto e dei suoi talenti, ha rivisto – temperandola - la sua figura di genio unico e insuperato.
Questa osservazione vale in particolar modo se si analizzano i rapporti e le reciproche influenze tra Leonardo e Francesco di Giorgio Martini. Se, come osservato da P.Marani (58), ancora nei primi anni del Novecento, studiosi come il Solmi dichiaravano praticamente nulla l’influenza dell’opera di Francesco di Giorgio su Leonardo, negli ultimi decenni il giudizio appare decisamente cambiato, se non ribaltato del tutto.
Ciò è avvenuto in seguito all’intensificarsi degli studi sull’architetto senese e alla pubblicazione di importanti monografie come quella di Roberto Papini nel 1946 (59) nonché alla pubblicazione dei suoi trattati di architettura ed ingegneria militare a cura di Corrado Maltese nel 1967 (60). Nello stesso anno, la clamorosa scoperta dei codici di Madrid, ha gettato nuova luce sui rapporti tra i due; nei manoscritti si è ritrovato innanzitutto l’inventario della biblioteca di Leonardo in cui figurava il testo di un Francesco da Siena, mentre in altri fogli sono presenti le trascrizioni di alcune parti del trattato martiniano di architettura e ingegneria militare.
La figura di Francesco di Giorgio Martini, nato a Siena nel 1439, si inserisce in quella lunga e prestigiosa tradizione di artisti-ingegneri che caratterizzò la storia della città fin dal 1300 (61) Personaggi come il Martini, ma ancor prima, Mariano di Jacopo (1382-   1458?) detto il Taccola, alimentarono con il loro lavoro e i loro studi le ambizioni di una piccola città che lottava costantemente con gravi problemi interni, come ad esempio la carenza di fonti idriche, ma che allo stesso tempo nutriva sogni di grandezza. Al pari di Firenze, l’eterna nemica, la città pullulava di botteghe artigianali di altissimo livello; gli artisti che la frequentavano erano in grado di dipingere e disegnare, ma anche di spaziare in ogni campo scientifico e tecnico, riuscendo altresì a recepire e a trasformare le tensioni intellettuali che provenivano dagli ambienti umanistici. Un perfetto connubio tra pratica e teoria che sfociava poi nella scrittura di trattati di architettura, meccanica e tecnica ingegneristica, destinati ad avere grande diffusione.
La vita e la carriera di Francesco di Giorgio presentano numerose analogie con quelle di Leonardo. Pittore, scultore, architetto e teorico dell’architettura, ingegnere e inventore, Francesco raccolse a Siena l’eredità del Taccola, la cui produzione letteraria fu fondamentale per la sua formazione. Come Leonardo, fece il suo apprendistato in una bottega e incominciò la sua carriera grazie alla pittura e alla scultura. Fu però con la sua attività di architetto civile militare che raggiunse la fama fuori dai confini di Siena.
A partire dal 1477, infatti, si trasferì ad Urbino al servizio del duca di Montefeltro (62) qui si dedicò principalmente ai progetti per la costruzione del Palazzo ducale, sostituendo nella direzione lavori l’architetto Luciano Laurana, che aveva lasciato l’incarico a Urbino nel 1472. Da quel momento i lavori alla fabbrica si erano infatti interrotti e furono ripresi con l’arrivo di Francesco di Giorgio.
A Urbino Francesco trovò un ambiente stimolante; in poco tempo riuscì a farsi notare e a conquistarsi la totale stima del Duca, tanto che lo nominò suo ambasciatore presso i senesi, oltre che affidargli la direzione di numerosi cantieri nei suoi territori. Fu durante questa esperienza che cominciò ad occuparsi di architettura civile e soprattutto di fortificazioni, una specializzazione che gli varrà la fama e, in seguito, importanti
incarichi in varie corti italiane, tra cui Napoli e la stessa Siena.
Leonardo e Francesco si conobbero nel 1490 a Milano, in occasione del concorso indetto per il tiburio del Duomo. Subito dopo partirono insieme per Pavia, dove fecero dei sopralluoghi nel cantiere della nuova Cattedrale.
Sulle reciproche influenze derivanti da questo incontro il dibattito tra gli studiosi è più che mai aperto. Sicuramente Leonardo conosceva l’opera di Francesco (che aveva qualche anno più di lui) e probabilmente aveva letto la prima versione del suo Trattato di architettura e ingegneria militare, scritto durante il soggiorno a Urbino. Dal canto suo, Francesco ebbe modo di osservare la metodologia di studio di Leonardo, che – secondo Marani (63) - stimolò Francesco sui piani teorico e pratico«In termini di rinnovata rappresentazione grafica, sia architettonica che della figura umana, quale dell’attività architettonica quale attività umanistica e liberale; caratteri che appunto rintracciamo nella seconda versione del Trattato del Martini databile 1496-1500»(64). Fu proprio dalla seconda versione del Trattato che Leonardo trasse gli stimoli maggiori, tanto da ricopiare interi passi nei suoi appunti, oggi rintracciabili nei manoscritti madrileni. Interessanti sono le note relative all’adeguamento delle forme architettoniche alle accidentalità del terreno. Leonardo negli anni precedenti aveva avuto modo di studiare e progettare in territori senza particolari problemi di pendenza, come quelli delle pianure lombarde. Gli incarichi ricevuti ai primi del Cinquecento dal duca di Urbino, dovettero in qualche modo metterlo di fronte alle sfide che ponevano i terreni più accidentati dell’Italia centrale. E proprio dall’opera architettonica di Francesco dovette trarre i più importanti spunti.



LEONARDO E L'ACQUA

DALLA PRATICA ALLA FORMULAZIONE TEORICA

 

La natura come essere vivente alla base del metodo scientifico
Stabilire quali furono i campi della scienza indagati da Leonardo, quali le materie su cuilui più si concentrò, per poi operare qualsiasi sorta di classificazione, è per gli studiosi un compito sempre arduo e un’operazione che può apparire ogni volta del tutto artificiosa. In un saggio dedicato agli studi idraulici dello scienziato, Gombrich intuì con chiarezza e razionalità la questione; «Non è mio desiderio soffermarmi sul luogo comune dell’universalità leonardesca. Il problema è piuttosto l’unità del suo pensiero»(65).
Il metodo scientifico di Leonardo si basava sul concetto di natura come essere vivente, ovvero un macrocosmo in continua evoluzione, regolato da schemi e processi tra loro collegati. Il suo approccio sistemico alla natura prevedeva la comprensione di un fenomeno mettendolo in relazione con un altro attraverso le affinità e le connessioni fra di essi (66).
Questo concetto lo portò ad un modo di procedere apparentemente disordinato; per molto tempo, prima che si giungesse ad una conoscenza più approfondita del pensiero di Leonardo, chiunque si cimentasse nello studio dei suoi manoscritti aveva l’impressione di trovarsi di fronte ad una massa disomogenea di parole e disegni, senza un ordine logico, con pagine dove improvvisamente s’interrompeva un argomento e ne iniziava un secondo di altra natura. Lui stesso cercò più volte di mettere ordine tra le sue carte e diverse note in molti dei codici ce lo testimoniano.
La sua concezione della natura si rifletté completamente nella sua arte; egli considerava la pittura una scienza, anzi la scienza per eccellenza per giungere più compiutamente alla conoscenza dei fenomeni naturali e dei meccanismi ad essi sottesi. Il suo era un approccio visuale e basato sull’osservazione diretta; di conseguenza il suo punto di partenza era l’occhio umano (67). I suoi studi sull’anatomia dell’occhio e l’origine della
visione non ebbero eguali al suo tempo, e produssero quelle straordinarie illustrazioni, rintracciabili nei disegni di Windsor, dell’apparato visivo e del cranio. Dagli studi dell’anatomia dell’occhio passò poi a interrogarsi sulle leggi ottiche e sul rapporto tra luce ed ombra, studi che convogliarono poi nelle sue ricerche sulla prospettiva. Ecco dunque che l’arte diventa una scienza in grado di penetrare e conoscere la realtà; una conoscenza che non era data semplicemente dall’imitazione, ma che trovava la sua ragione essenziale nell’interpretazione e nella rielaborazione mentale dei fenomeni osservati, per trarne quella legge generale che li organizza (68). Da ciò derivò la sua mirabile sintesi tra arte e scienza.
Macrocosmo e microcosmo (69), natura e uomo. Questi i due elementi che per analogia furono l’oggetto di studio per Leonardo, ovvero la scienza delle forme viventi (70). E siccome ogni organismo vivente non può essere considerato – nella sua struttura - «una configurazione statica di componenti riunite a formare un tutt’uno» (71), ecco che per lui diventò fondamentale considerarlo nella sua natura dinamica e nel suo incessante trasformarsi, sotto l’azione universale delle leggi di causa ed effetto. Di qui gli studi sistematici sul moto, la forza e il peso, che andranno ad intrecciarsi in maniera particolare a quelli sulle acque.
 

Gli studi idraulici nei manoscritti leonardeschi
«Che cosa è acqua. […]. Questa non ha mai requie insino che si congiunge al suo marittimo elemento,[…]. Questa è l’aumento e omore di tutti i vitali corpi; nessuna cosa sanza lei ritiene di sé la prima forma; […] volentieri si leva per lo caldo in sottile vapore per l’aria; il freddo la congela, stabilità la corrompe […] piglia ogni odore, colore e sapore e da sé non ha niente. […] Al suo furore non valealcuno umano riparo; e se vale, non fia permanente» (72).
Questo brano di grande potenza letteraria, contenuto nel foglio 23v. del manoscritto C riassume in sé gran parte del pensiero leonardesco sul primo – per lui in ordine di importanza – dei quattro elementi della filosofia classica. Gli appunti e i disegni relativi all’acqua occupano centinaia di pagine dei suoi quaderni; sono il tema portante nel codice Hammer e nei manoscritti F e H; studi teorici dei moti, dei flussi e della sua infinità versatilità sono presenti in numerosi fogli del Codice Atlantico e nelle illustrazioni della Royal Collection di Windsor, ma se ne trova traccia anche nei codici madrileni e nei manoscritti di Parigi. Dell’acqua si occupò inoltre durante tutta la sua carriera di ingegnere, in particolare in Lombardia, dove era una vocazione da secoli. Qui ebbe l’opportunità di occuparsi dei problemi relativi alla rete di navigli e canali più avanzata d’Europa.
La sua intenzione – più volte rammentata nei manoscritti - di radunare gli appunti relativi ai suoi studi idraulici in un unico trattato non ebbe seguito nella realtà, ma nel corso del Seicento tutto il materiale fu trascritto da Luigi Maria Arconati nella raccolta Del moto e misura dell’acqua, compilata in nove libri, ma pubblicata solo nel 1828 a Bologna a spese di Francesco Cardinali.


Acqua vettore e matrice di vita
Perché Leonardo era così affascinato dall’acqua? I motivi sono principalmente di ordine scientifico e pratico, ma non può sfuggire innanzitutto il suo significato simbolico, che permeò in egual maniera la sua scienza e la sua arte (73).
Come scienziato con l’assoluta dedizione per lo studio di ogni forma organica, era consapevole del ruolo essenziale dell’acqua nel ciclo vitale, «il vetturale della natura» come la definì in uno dei taccuini del manoscritto K. E questa caratteristica di elemento vivificatore si manifesta con tutta la sua forza simbolica anche in quel celebre passo del manoscritto A (f. 55v.), in cui Leonardo applica l’analogia tra l’uomo e il pianeta, mettendo in relazione i vasi sanguigni del corpo umano e le «vene d’acqua» della Terra.
E ancora, nel passo sopracitato del manoscritto C il termine omore, cioè umore, è utilizzato nel suo significato medievale di fluido nutritivo (74).
Nei suoi dipinti i corsi d’acqua sono una presenza costante, sempre in virtù di quell’azione vivificatrice dell’elemento fluido che si fonde in maniera sublime con gli altri elementi naturali del paesaggio. Un’analisi compiuta della simbologia dell’acqua e del naturalismo leonardesco in campo artistico richiederebbe sicuramente maggior spazio di quello che è possibile dedicare in questa sede, dove si è deciso di privilegiare la figura di Leonardo come tecnico e come uomo di scienza. Occorre però sottolineare che le numerose annotazioni sull’acqua, che compaiono fin dai primi manoscritti, andranno sempre di pari passo con le osservazioni destinate al progettato libro sulla pittura (75), inequivocabile segno di come questi due temi si sviluppassero in lui in un rapporto di stretta e mutua relazione.
Nella sua pittura – afferma Marani – l’acqua è un tema «ossessivo e dominante»(76) fin dal primo disegno, Veduta della Valdarno, datato 1473; dalla Vergine delle Rocce (1483) dove l’azione modellante delle acque è occasione per un approfondimento della geologia, alla Gioconda (1504-15) in cui lo straordinario paesaggio è il risultato della rielaborazione mentale della Natura, suprema sintesi di tutto il pensiero leonardesco. Di volta in volta è l’elemento «caratterizzante o impregnante o, ancora, modificante, con la sua forza erosiva e incontrollabile, le montagne, il paesaggio e tutta la natura e lo spazio» (77).


Acqua come fonte economica e come fonte di energia
Durante il Rinascimento avere un incarico come ingegnere idraulico significava tanto prestigio quanto tanta responsabilità. L’acqua giocava un ruolo fondamentale negli affari pubblici ed era una fonte di potere non indifferente per un politico; era la miglior via per il trasporto delle merci e di conseguenza per il commercio; era infine un elemento essenziale per la pratica agricola.
In Lombardia l’irrigazione della terra era già praticata fin dall’antichità grazie allo sfruttamento dei grandi fiumi alpini. In epoca medievale le opere di canalizzazione delle acque erano diventate fondamentali non solo per l’agricoltura, ma anche per l’economia che aveva la sua ossatura nel sistema di navigazione interna (78). Il funzionamento del sistema economico della regione dipendeva infatti dal controllo delle acque e dalla bonifica di aree paludose; le canalizzazioni erano necessarie per contenere i danni provocati dalle periodiche esondazioni dei fiumi, per portare l’acqua in città e per la navigazione commerciale.
Quando Leonardo giunse a Milano, le principali opere di ingegneria idraulica risalivano ad almeno due secoli prima e riguardavano principalmente il collegamento tra il Ticino e la città attraverso il Naviglio Grande e il Naviglio Pavese. I primi canali milanesi videro la luce intorno al 1150; la data di inizio lavori per il Naviglio Grande è il 1177, mentre il Naviglio Pavese risale al 1359. Si data invece al periodo visconteo il collegamento fra il Naviglio Grande e la cosiddetta «fossa interna» o «cerchia dei navigli».
Queste ed altre importanti vie di comunicazione fluviale (ad esempio, il Naviglio della Martesana e il Canale Villoresi), realizzate solo qualche decennio prima che Leonardo giungesse a Milano, dovettero impressionarlo e certamente stimolarono la sua fantasia di ingegnere e la sua curiosità scientifica per la natura, l’acqua e le leggi meccaniche che ne regolano il comportamento. Cosicché a partire dal 1482, nei suoi manoscritti i progetti di opere idrauliche forniranno lo spunto per le sue ricerche teoriche di idrostatica e idrodinamica, sviluppate sempre più insistentemente negli anni successivi, soprattutto durante il secondo soggiorno milanese.
Dopo aver lasciato il ducato nel 1499 ed essere stato al servizio di Cesare Borgia come architetto e ingegnere generale (79). Leonardo tornò a Firenze nel 1503 per servire la Repubblica. E’ plausibile pensare che gli studi sui canali lombardi compiuti per quasi un ventennio, gli abbiano ispirato l’idea di una canalizzazione dell’Arno, proposta ai fiorentini nel 1503 (80). Il progetto fu pensato per aggirare la parte non navigabile tra Firenze ed Empoli e prevedeva la costruzione di un canale che da Firenze proseguisse poi per Prato e Pistoia, evitando il tortuoso corso fluviale nella zona di Empoli. Il percorso studiato da Leonardo non era così diretto come in linea d’aria, ma evitava scavi profondi e gallerie.
L’opera presentava – come è facile immaginare – una certa difficoltà, ma Leonardo non aveva ideato una tale soluzione senza pensare a come sarebbe stato finanziato (81). Ben conoscendo il capitalismo agile e aggressivo dell’economia fiorentina, propose di coinvolgere la ricca e potente corporazione della Lana, che avrebbe provveduto alla sovvenzione finanziaria dietro compenso di una rendita derivante dal pagamento dei tributi e la vendita delle concessioni.
L’opera non fu mai portata a termine, ma di quel progetto ci restano oggi le sue carte topografiche. Suggestiva è la mappa del fiume presso Pisa che Leonardo disegnò – oggi contenuta nel codice Madrid II (fogli 22v – 23r), che testimonia le sue abilità anche nel campo della rappresentazione cartografica.


Dall'ingegneria idraulica allo studio scientifico dei flussi. Il contributo di Leonardo
Il sistema idraulico lombardo, che tanto affascinò Leonardo per la sua efficienza e per la sua grandiosità, poggiava su basi empiriche, era cioè il frutto di una pratica tecnica che si protraeva da secoli e che col tempo aveva raggiunto livelli di eccellenza, ma che non era comunque il risultato di una ricerca teorica (82).
Nelle ampie raccolte leonardesche di appunti e disegni dedicati all’acqua, sono presenti sia le soluzioni pratiche che derivavano dall’incarico di Maestro delle acque, sia gli studi teorici di idrostatica e di idrodinamica.
Se però, nel corso della storia, gli ingegneri idraulici avevano già realizzato opere di un certo rilievo (dagli imponenti acquedotti romani fino alle ingegnose realizzazioni del primo Quattrocento come le chiuse e le conche di navigazione) e gli studi relativi al moto di corpi rigidi erano già stati affrontati fin dall’antichità, lo stesso non si può dire per le ricerche riguardanti la dinamica dei flussi. Leonardo fu l’unico durante il Rinascimento a preoccuparsi di descrivere scientificamente il fluire dell’acqua e di analizzarne le leggi fondamentali. Studi teorici ed esperienza pratica procedettero di pari passo, stimolandosi reciprocamente, nell’affrontare i problemi relativi alle correnti, al moto ondoso di mari e fiumi, all’erosione degli argini, ai pericoli delle inondazioni e al continuo mutare della forma dell’acqua; dai qui, i suoi studi sui vortici, i gorghi e le spirali. Le sue ricerche, le sue illustrazioni e i suoi tentativi di fornire spiegazioni matematiche nel campo della fluidodinamica, sono considerati oggi a pieno titolo i suoi contributi scientifici più originali.


Esperienza e processi mentali
Non sorprende che Leonardo abbia tentato di far luce in maniera così sistematica in un ambito così complesso e fino ad allora inesplorato come quello della meccanica dei fluidi. Del resto, il suo modo di agire era guidato da quell’inesauribile curiosità che lo portava sempre a ricercare la ragione, ovvero il motivo di essere, di ogni fenomeno naturale. Fu però l’insistenza con cui affrontò lo studio dei moti dell’acqua a sorprendere i suoi contemporanei ed è così, ancora oggi, per gli studiosi della sua opera.
Nel già citato saggio «La forma del movimento nell’acqua e nell’aria»(83), Gombrich riporta una serie di termini che Leonardo elencò in un foglio contenuto nel manoscritto I, da utilizzare per descrivere il flusso dell’acqua (84); sono in tutto sessantasette termini, inclusi in una più ampia nota, che egli intitolò «Principio del libro delle acque». Si tratta evidentemente di un programma di studio e di organizzazione del lavoro che Leonardo fece per il progettato trattato sull’argomento; definizioni e termini in successione da cui egli avrebbe potuto attingere in qualsiasi momento per la compilazione.
Secondo Gombrich, è nel significato profondo di passi come questo che diventa possibile esaltare la figura di Leonardo come teorico; perché egli seppe andare oltre l’osservazione diretta e la pratica sperimentale, alla quale egli aveva attribuito fin dall’inizio il ruolo di guida nel suo cammino di scienziato. E sono state proprio le sue invettive contro quei «trombetti» che si riempivano la bocca con il sapere altrui, senza aver sottoposto le loro conoscenze al vaglio della sperienzia, che hanno indotto secoli di critica a considerare Leonardo un precursore delle teorie sull’Induttivismo, proclamate da Bacone (85) un secolo e mezzo più tardi, e a vedere in questo aspetto la sua modernità, nonché la sua peculiarità come uomo di scienze.
Un giudizio questo – continua Gombrich – diventato oramai obsoleto; innanzitutto sul piano della metodologia scientifica«là dove si va riconoscendo che la scienza non progredisce con l’osservazione, ma con la riflessione; grazie alla sperimentazione delle teorie e non già alla raccolta di osservazioni casuali» (86), ma è obsoleto anche per quanto riguarda gli studi leonardeschi, in cui si è imparato a riconoscere«l’elemento di continuità» della sua opera, ovvero quell’entusiasmante cammino verso la conoscenza che prese avvio dalle idee delle generazioni precedenti, ma che continuò in seguito con la loro revisione critica alla luce di una sistematica sperimentazione.
Se riportiamo l’attenzione su quella lista di sessantasette termini del manoscritto I e li osserviamo nel loro significato, è possibile fissarli in categorie e rintracciare in essi una classificazione degli studi compiuti da Leonardo nel campo della meccanica dei fluidi.
Per esempio, le parole «consumamento, ruinazione, impetuosità, veemenzia, corrusione d’argine» non possono che ricondurci ai suoi studi sui flussi turbolenti, sulle correnti e al continuo rimodellamento del corso dei fiumi, nonché al danneggiamento degli argini; «retrosi, urtazioni, confregazioni» ci riportano al concetto di moto in relazione all’attrito, al calore e alla gravità; o ancora «circulazione, revoluzione, ravoltamenti, raggiramento» richiamano uno dei fenomeni che più catturò l’attenzione di Leonardo, ovvero il vortice. Nei suoi quaderni si trovano numerosi disegni di mulinelli e gorghi di ogni forma e dimensione (87). Egli intravedeva in queste manifestazioni la grandezza della natura, un sistema allo stesso tempo mutevole e stabile. Nell’infinita varietà di forme che poteva assumere l’acqua in un vortice egli vedeva tale mutevolezza, ma intuiva ugualmente quella caratteristica di stabilità nel rigore delle leggi fisiche e meccaniche collegate a tali meccanismi. In definitiva, un assioma rintracciabile in tutte le forme viventi.
L’insieme di queste considerazioni non sminuisce tuttavia l’importanza che per Leonardo ebbero l’osservazione e la sperimentazione. Egli fu in grado di raggiungere una gran quantità di risultati basandosi solo sulla propria intuizione e trascorrendo molte ore immerso nella natura. Jane Roberts, nel catalogo della mostra sul Codice Hammer, svoltasi a Firenze nel 1982 (88), menziona, a testimonianza di ciò, un passo contenuto nel foglio 34v., in cui Leonardo descrive con straordinario naturalismo la forma di una goccia di rugiada, che egli aveva con tutta probabilità osservato a lungo.


I risultati di Leonardo nell'ingegneria idaulica lombarda
L’attenzione che Leonardo riservò nei suoi manoscritti alla rete idrica lombarda, ai fiumi, ai laghi e ai canali della regione ha spesso indotto il grande pubblico, ieri come oggi, a sopravvalutare il suo effettivo apporto come tecnico delle acque, tanto che gli sono stati attribuiti a più riprese, l’invenzione delle chiuse e delle conche di navigazione e il progetto per la realizzazione del Naviglio della Martesana (89). La scarsità di notizie certe riguardanti i suoi compiti di ingegnere durante il primo soggiorno milanese e la difficoltà di lettura e interpretazione dei suoi quaderni hanno alimentato l’equivoco per molto tempo.
Come è stato ampiamente descritto nelle pagine precedenti, quando Leonardo giunse a Milano nel 1482, il sistema di canalizzazione della Lombardia era già una realtà compiuta, che aveva alle sue spalle più di tre secoli di storia. Nulla potè inventare Leonardo che non fosse già stato ideato dalle maestranze altamente specializzate di un territorio storicamente piegato da una primaria necessità di contenimento e regolazione delle acque. I suoi incarichi presso la corte di Ludovico erano molteplici e la sua supervisione come ingegnere idraulico fu probabilmente condivisa con altri importanti professionisti.
Il merito di Leonardo per quanto riguarda le conche di navigazione e le relative chiuse non risiede nella loro invenzione o progettazione. Tali sistemi erano in uso fin dai tempi del duca Filippo Maria Visconti e del successore Francesco Sforza. Durante i loro governi nel territorio milanese furono costruiti ben novanta chilometri di canali, resi navigabili dalla presenza di venticinque conche (90). Da alcuni fogli del Codice Atlantico, risulta che Leonardo studiò con attenzione il loro funzionamento e apportò infine delle migliorie, progettando e introducendo un nuovo tipo di porta a doppio battente per il funzionamento delle chiuse; entrata poi in uso regolarmente, oggi è conosciuta con il nome di porta leonardesca.
Sempre durante il governo di Filippo Maria Visconti fu realizzato il Naviglio della Martesana con l’intenzione di collegare Milano ai territori lariani attraverso il fiume Adda. Il piano di scavo del naviglio fu approvato dal duca con un decreto del 3 giugno 1443, ma l’inizio lavori fu sempre rimandato; l’opera fu poi realizzata durante il governo di Francesco Sforza (1457-1463) in soli sei anni (91).
Il progetto iniziale aveva previsto un’opera che servisse sia per l’irrigazione dei campi sia per il funzionamento dei numerosi mulini, escludendo la possibilità di navigazione.
A questo pensò Ludovico il Moro, che nel 1496 diede il via ad una serie di lavori di completamento del canale per collegarlo alla cerchia interna cittadina. A questa fase risale la partecipazione di Leonardo, il quale fu incaricato di seguire le operazioni di scavo e sistemazione insieme all’ingegnere ducale Bartolomeo Della Valle.
A completamento dell’opera, furono immediatamente varate norme per regolare la navigazione, la vendita d’acqua e i commerci. Tutte le merci che entravano o uscivano dalla città erano soggette al pagamento di una tassa, il cosiddetto Dazio della Conca, i cui proventi andavano a coprire le spese di manutenzione del canale.
Un discorso a parte merita la questione della vendita dell’acqua a scopi irrigui, una pratica che costituiva da tempo un’importantissima voce d’entrata per il bilancio ducale.
I relativi canoni erano commisurati alla quantità di acqua prelevata che veniva misurata in once; numerose erano le controversie che nascevano intorno alla questione della misurazione dell’acqua e Leonardo studiò il problema a fondo. Sempre nel Codice Atlantico si è rintracciato un disegno (f. 1097r.) in cui è presente uno studio per il funzionamento dei bocchelli attraverso i quali l’acqua veniva misurata. Molti studiosi ritengono che proprio nel problema di questa pratica, risiedano gli importanti stimoli che indussero Leonardo ad affrontare lo studio del moto dei fluidi.
 

Il secondo soggiorno milanese
Tra il 1506 e il 1513 si colloca il secondo soggiorno di Leonardo a Milano. Le pressanti richieste del governatore francese Carlo d’Amboise avevano convinto i fiorentini a lasciar partire l’artista – non senza disappunto - con un permesso temporaneo. In seguito Leonardo fece ritorno a Firenze solo per brevi periodi, soprattutto per sbrigare pratiche familiari. Il Gonfaloniere Pier Soderini pretese più volte il suo rientro definitivo in Toscana, ma i Francesi, con molta diplomazia, riuscirono a riservarsi in maniera esclusiva la presenza del maestro presso la corte milanese (92).
Leonardo tornò dunque in Lombardia come acclamato artista e ingegnere. L’appoggio e la stima che godeva presso la corte francese gli garantirono privilegi e sicurezza economica. Questa nuova condizione gli permise di occuparsi liberamente dei suoi studi, senza dover render conto del suo operato.
Nel 1507 Leonardo conobbe Francesco Melzi d’Eril, che ospitò per un periodo nella sua abitazione a Milano. Il ragazzo, diciassettenne, era figlio di Gerolamo Melzi, un membro del Senato milanese che probabilmente conosceva Leonardo fin dal periodo sforzesco. Negli anni successivi, a più riprese, il maestro fu ospite della famiglia Melzi, nella loro villa di Vaprio, una località affacciata sulla sponda destra dell’Adda, ad una trentina di chilometri da Milano. I paesaggi abduani rapirono Leonardo, che rimase affascinato dalla natura rigogliosa e selvaggia. Nei lunghi periodi trascorsi a Vaprio, colse spesso l’occasione per fare escursioni e brevi viaggi risalendo il corso del fiume in direzione dei territori lariani.
Ancora oggi è possibile farsi un’idea di ciò che vide Leonardo, perché lungo questo tratto di fiume (il suo medio corso) il paesaggio è rimasto per gran parte immutato.
L’Adda, uscendo da Lecco e superati i bacini di Olginate e Garlate, raggiunge pacifico le località di Brivio e Imbersago. Inizia in questo punto il tratto fluviale più interessante dal punto di vista paesaggistico e naturalistico. A Paderno il fiume si immette in una grande forra dove affiorano le bianche rocce pleistoceniche (il ceppo) tipiche di questi luoghi, assumendo le sembianze di un tortuoso torrente di montagna. In pochi chilometri il fiume compie un salto di ventisette metri attraverso una lunga serie di rapide, circondato da pendii boscosi. Nei pressi di Porto, l’Adda riprende il suo corso pigramente fino a Trezzo, dove si trova l’incile del Naviglio della Martesana. Poco più a sud, fiume e naviglio scorrono paralleli fino a Vaprio, per proseguire poi verso la pianura.
Per Leonardo il soggiorno in questi luoghi fu stimolante e proficuo sotto ogni punto di vista. Già durante il primo soggiorno milanese, aveva avuto modo di conoscere le potenzialità economiche derivanti da un’eventuale sfruttamento dell’Adda, ma stavolta l’incontro così ravvicinato con una natura allo stesso tempo impetuosa e docile, diede il via a quel programma di studi sistematici sulle acque di cui si è parlato nelle pagine precedenti; non da ultimo, dettero origine ad una serie di vedute e paesaggi, oggi conservati alla Royal Library a Windsor, chiamata appunto Serie dell’Adda, che – come sottolinea Marani - «segna una sintesi ineguagliabile, nell’opera di Leonardo, fra precisione miniaturistica e senso organico delle forze della natura, fra capacità analitica di rappresentazione e senso dell’atmosfera e dello spazio» (93).



Figura 2 - Leonardo da Vinci - Veduta di case sopra un canale che costeggia un fiume - RL 12399 (Windsor)

A Windsor si conserva un’altra serie riferibile a questo periodo. Si tratta della cosiddetta Serie Rossa, così chiamata per il colore di fondo dei fogli, per i quali Leonardo utilizzò una matita rossa (94). La serie include alcuni studi di vegetazione fluviale e vari disegni di catene montuose, in cui sono perfettamente riconoscibili alcune vette del lecchese (come il monte Resegone) e della Valtellina.



Figura 3 - Leonardo da Vinci - Vetta alpina - RL 12411 ( Monte Resegone – Cfr. con foto sotto)



Figura 4 - Monte Resegone

Gli studi per rendere navigabile l'Adda
In Lombardia, la questione della navigabilità dell’Adda aveva fatto perdere il sonno a intere generazioni di ingegneri. Da sempre il fiume aveva attirato l’attenzione dei governanti milanesi per la possibilità – economicamente vantaggiosa – di mettere in comunicazione Milano con la città di Como e i suoi territori, crocevia strategico per i traffici con il Nord Europa. L’impossibilità di percorrere con le imbarcazioni il tratto turbolento tra Paderno e Porto aveva di fatto impedito lo sfruttamento del fiume come via di comunicazione (95).
Il Naviglio della Martesana, reso navigabile durante il governo del Moro, metteva in comunicazione Milano con Trezzo, ma arrivati lì le imbarcazioni non potevano più continuare. Infatti nei pressi di Porto le merci dovevano essere scaricate dai barconi e trasportate con carri trainati da cavalli fino a Imbersago, dove potevano riprendere la via d’acqua e accedere ai territori lariani. Una soluzione che rallentava notevolmente i tempi di trasporto e quindi economicamente svantaggiosa.
Anche Leonardo si interessò al problema e ciò è confermato da una cospicua serie di disegni, contenuti nel Codice Atlantico, riferibili al periodo del suo secondo soggiorno milanese. Come ha rilevato Marani in un saggio dedicato alle carte leonardesche che riguardano il fiume (96), per Leonardo l’Adda era una vecchia conoscenza. E’ infatti menzionato, per differenti motivi, in numerose pagine dei manoscritti, compresi quelli che risalgono ai primi anni Ottanta, quando Leonardo era appena giunto a Milano.
Due disegni del Codice Atlantico appaiono significativi per comprendere la soluzione proposta da Leonardo. Il primo (f. 911r.) è una cartina che illustra la parte dell’Adda tra Trezzo e Brivio. A circa metà tracciato, in località Tre Corni, dove il fiume scorre incassato in una gola, egli aveva previsto una diga alta circa trenta metri per sbarrare il fiume (97) e a lato un’unica grande conca con paratoia a saracinesca, utilizzando per questa un naviglio ’irrigazione già esistente. Il foglio include anche una serie di calcoli relativi a un preventivo di spesa e misurazioni per il rilevamento dell’area interessata.







Figura 5 - Codice Atlantico - f. 911r. - Il corso dell'Adda e lo sbarramento in località Tre Corni
Nel secondo foglio invece (f. 388r.-v.) sono illustrate una serie di soluzioni tecniche; innanzitutto per la costruzione della diga, nel mezzo della quale si prevedeva una paratia mobile per permettere il passaggio delle onde di piena; sempre riguardo al sistema di sbarramento, Leonardo ne illustrò le fondamenta, costruite con pali infissi nel letto del fiume. Gli altri disegni che completano il foglio sono relativi al funzionamento della conca e del naviglio che – secondo una visione un po’ utopica – doveva in quel tratto proseguire sottoterra.


Figura 6 - Codice Atlantico - f. 388v.- Studi per la conca dei Tre Corni, con la menzione del lago di
Lecco, dell’Adda e della Rocchetta.
Nessuna delle proposte di Leonardo fu mai realizzata. Per gli studiosi non è chiaro se i Francesi avessero promosso iniziative per trovare una soluzione al problema della navigabilità del fiume. Ed è per questo che gli straordinari disegni del Codice Atlantico devono essere considerati studi e non progetti.
Qualche anno più tardi, in data 7 luglio 1516, il giovane re francese Francesco I firmò un decreto per una donazione reale che prevedeva un reddito a favore della città di diecimila ducati l’anno, a condizione che la metà fossero investiti per la realizzazione di un grande naviglio che mettesse in comunicazione Milano con le zone dei laghi comaschi.
 

Decretum super flumine Abduae reddendo navigabiliè l’incipit latino di quel rapporto che il nobile Carlo Pagnani pubblicò nel 1520, come resoconto del lavoro della Commissione governativa che nei quattro anni precedenti si era occupata di studiare le possibili soluzione per la realizzazione del naviglio (98). Il documento, di notevole interesse storico, costituisce la prima fondamentale tappa del progetto per il Naviglio di Paderno, che per varie vicissitudini verrà terminato solamente nel 1777 sotto il governo di Maria Teresa d’Austria.
La storia del Naviglio di Paderno merita un approfondimento che esula dal contesto di questo lavoro, ma il fatto che Pagnani non abbia mai nominato Leonardo da Vinci nel suo rapporto ha destato non poche perplessità tra gli studiosi. Com’è possibile che la Commissione avesse trascurato gli importanti studi di Leonardo in merito al problema?
Anche se nel 1516 l’artista aveva già lasciato l’Italia per la Francia, sembra poco plausibile che Pagnani non lo conoscesse o non l’avesse mai incontrato prima. Oppure che indirettamente non avesse mai sentito parlare delle sue idee che oramai erano diffuse in città e che erano diventate un prezioso patrimonio per la cerchia dei tecnici milanesi.
Le ipotesi che si possono avanzare per spiegare il suo misterioso silenzio sono tante, ma le ragioni sono destinate a rimanere un mistero.

 
SULLE ORME DI LEONARDO
 
L'IMPRONTA DEL GENIO IN UN ITINERARIO LUNGO IL MEDIO CORSO DELL'ADDA

«E stando così fermo, sospeso il fruscio de’ piedi nel
fogliame, tutto tacendo d’intorno a lui, cominciò a
sentire un rumore, un mormorio, un mormorio
d’acqua corrente. Sta in orecchi; n’è certo; esclama:
- E’ l’Adda! - Fu il ritrovamento di un amico, d’un
fratello, d’un salvatore. »

Alessandro Manzoni - I Promessi Sposi – Cap. XVII



Il tratto del fiume Adda che conobbe Leonardo è ancora oggi una zona di grande interesse naturalistico, storico e artistico. Per la varietà di flora e fauna, e per le testimonianze lasciate dall’uomo nel corso dei secoli, è oggi un distretto bioculturale di notevole interesse, dove lo sviluppo delle attività legate al turismo e al tempo libero, va di pari passo con le politiche di sostenibilità ambientale.

Il parco Adda Nord. L'ambiente naturale e i caratteri storico-culturali
I territori fluviali del medio corso, a valle dei bacini lacustri di Como e Lecco, fanno parte oggi del Parco Adda Nord, istituito negli anni Settanta per scopi di tutela (99); appartiene al sistema dei parchi regionali lombardi dal 1983 e copre un’area di 5.650 ettari che comprende trentadue comuni delle province di Lecco, Milano e Bergamo. Il tratto fluviale che interessa il parco è di circa cinquanta chilometri, partendo da Lecco fino a Truccazzano, una località poco più a sud di Vaprio.
Dal punto di vista naturalistico e paesaggistico il parco fluviale occupa un territorio di notevole impatto visivo, formatosi nel Quaternario quando i movimenti dei ghiacciai diedero luogo ad anfiteatri morenici poi scavati dal fiume, che ha creato in alcuni punti il suggestivo paesaggio di rocce verticali.
L’Adda, uscendo dal lago di Lecco e oltrepassati i piccoli laghi di Garlate e Olginate, scorre maestoso nel suo ampio letto fino a Brivio, dove si restringe e presenta il passaggio più facile tra una sponda e l’altra; non è un caso che in lingua celtica il termine briva significasse proprio guado.



Figura 7 - L'Adda a Brivio.
Poco più a sud, a valle di Imbersago, inizia il tratto più spettacolare del fiume; a Paderno infatti, l’Adda si getta in una profonda gola, formata da banchi di un particolare conglomerato bianco (presente solo in questo tratto) detto ceppo; in pochi chilometri il fiume compie un salto complessivo di ventisette metri attraversando profonde forre con affioranti faraglioni e una lunga serie di rapide. Giunto a Porto, il fiume riprende il suo
corso tranquillo e sinuoso verso la pianura. A Trezzo, il suo letto forma un’ansa spettacolare prima che si incanali nel Naviglio della Martesana, che corre parallelo al fiume fin quasi a Milano.

Figura 8 - L'Adda tra Paderno e Porto.
Il tratto abduano tutelato dal Parco Adda Nord è ricchissimo di riferimenti storici e culturali. Fin dall’antichità l’Adda costituì un confine naturale (100); definì infatti il limite dei territori tra Cenomani e Insubri e qualche secolo più tardi divise la parte orientale del regno longobardo, l’Austria, da quello occidentale, la Neustria.
Dopo la pace di Lodi del 1454 il fiume segnò il confine tra il Ducato di Milano e la Repubblica di Venezia. La citazione manzoniana posta all’inizio di questo capitolo ricorda appunto l’episodio dei Promessi Sposi in cui Renzo, in fuga da Milano perché ricercato dalle guardie spagnole, riesce a guadare il fiume a Trezzo, mettendosi in salvo raggiungendo la sponda sinistra, al tempo territorio veneziano.
L’importanza strategica del fiume è testimoniata ancora oggi dalla presenza di alcuni dei numerosi castelli e forti eretti nei secoli a guardia dei transiti. Sorti inizialmente come presidi militari, venivano talvolta trasformati in lussuose residenze da parte di signori locali. Rilevanti dal punto di vista storico e per lo stato di conservazione, sono il Castello di Brivio, la Rocca di Trezzo e, più a sud, il Castello di Cassano.


L'Ecomuseo di Leonardo
Il tratto fluviale posto tra Brivio e Cassano, oltre ad essere sorprendente dal punto di vista ambientale, ricopre notevole importanza per il particolare paesaggio antropico; l’operosità dell’homo faber, che nel corso del tempo ha saputo trarre vantaggio dalla vicinanza del fiume, ha lasciato importanti testimonianze storico-artistiche oggi tutelate dalla recente istituzione dell’Ecomuseo di Leonardo, una realtà associativa che coinvolge il Parco Adda Nord e dieci comuni rivieraschi che si affacciano su questo tratto di Adda.


Figura 9 - Mappa dei comuni promotori dell'Ecomuseo.
L’Ecomuseo valorizza e promuove il vasto e importante patrimonio storico derivato dal ruolo cruciale che il fiume ebbe come frontiera e via di comunicazione dall’epoca romana al Rinascimento, e in seguito come motore dello sviluppo della prima industrializzazione italiana nel corso dell’Ottocento.
Il territorio ecomuseale è interamente percorribile a piedi o in bicicletta grazie alla strada alzaia che costeggia la riva destra del fiume (101). Tra i segni e le testimonianze della storia, si incontrano vestigia preistoriche (celtiche, romane e longobarde), opere idrauliche della bonifica benedettina alto medievale e del sistema di navigazione fluviale rinascimentale, castelli medievali e rinascimentali, chiese e santuari; il traghetto di Imbersago, ritratto anche da Leonardo; il ponte in ferro di Paderno, meraviglioso gioiello di archeologia industriale, residenze di campagna delle famiglie aristocratiche;
filande, filatoi e opifici cotonieri di inizio secolo; il villaggio operaio di Crespi d’Adda, sito del Patrimonio Mondiale protetto dall’Unesco; le centrali idroelettriche e le opere idrauliche di inizio secolo.



Figura 10 - Lo Stallazzo - oggi punto di informazioni dell'Ecomuseo, era un tempo stazione e ricovero per i cavalli, che risalendo l'alzaia, rimorchiavano controcorrente i barconi.

Il traghetto di Imbersago


Figura 11 - Leonardo da Vinci - Windsor Collection – RL 12400.

La veduta a volo d’uccello offertaci da Leonardo in questa straordinaria illustrazione fa parte dei disegni della Serie dell’Adda, oggi conservata a Windsor. Con precisione fotografica rappresentò una particolare imbarcazione a due scafi in procinto di attraversare il fiume. Un traghetto di questo tipo funzionava in almeno quattro località lungo il percorso dell’Adda tra Lecco e Milano, come dimostra anche un’incisione rappresentante una pianta della zona, pubblicata da Carlo Pagnani nel suo già citato rapporto (102). Il traghetto ritratto da Leonardo è probabilmente quello che univa Vaprio a
Canonica, allora visibile dalle terrazze di Villa Melzi.
Oggi, l’unico esemplare rimasto è quello che unisce Imbersago e Villa d’Adda, sulla sponda bergamasca. Il traghetto funziona manualmente. E’ infatti agganciato ad un lungo cavo, issato da riva a riva, ed è in grado di muoversi grazie alla sola forza della corrente fluviale. Per molto tempo, l’invenzione di questo tipo di imbarcazione fu attribuita a Leonardo, proprio in virtù del disegno di Windsor e di alcuni scritti che si riferiscono al suo meccanismo costruttivo.
Gli studi più recenti hanno poi stabilito che i traghetti erano stati inaugurati già sotto il governo di Ludovico il Moro per regolamentare il trasporto fluviale, andando a sostituire le barche per il trasporto merci che giornalmente attraversavano il fiume.

Figura 12 - Il traghetto di Imbersago.



Figura 13 - Il fiume ripreso dall'alzaia nei pressi di Imbersago.
Il ponte di ferro di Paderno
Lasciato Imbersago, dopo pochi chilometri si raggiunge Paderno, dove il fiume scorre incassato tra alte pareti rocciose ricoperte di boschi. Subito si rimane rapiti dalla maestosità del ponte San Michele, un’imponente struttura in ferro ad arco, gioiello di archeologia industriale e simbolo del progresso umano di fine Ottocento (103).
Il ponte fu realizzato tra il 1887 e il 1889 dalla Società Nazionale delle Officine di Savigliano, che aveva vinto il concorso per un ponte a doppio scorrimento (ferroviario e stradale) indetto dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici. Il progetto fu affidato all’ingegnere svizzero Roethlisberger, che fu in grado di realizzare un’opera di straordinaria eleganza e di grande audacia ingegneristica.
I lavori di costruzione durarono ventotto mesi ed impegnarono 470 lavoratori. Per la sua realizzazione furono utilizzati 2650 tonnellate di ferro, ghisa e acciaio, nonché altri materiali di diversa provenienza. Le due spalle in muratura furono innalzate con pietre e graniti dei territori lariani, mentre il ponte di servizio fu realizzato con abete proveniente dalla Baviera. Il ponte è lungo 266 metri e si trova a 85 metri dal livello del fiume.



Figura 14 - Il ponte San Michele.



Figura 15 - Il treno diretto a Bergamo percorre il ponte San Michele.

Il Naviglio di Paderno




Figura 16 - L'incile del Naviglio di Paderno nei pressi del Ponte San Michele.
La storia del Naviglio di Paderno copre un arco di tempo lungo cinque secoli. Dopo gli studi condotti da Leonardo da Vinci e la pubblicazione del Rapporto Pagnani di cui si è parlato nelle pagine precedenti, le vicende politiche che interessarono la Lombardia nei due secoli successivi condizionarono pesantemente la realizzazione dell’opera (104).
Dopo che i Francesi furono sostituiti dagli Spagnoli nel dominio del ducato di Milano, nel 1574 l’ingegnere Giuseppe Meda sottopose alle autorità un nuovo progetto, che prevedeva solo due conche, e un preventivo di spesa che si rivelò poi sottostimato. Nel 1591, dopo l’approvazione di Filippo II, re di Spagna, i lavori iniziarono sotto la direzione dello stesso Meda. L’opera si presentò da subito tecnicamente impegnativa e i lavori si rivelarono difficili fin da subito per una serie di problemi che riguardavano la permeabilità del suolo e la natura dei terreni. In aggiunta, una serie di piene eccezionali e alcune proteste dei lavoratori fecero naufragare il progetto. Con questo fallimento il Meda si giocò la carriera e i lavori furono interrotti.
Con la pace di Utrecht del 1713, il ducato di Milano passò sotto il dominio degli Austriaci. Dopo la metà del secolo, il governo si rese conto che una via d’acqua tra Como e Milano sarebbe stata di grande importanza commerciale e strategica per lo scambio di merci con il Nord Europa. Furono inviati sul posto ingegneri svizzeri, tedeschi e italiani per esaminare le opere eseguite due secoli prima e studiare il nuovo progetto.
Anche stavolta l’iniziativa andò incontro ad una certa opposizione; innanzitutto da parte della città di Como che temeva una contrazione dei trasporti sulle rotte finora utilizzate e che l’avevano sempre avvantaggiata; inoltre, da parte della Repubblica di Venezia si presagiva un calo nella fornitura di materie prime alla pianura lombarda.
Ci volle la determinazione di Maria Teresa d’Austria per sbloccare la situazione. Nel 1773, a Vienna, fu firmato il decreto imperiale che dette ufficialmente il via ai lavori.
Vennero realizzate sei conche di navigazione di altezza variabile tra i tre e i sei metri per un dislivello totale di 26, 40 metri (Conchetta, Conca Vecchia, Conca delle Fontane, Conca Grande o della Rocchetta, Conca di mezzo, Conca in Adda). L’11 ottobre 1777 il Naviglio fu solennemente inaugurato alla presenza dell’arciduca Ferdinando, governatore di Milano e di una gran folla di persone festanti.
Il Naviglio entrò immediatamente in funzione. Per percorrere il tratto da Lecco a Trezzo erano necessarie tredici ore e il passaggio ad ogni conca richiedeva circa mezz’ora. La navigazione veniva effettuata in salita (cioè da Trezzo a Lecco) nel pomeriggio, e in discesa al mattino. Per il trasporto delle merci venivano impiegati barconi costruiti in castagno e rovere presso i cantieri di Pescarenico e Brivio; poco dopo l’apertura del naviglio al traffico delle merci, venne istituito un servizio pubblico per il trasporto dei passeggeri tra il lago di Como e Milano, che utilizzava una flotta di nove barche.
Le fortune del Naviglio durarono per circa un secolo e mezzo. La diffusione del trasporto su ferrovia ne ridusse l’interesse e la convenienza economica. Tra il 1898 e il 1910 furono realizzate altre tre conche (Conca Nuova, Conca Edison, Conca Terminale) in occasione dell’entrata in servizio delle centrali idroelettriche Bertini ed Esterle. La navigazione proseguì fino al 1930 per poi cessare definitivamente. Fino al 1963 furono comunque effettuate le necessarie operazioni di manutenzione, che erano affidate ai proprietari delle centrali. A seguito della nazionalizzazione dell’energia elettrica, venne
a mancare qualsiasi intervento che diede inizio all’inevitabile degrado delle strutture.
Oggi, un degli scopi che l’Ecomuseo vuole perseguire è proprio quello del restauro e il recupero delle chiuse con l’intenzione di rendere di nuovo navigabile il Naviglio. Un obiettivo che ad oggi appare quasi impossibile da realizzare, visto lo stato di degrado in cui versano le chiuse e l’endemica mancanza di fondi in ambito culturale.



Figura 17 - Tratto del Naviglio di Paderno e l'alzaia ciclabile.




Figura 18 - A destra del Naviglio e dell'alzaia l'Adda scorre impetuoso formando una serie di rapide.




Figura 19 - Chiusa a doppio battente.




Figura 20 - Conca di navigazione in disuso.


La chiesa di Santa Maria della Rocchetta
A circa metà del naviglio, subito dopo aver superato lo Stallazzo (punto informazioni dell’Ecomuseo), su uno sperone di roccia che domina da una cinquantina di metri d’altezza il corso del fiume, sorge l’antica chiesetta di Santa Maria della Rocchetta. Il panorama che si gode una volta arrivati in alto, giustifica la fatica per salire la lunga scalinata di 168 gradini.
La chiesa risale al 1386 e fu voluta da Beltrando da Cornate, possidente del luogo, che la fece edificare sui resti di un’antica rocca, probabilmente di origine longobarda. Al piccolo oratorio venne annesso un eremo che ospitava alcuni frati Agostiniani del convento di San Marco di Milano.
La permanenza della comunità religiosa ebbe vita breve, perché già nel 1428 i frati dovettero ritirarsi a causa dei conflitti politici tra Milano e Venezia; la Rocchetta infatti si trovava in un punto strategico e l’eremo ben presto divenne uno strategico fortino per i soldati milanesi.
Dopo la pace di Lodi del 1454, l’Adda divenne ufficialmente il confine tra i territori di Milano e quelli veneziani. I frati poterono tornare ad abitare l’eremo, ma la presenza di soldati era continua. Per questo motivo nel 1484 il monastero fu definitivamente soppresso.
Nonostante la chiesa continuasse ad essere luogo di culto e meta di visite pastorali, nei due secoli successivi subì numerosi saccheggi e danni dovuti all’incuria. Con la secolarizzazione voluta da Napoleone nel 1797, la Rocchetta fu confiscata insieme a tutti i beni appartenenti al convento agostiniano di San Marco, che aveva sempre mantenuto il possesso della chiesa.
Verso la metà del 1800, la chiesa fu donata alla parrocchia di Porto d’Adda, dalla quale ancora oggi dipende. Nel corso del Novecento l’oratorio subì numerosi restauri, ma solo nel 1991, tornò all’antico splendore grazie all’intervento di associazioni private.
Figura 21 - La chiesa di Santa Maria della Rocchetta
Figura 22 - L'Adda visto dalla Rocchetta


Le centrali idroelettriche Bertini, Esterle, Taccani
A fine Ottocento l’Adda diventò protagonista per la produzione di energia elettrica e simbolo del progresso dell’industria italiana, grazie alla realizzazione di tre importanti centrali idroelettriche costruite lungo il fiume tra Paderno e Trezzo. Per far fronte infatti alle esigenze di un’industria in piena espansione e di un altrettanto intenso sviluppo sociale, fu necessario approntare nuovi impianti, nelle quali si sarebbero fuse le più moderne tecnologie dell’epoca.
Queste realizzazioni contribuirono a far decollare l’economia del paese, grazie anche alla nuova possibilità di trasportare l’energia elettrica a distanze sempre più lontane dal luogo di produzione. Il complesso delle centrali del medio corso dell’Adda aprì questa nuova e straordinaria fase di modernità tecnologica e costituiscono oggi un punto di interesse non solo storico, ma anche architettonico.


 La centrale Bertini di Porto d’Adda




Figura 23 – La centrale Bertini

L’inaugurazione della centrale Bertini, avvenuta il 28 settembre 1898 per opera della società Edison, è da considerare un fatto di portata storica, perché proiettò l’Italia in cima alla classifica europea per la produzione di energia idroelettrica. Progettata dall’ingegnere Paolo Milani, la centrale era dotata di macchine che all’epoca erano seconde – per potenza – solo a quelle utilizzate per le cascate del Niagara e l’energia che vi era prodotta, era trasportata con un percorso aereo di 32 chilometri fino alla centrale termoelettrica di Porta Volta a Milano.


La centrale Esterle


Poco più a valle della Bertini, sorge la centrale Esterle che fu attivata sempre da Edison nel 1914. Ad oggi è ancora la centrale più potente del sistema del medio corso dell’Adda e presenta una particolare architettura neorinascimentale in mattoni rossi, con la presenza di finestre e finestroni a sesto acuto e a tutto sesto con incorniciature in cotto; citazioni storico-stilistiche che evocano la stagione leonardesca.


Figura 24 - La facciata neorinascimentale della centrale Esterle

Figura 25 - Centrale Esterle - particolari architettonici

La centrale Taccani

La più monumentale delle centrali è sicuramente la Taccani, edificata a Trezzo tra il 1906 e il 1909 grazie all’industriale cotoniero Cristoforo Benigno Crespi su progetto tecnico dell’ingegnere Adolfo Covi e su progetto architettonico di Gaetano Moretti.
Crespi richiese esplicitamente ai suoi progettisti di rispettare il contesto storicoarchitettonico del luogo, chiedendo di porre la centrale in rapporto diretto sia con il castello visconteo che sovrasta ancora oggi dall’alto il paesaggio, sia con il tratto sinuoso del fiume che in quel punto forma una maestosa doppia ansa.


Figura 26 - La centrale Taccani si specchia nelle acque dell'Adda
Figura 27 - Centrale Taccani - le merlature richiamano l'architettura della rocca soprastante
Il villaggio operaio di Crespi
Più che per il finanziamento della centrale Taccani, Cristoforo Benigno Crespi è noto oggi per aver fondato il villaggio operaio di Crespi d’Adda, dal 1995 entrato a far parte dei beni Unesco, come monumento di archeologia industriale.
Il 24 luglio 1878 Crespi apriva un cotonificio a Capriate, sulla sponda bergamasca dell’Adda, a pochi chilometri da Trezzo. Comincia così la storia del villaggio operaio di Crespi d’Adda, che nacque dalla mente di un capitano d’industria illuminato, e che aveva l’ardire di voler realizzare la città ideale. Insieme al figlio, fece costruire, a cavallo tra Ottocento e Novecento, un villaggio ad uso degli operai e degli impiegati della fabbrica. Oltre allo stabilimento e a un castello adibito a residenza padronale estiva, il Crespi fece realizzare le abitazioni per ogni famiglia, una scuola, un ospedale e tutto ciò che poteva servire ai suoi dipendenti dentro e fuori dalla fabbrica



Figura 28 - Pianta del villaggio operaio di Crespi

Come si può vedere dalla cartina, a Crespi c’era proprio tutto. Ogni famiglia, oltre all’abitazione, possedeva un orto. C’era la chiesa, uno spaccio e persino luoghi di divertimento, come una piscina con acqua calda. La scuola era gratuita. Il Crespi forniva ai bambini tutto il necessario: libri, penne, grembiule e c’era persino la mensa.
Passeggiando tra le strade del villaggio si ha come l’impressione che tutto vada in progressione. Al centro dell’abitato c’è il cotonificio e dietro ad esso il castello, la chiesa e le scuole. C’è il lavatoio e le docce di pubbliche. Le case furono costruite seguendo una linea gerarchica immaginaria; i condomini degli operai, le case con un piccolo giardino per impiegati e quadri e infine – più fuori – le ville dei dirigenti. Anche  nel cimitero sembra che si rispetti la gerarchia. Attorno al mausoleo (eccentrico e gigantesco) di Crespi, ci sono semplici tumuli, ma anche lapidi lavorate
.

Figura 29 - Crespi d'Adda - le case della middle class si susseguono in sequenza



Figura 30 - Crespi d'Adda - l'ingresso allo stabilimento
L’esperimento paternalista dei Crespi ebbe fine il intorno agli anni Venti, con l’uscita di scena dei suoi protagonisti e i mutamenti profondi avvenuti nel XX secolo. Il cotonificio però rimase in funzione fino al 2004. Il villaggio è rimasto intatto ed è tuttora abitato.
Nel 1995 il Comitato per il Patrimonio Mondiale dell’Unesco ha accolto il villaggio nella lista dei siti protetti in quanto «esempio eccezionale del fenomeno dei villaggi operai, il più completo e meglio conservato del Sud Europa».



Verso Vaprio
Oltrepassata la centrale Taccani il percorso continua costeggiando il Naviglio della Martesana che per gran parte del suo tratto corre parallelo al fiume. Pochi chilometri più a sud c’è Vaprio, Milano e la pianura che attende il fiume; dopo 313 chilometri dalla sorgente, l’Adda, nei pressi di Lodi, si immette nel Po.


Figura 31 - Bernardo Bellotto - Vaprio d'Adda - 1744 (New York - Metropolitan Museum)


APPENDICE
 

I CODICI LEONARDESCHI (105)
Codice Atlantico– Si tratta di una raccolta miscellanea di appunti e disegni che abbracciano tutto l’arco della carriera di Leonardo, dal 1478 fino al 1519, anno della sua morte. Il suo nome deriva dal formato dei fogli che misurano cm. 65 x 44 e ricordano appunto le pagine di un atlante. Nella sua rilegatura originale risalente al Cinquecento, poteva sembrare un vero e proprio libro di appunti compilato dall’autore. In realtà fu composto dallo scultore e collezionista d’arte Pompeo Leoni, attivo alla corte di Spagna nella seconda metà del XVI secolo. Dopo aver sottratto agli ingenui eredi di Francesco Melzi un’ingente quantità di materiale, nel 1590 tornò a Madrid e cominciò un’imponente opera di ritaglio e assemblaggio delle carte, ignorando temi e cronologia per ricercare piuttosto la spettacolarità della composizione. Neanche con il restauro compiuto in tempi recenti si è voluto prediligere una catalogazione sistematica del materiale, che si compone di 1750 unità tra fogli e frammenti. Alla morte del Leoni, nel 1608, gli eredi vendettero il libro al conte Galeazzo Arconati che più tardi lo donò alla Biblioteca Ambrosiana di Milano. Nel 1795 Napoleone ordinò di trasferire il codice e altri manoscritti leonardeschi a Parigi; solo il Codice Atlantico fece ritornò in Ambrosiana dopo le decisioni prese durante il Congresso di Vienna del 1815. Qualsiasi campo della scienza indagato da Leonardo si può ritrovare negli scritti e nei disegni contenuti in questo codice, che rappresenta la summa degli studi compiuti e l’universalità del genio leonardesco. Oggi la Biblioteca Ambrosiana organizza con continuità esposizioni dei fogli, a rotazione. Le moderne tecnologie hanno inoltre consentito la digitalizzazione di tutto il materiale, visibile in gran parte sul sito web della biblioteca.
Visibile su www.ambrosiana.eu

Raccolta di Windsor– E’ la più straordinaria raccolta di disegni leonardeschi, di proprietà della casa reale inglese fin dal 1690. In origine i disegni facevano parte della collezione del Leoni, il quale, come per il Codice Atlantico, fece con i disegni un opera di assemblaggio piuttosto arbitraria, riunendoli in un libro di 234 fogli del formato di circa cm. 48 x 35. Nel 1630 il collezionista d’arte inglese Thomas Howard, conte di Arundel, acquistò dagli eredi del Leoni i disegni, i quali, qualche decennio dopo, transitarono definitivamente nelle collezioni reali inglesi, acquistati o ricevuti in dono. I circa seicento disegni che compongono la collezione furono eseguiti a matita nera o rossa ovvero a sanguigna. Verso la fine del XIX secolo si decise di smontare il libro per via dello sfregamento da contatto che i disegni avevano subito nell’arco degli ultimi tre secoli. Nel 1994 si concluse definitivamente l’opera di restauro, con la collocazione dei singoli fogli in lastre di perspex (che favoriscono la visione e la conservazione) e la loro catalogazione secondo uno schema tematico ideato da Carlo Pedretti, che ha curato anche la loro pubblicazione in facsimile. La parte più stupefacente della raccolta è
formata da circa duecento disegni di anatomia; Leonardo aveva una certa predilezione per lo studio del corpo umano, che perseguì con rigore scientifico nell’arco di tutta la sua carriera di scienziato. I disegni restano a tutt’oggi insuperati per l’altissima qualità del tratto. I rimanenti disegni della collezione riguardano: i paesaggi - circa settanta disegni - che includono gli studi sulle acque, alcune vedute del fiume Adda, studi sulla vegetazione per la Leda e le celeberrime illustrazioni del Diluvio; altri settanta disegni riguardano l’anatomia del cavallo e altri animali che dovettero servire come studi per la realizzazione dei monumenti allo Sforza e al Trivulzio, nonché per l’affresco della Battaglia di Anghiari; infine, i disegni preparatori per la Vergine delle Rocce e del Cenacolo, profili, teste umane e caricature. La collezione comprende anche circa venti carte geografiche. Tutti i disegni sono stati digitalizzati e sono disponibili per la visione sul sito della Windsor Collection.
Visibile su www.royalcollection.org.uk

Codice Arundel– Riunisce fascicoli a se stanti per un totale di 283 fogli di vario formato. Come per i disegni della collezione di Windsor, si tratta di materiale che inizialmente passò tra le mani di Sir Thomas Howard, conte di Arundel. Howard era un accanito collezionista di manoscritti leonardeschi che ricercò in tutta Europa nel corso di numerosi viaggi. Alla sua morte, avvenuta a Padova nel 1646, i suoi eredi donarono i manoscritti alla Royal Society di Londra, per finire poco meno di due secoli dopo nel patrimonio della British Library. Le materie affrontate in questa collezione sono diverse, ma è la matematica a farla da padrone. E’ contenuto in questo codice anche il celebre foglio in cui Leonardo scrive della morte del padre. Raramente registrò nei suoi appunti avvenimenti personali; sorprende qui il tono freddo in cui annota una notizia di tal genere. Altri contenuti: i progetti architettonici per la nuova residenza del re di Francia Francesco I a Romorantin, che risalgono agli ultimi tre anni della sua vita. Tra le curiosità: il disegno di ’apparecchiatura per la respirazione subacquea e gli studi per l’allestimento dell’Orfeo di Agnolo Poliziano, rappresentato a Milano tra il 1506 e il
1508.
Visibile su www.bl.uk

Manoscritti di Francia– Sono i manoscritti che nel 1795 Napoleone Bonaparte fece prelevare dalla Biblioteca Ambrosiana insieme al Codice Atlantico per essere trasferiti alla biblioteca dell’Institut de France di Parigi, dove tuttora sono conservati. Sono dodici volumi differenti tra loro per formato, contenuto e cronologia; facevano parte del lascito del conte Arconati all’Ambrosiana. Verso la fine del Settecento il fisico italiano Giovan Battista Venturi li catalogò, segnandoli con lettere dell’alfabeto da A fino a M. A metà Ottocento l’illustre storico, naturalizzato francese, Guglielmo Libri, approfittò della sua posizione di funzionario di biblioteche per asportare di nascosto numerosi fogli dai manoscritti A e B; il sistema adottato era semplice: tra le pagine dei codici lasciava un filo imbevuto di acido muriatico come se fosse un segnalibro. Al momento opportuno prelevava i fogli, che risultavano già staccati per via dell’acido. Fuggito in Inghilterra, Libri ricompose i fogli sottratti in due codici per rivenderli poi a Lord Ashburnham (oggi sono detti rispettivamente Ashburnham 2038 e 2037). Dopo una lunga trattativa, nel 1888 i due codici furono restituiti alla Francia e dal 1891 sono di nuovo conservati presso l’Institut de France.
  

· Manoscritto A – E’ un volume che inizialmente era composto da 114 fogli di cm.22 x 15, ridotti a 63 dopo il furto di Libri. Pittura e fisica sono gli argomenti trattati da Leonardo, visti sotto la lente unificante del concetto di moto che tanto influenzerà il suo modo di dipingere, ovvero di rendere le manifestazioni della natura. La datazione dei fogli si colloca tra il 1490 e il 1492.

  · Manoscritto B – Dagli originali 100 fogli di cm. 23 x 16, Guglielmo Libri – insieme a un consistente numero di pagine di appunti e disegni, sottrasse un
piccolo codice sul volo degli uccelli che era cucito all’interno di una delle copertine. E’ il manoscritto più antico perché risale al primissimo periodo del soggiorno milanese al servizio degli Sforza. Contiene infatti la famosa lettera di presentazione, oltre a una serie di disegni e descrizioni di armi; è presente anche l’argomento architettura con gli studi sugli edifici sacri a pianta centrale e il progetto della città ideale. Curiosi sono i disegni che rappresentano progetti avveniristici come quello della macchina volante e il sottomarino.


  · Manoscritto C – E’ composto da 32 carte di cm. 31,5 x 22, trafugate a Villa Melzi dal tutore di famiglia Lelio Gavardi d’Asola intorno al 1585. Qualche
anno dopo il canonico Ambrogio Mazenta, amico della famiglia Melzi, convinse Gavardi a restituire le carte, che però rimasero in custodia ad Ambrogio e al
fratello Guido. Nel 1603, quest’ultimo, cedette tutto il materiale al cardinale Federigo Borromeo che lo donò poi all’Ambrosiana. Il tema principale del
manoscritto sono gli studi di ottica in relazione alla scienza della pittura, con approfondimenti dei concetti di luce ed ombra. Il quaderno reca la data in cui presumibilmente Leonardo cominciò ad utilizzarlo, cioè il 23 aprile 1490. Una curiosità: alcune note ci rimandano agli eventi della quotidianità, come ad esempio l’elenco delle malefatte di Salaì che al tempo aveva circa dieci anni.


  · Manoscritto D – E’ un piccolo volume composto da 5 bifogli di cm. 22,5 x 16 per un totale di 20 pagine. Il suo contenuto sarebbe una versione meditata degli appunti precedenti riguardanti l’occhio e il fenomeno della visione. Qui Leonardo si confronta con i testi di autori antichi, giudicati però sotto la luce della sua sperienzia; molti disegni infatti illustrano esperimenti da lui condotti in relazione alle teorie dei classici.


  · Manoscritto E – Era inizialmente composto da 96 pagine di cm. 14,5 x 10, come i manoscritti F e G. Dopo il furto di Guglielmo Libri ne rimangono 80. Alcuni appunti riguardanti il suo trasferimento da Milano a Roma testimoniano che è uno dei codici più recenti, scritto probabilmente intorno al 1513. Fondamentali sono in questo manoscritto gli studi di fisica meccanica, con i quali – secondo gli specialisti di settore – Leonardo avrebbe dato un contributo fondamentale per la formulazione della legge della composizione di forze concorrenti. L’altro argomento trattato è il volo degli uccelli, in particolare sono presenti studi sulla funzione dell’ala in relazione alle correnti d’aria. Sono presenti alcune riflessioni sulla necessità di dare un ordine ai propri appunti. Un’intenzione che Leonardo ribadisce in molti manoscritti, ma che – sappiamo – non riuscirà a realizzare.


  · Manoscritto F – E’ un codice che si è mantenuto praticamente intatto, formato da 96 fogli di cm. 14,5 x 10,5. Le date riportate a inizio e a fine volume
(settembre e ottobre del 1508) denunciano una compilazione concentrata nel tempo. Il tema principale di questo manoscritto è l’acqua e i suoi movimenti,
corredati da disegni che illustrano vortici e onde di varie forme, nonché strumenti utili alla regolazione delle acque, come le pompe idrauliche. Sono inoltre presenti elementi di cosmologia e geometria.


  · Manoscritto G – Come i due manoscritti precedenti, questo codice è in ottavo ovvero della misura di cm. 14 x 10 circa e composto da 96 fogli. Secondo le date rintracciabili al suo interno, è stato stabilito che si tratta di scritti relativi al secondo periodo milanese e al successivo periodo romano. Nel codice sono presenti numerosi disegni che si riferiscono ai suoi studi di botanica, in relazione però alla pittura. Proprio da queste pagine, Francesco Melzi trascrisse numerose note, riportate poi nel Libro di Pittura. Alcuni disegni mostrano inoltre macchinari per la lavorazione di specchi concavi. Dalle fonti infatti risulta che durante il periodo romano, Leonardo si dedicò con assiduità agli studi per la costruzione di specchi ustori, realizzati componendo dei tasselli metallici, uniti tra loro attraverso la fusione a stagno.


  · Manoscritto H – Si tratta di un libretto tascabile (cm. 10,5 x 8) composto da 3 quaderni per un totale di 142 fogli. Sono appunti scritti tra il 1493 e il 1494 dove è di nuovo l’acqua il tema prediletto. In questo caso vengono trattati i problemi di smottamento degli argini dei fiumi, dovuti alla forza e alla violenza della corrente; un problema questo che probabilmente Leonardo potè osservare di persona durante le numerose escursioni nei territori del ducato milanese. 


  · Manoscritto I – Il manoscritto è composto da due taccuini di uguale formato (cm. 10 x 7,5) rispettivamente di 48 e 96 pagine. Gli argomenti in esso trattati rivelano le differenti attività con cui Leonardo era impegnato alla corte di Ludovico, come l’organizzazione delle feste. Nei quaderni ci sono inoltre dei riferimenti alla cosiddetta “vigna di Leonardo”, un podere che Ludovico gli aveva concesso quale compenso per i lavori svolti per il ducato.


· Manoscritto K - Fu il conte milanese Orazio Archinti a donare questo codice all’Ambrosiana nel 1674; si tratta di un volume composto da tre taccuini, rispettivamente di 48, 32 e 48 fogli di una misura media di cm. 9,6 x 6,5. Due dei tre taccuini risalgono agli anni 1503-1505 e trattano principalmente di geometria euclidea. Il terzo taccuino risale agli anni 1506-1507 e contiene studi di anatomia e architettura con riferimento al secondo soggiorno milanese, quando Leonardo era al servizio del governatore francese Charles d’Amboise.


  · Manoscritto L – E’ un libretto, in origine di 96 fogli, ora ridotti a 94 che misurano cm. 10 x 7. Gli appunti si riferiscono agli ultimi anni trascorsi alla corte sforzesca, poi dopo una pausa dovuta probabilmente alla caduta del Moro e alla partenza dalla Lombardia, riprendono a partire dal 1502 fino al 1504. Sono  contenuti appunti riguardanti il Cenacolo, ma si trovano in abbondanza studi di architettura militare e fortificazioni in Romagna e in Toscana, corrispondenti ai territori di Cesare Borgia, per il quale Leonardo lavorò come ingegnere militare e architetto.


  · Manoscritto M – E’ un volume simile al precedente per misure e numero di fogli, compilato intorno al 1498 e per i due anni successivi. Qui trovano spazio le teorie di Leonardo riguardanti la geometria – che apprendeva in quegli anni con l’aiuto di Luca Pacioli – e la fisica. Leonardo mette al vaglio dell’esperienza i suoi recenti studi degli autori classici, come Euclide e Aristotele. Tra i disegni, ci sono alcuni studi di ponti, tra cui uno che – come spiega lo stesso Leonardo – gli era stato mostrato dall’amico Bramante.

Codici Forster– Sono tre taccuini tascabili, diversi per argomenti trattati e datazione, ma raggruppati perché passarono dalla proprietà di Pompeo Leoni a quella del conte inglese Lytton che li acquistò a Vienna, per poi passare in eredità a John Forster, da cui prendono il nome. Sono denominati Forster I, II e III e sono conservati a Londra presso il Victoria and Albert Museum. Collegandosi al sito web del museo è possibile sfogliare virtualmente i codici.
  

· Forster I - E’ composto da due manoscritti (misura cm. 14,5 x 10); il primo risale al 1505 ed è strutturato a capitoli. L’argomento principe è di nuovo la geometria con parti che riguardano le figure piane, i solidi e le trasformazioni della piramide. Il secondo manoscritto risale ai primi anni trascorsi a Milano e riflette gli interessi di quel periodo ovvero l’ingegneria idraulica.
  

· Forster II – Come il precedente, questo codice è formato da due manoscritti di piccolissimo formato (cm. 9,5 x 7). Il primo, compilato perlopiù a sanguigna, viene datato al 1497 per via dei numerosi riferimenti al Cenacolo e ai lavori di Bramante presso Santa Maria delle Grazie. Il secondo risale invece al 1495 ed è un quaderno di esercizi relativo a un libro di fisica che Leonardo menziona e da lui stesso scritto. Purtroppo non è rimasta traccia di questo testo, ma dagli esercizi contenuti nel codice se ne deducono gli argomenti trattati: la gravità, la forza, il moto accidentale e la percussione, ovvero le componenti della fisica che Leonardo applicherà in molti campi delle scienze da lui indagate.
  

· Forster III – Si tratta di un libretto di 94 carte (cm. 9 x 6), compilato tra il 1493 e il 1496. E’ sostanzialmente un brogliaccio, un taccuino utilizzato per appunti veloci. Le pagine sono riempite in maniera disordinata, dove vengono affrontati gli argomenti più disparati.
 

Visibili su www.vam.ac.uk

Codice sul volo degli uccelli – Quando Guglielmo Libri lo asportò dal manoscritto B, lo smembrò per vendere 5 fogli in Inghilterra. I rimanenti 13 fogli furono acquistati nel 1867 dal collezionista romagnolo Giacomo Manzoni e venduto poi dai suoi eredi al principe russo Teodoro Sabachnikoff. Questi, dopo aver recuperato uno dei fogli mancanti, donò il manoscritto alla famiglia Savoia che lo collocò nella Biblioteca reale di Torino. I quattro fogli mancanti furono recuperati nei primi anni del Novecento.
Gli studi sul volo degli uccelli, che si ritrovano in molti manoscritti leonardeschi, sono riferiti in questo codice ai tentativi di costruire una macchina volante, una delle idee di Leonardo che ritorna nei manoscritti con una certa frequenza. Il codice, compilato intorno al 1505, testimonia un avanzamento nello studio di questo argomento. Infatti Leonardo non pensa più ad una macchina che si muove come un uccello che sbatte le ali e perciò mossa dall’energia muscolare di un uomo, ma è qui concepita come un aliante che sfrutta le correnti d’aria.

Codice Trivulziano– Il manoscritto aveva in origine 62 fogli di cm. 20,5 x 14 ed era stato marcato da Francesco Melzi con la sigla F. Prima di arrivare definitivamente tra le mani del principe Trivulzio, il codice era stato di proprietà del Leoni e poi dell’Arconati. Nel 1935 passò, insieme al fondo trivulziano, alla Biblioteca del Castello Sforzesco, dove oggi è conservato. E’ tra i manoscritti più antichi, perché risale agli anni 1487-1490, quando Leonardo decise di approfondire i suoi studi linguistici; infatti quasi tutti i fogli superstiti contengono liste di vocaboli, perlopiù latinismi, tratti da vari libri.
Oltre ai repertori lessicali, il codice contiene disegni di caricature e numerosi schizzi dedicati al problema del tiburio del Duomo.

Codici di Madrid– Si tratta di due volumi – denominati Madrid I, 8937 e Madrid II, 8936– ritrovati casualmente nel 1967 a Madrid, nella Biblioteca Nacional, dove tuttora sono conservati.
Secondo alcune fonti storiche seicentesche, il nobile madrileno Don Juan Espina aveva acquistato dagli eredi del Leoni i due libri, vincendo la concorrenza di Lord Arundel.
Alla sua morte, furono donati al re di Spagna e trovarono posto presso la biblioteca reale, dove furono catalogati per la prima volta nel 1831. Durante un successivo trasloco, si compì il fatale errore di trascrizione della segnatura, che fece perdere le tracce dei due manoscritti, fino al fortunoso ritrovamento. I fogli dei codici sono stati digitalizzati e sono visibili sul sito internet della Biblioteca.
  

· Madrid I, 8937 – Composto da 192 fogli di cm. 21 x 15, raccoglie principalmente scritti risalenti all’ultimo decennio del secolo. Nella prima parte
sono presenti progetti di meccanismi tecnologicamente avanzati e di grande raffinatezza, riferiti al settore dell’orologeria e in quello degli impianti idraulici, nonché macchine utensili di vario genere. Nella seconda invece, si trovano in prevalenza studi di meccanica teorica.
  

· Madrid II, 8936 – Questo codice, composto di due manoscritti di cm. 21 x 15, ha aperto nuovi spiragli sulla conoscenza di Leonardo per la varietà degli argomenti in esso trattati. Il primo manoscritto è di 140 fogli e risale agli anni 1503-1505; gran parte dei disegni in esso contenuti riguardano i progetti di architettura militare e civile, realizzati durante il secondo soggiorno fiorentino al servizio della Repubblica; in particolare, le opere di fortificazione per Piombino e la canalizzazione dell’Arno tra Firenze e Pisa. Vi si ritrovano inoltre, la trascrizione di parti del trattato di ingegneria militare di Francesco di Giorgio Martini, appunti relativi alla Battaglia di Anghiari, e gli studi di ottica e prospettiva che Francesco Melzi riversò ne Il libro di pittura. Separato dal primo manoscritto, ma legato ad esso in coda, c’è un quaderno databile agli anni 1491-1493 con gli studi per la fusione del monumento equestre a Francesco Sforza.
Visibili su www.bne.es

Codice Hammer– Fu lo scultore milanese Guglielmo della Porta che nel 1537 divenne il primo proprietario di questo codice, che probabilmente non faceva parte del lascito conservato da Francesco Melzi. Nel 1690 fu acquistato, con notevole esborso di denaro, dal pittore Giuseppe Ghezzi, che nel 1717 lo rivendette a Thomas Coke, futuro conte di Leicester, da cui il codice prese il nome. Questo fino al 1980, quando fu messo all’asta e acquistato dal petroliere americano Armand Hammer. Rimesso all’asta nel 1994, fu acquistato da Bill Gates, oggi è conservato a Seattle. Il codice è formato da un gruppo di
18 carte doppie (36 fogli con recto e verso che misurano cm. 29 x 22) compilati tra il 1506 e il 1510; Leonardo lavorava su un doppio foglio alla volta, riponendolo poi all’interno degli altri, forse con l’idea di poterne ottenere un libro.
Il tema portante di questo codice sono gli studi sull’acqua, che qui viene riprodotta nei celebri disegni di correnti, onde e vortici. L’acqua è protagonista anche nei fogli in cui Leonardo cercò di spiegare i grandi mutamenti del suolo terrestre, dovuti all’erosione, dando così una propria versione della storia della Terra. Al tal proposito, egli confutò la teoria secondo la quale i fossili marini da lui osservati in zone del Centro del Nord Italia, sarebbero stati trasportati durante il Diluvio. Un evento isolato, seppur così catastrofico, non avrebbe potuto produrre la serie di strati del terreno, ascrivibili ad epoche diverse, in cui i fossili erano stati ritrovati. Altre considerazioni sul loro stato di ritrovamento e sulla possibilità di trasporto in luoghi così lontani dal mare, indussero Leonardo a dare l’unica spiegazione razionale, ovvero il progressivo abbassamento del livello del mare che in età preistorica avrebbe occupato gran parte dell’Europa, anticipando così, secondo alcuni studiosi, il concetto di orogenesi. L’acqua, che con il suo incessante moto distrugge, erode e modifica, sarà – per Leonardo – la ragione del ritorno della Terra alla sua primitiva condizione liquida.
Altre pagine importanti riguardano l’astronomia, con la spiegazione del lumen cinereum, ovvero quel bagliore che contraddistingue la parte in ombra della Luna quando è nuova, causato secondo Leonardo, dal riflesso indiretto della luce lunare. Una
teoria che verrà poi confermata nel Seicento da altri scienziati, tra cui Galileo.
Visibile su www.hammercodex.com



NOTE

1 -E. H. GOMBRICH, La forma del movimento nell’acqua e nell’aria, in L’eredità di Apelle, trad. it., Torino,Einaudi, 1986, p. 51.
2 - M. DE MICHELI (a cura di), Leonardo da Vinci, l’uomo e la natura, Milano, Rizzoli, 2007, p. 5.
3 - C. PEDRETTI,M. CIANCHI, Leonardo. I codici, Firenze, Giunti, Art e Dossier, 1995, p. 4.
4 - A.M. BRIZIO (a cura di), Scritti scelti di Leonardo da Vinci, Torino. UTET, 1966, p. 8.
5 - A.MARINONI, Gli scritti di Leonardo, in C. Zammattio, A. Marinoni, A.M. Brizio, Leonardo scienziato, Firenze, Giunti Barbera, 1981, p. 72.
6 - Per l’elenco dei codici leonardeschi e i loro contenuti si veda l’Appendice.
7 - M. DE MICHELI, Leonardo da Vinci, l’uomo e la natura, op. cit., pagg. 49, 50.
8 - Questa nota biografica si basa principalmente, per la parte storica sul testo di S. ALBERTI DE MAZZERI, Leonardo, l’uomo e il suo tempo, Milano, Rusconi, 1983; per la parte riguardante la critica d’arte sono stati consultati i volumi: A. CHASTEL, Leonardo da Vinci, trad. it., Torino, Einaudi, 1995; C. PEDRETTI, Leonardo, la pittura, Firenze, Giunti, Art Dossier, 2005.
9 - Questo passo di Leonardo è tratto da A. M. BRIZIO (a cura di), Scritti scelti di Leonardo da Vinci, op. cit., p. 633.
10 - Ivi, p. 631
11- Ibid.
12 - Ivi, pag. 632.
13 - M. KEMP, Leonardo da Vinci – Le mirabili operazioni della natura e dell’uomo, trad. it., Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1982, pp. 65-76.
14 - Ibid.
15 - G. VASARI, Le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue, insino a’ tempi nostri, nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze 1550, II, Torino, Einaudi, 1986, p. 546.
16 - M. KEMP, Le mirabili operazioni, cit., pp. 30-32.
17 - C. CENNINI, Il libro dell’Arte, edizione commentata e annotata da Franco Brunello, Vicenza, Neri Pozza, 1982, p. 4.
18 - Uno studio esauriente su Andrea del Verrocchio, si trova in D. A. COVI, Andrea del Verrocchio, life and work, Firenze, Olschki, 2005.
19 - Per un’analisi più approfondita sul mecenatismo mediceo e sulla sua funzione, si rimanda alla lettura del saggio di E. H. GOMBRICH, Il mecenatismo dei primi Medici, in Norma e forma, studi sull’arte del Rinascimento, trad. it., Milano, Electa Leonardo Arte, pp. 46-67.
20 - A Careggi, una località nelle vicinanze di Firenze, aveva sede una delle più antiche ville dei Medici. Fu una delle dimore preferite dal Magnifico. Per un esauriente panorama sulle ville medicee, si veda L. ALIDORI BATTAGLIA, Le dimore dei Medici in Toscana, Firenze, Edizioni Polistampa, 1995.
21 - M. KEMP, La scienza dell’arte, prospettiva e percezione visiva da Brunelleschi a Seurat, trad. it., Firenze, Giunti, 1994, pp. 30-33.
22 - A.M. BRIZIO (a cura di), Scritti scelti di Leonardo da Vinci, op. cit., pag. 168.
23 - Autorità.
24 - Quest’ultimo passo è contenuto in un foglio del codice Forster III, che comprende appunti di argomenti diversi, databili tra il 1493 e il 1496. A.M. BRIZIO (a cura di), Scritti scelti di Leonardo da Vinci, op. cit., p. 98.
25 - Tra gli artisti che tra il 1480 e il 1485 lasciarono Firenze ci sono molti nomi eccellenti: l’architetto Giuliano da Sangallo fu raccomandato alla corte di Napoli; Andrea del Verrocchio si trasferì a Venezia. Botticelli e Domenico Ghirlandaio furono chiamati a Roma per la decorazione della cappella Sistina,
seguiti più avanti dai Pollaiolo e da Filippino Lippi.
26 - M. KEMP, Leonardo da Vinci – Le mirabili operazioni della natura e dell’uomo, op. cit., pag. 78.
27 - S. ALBERTI DE MAZZERI, Leonardo, l’uomo e il suo tempo, op. cit., pag. 42 e seguenti.
28 - G. VASARI, Le Vite, op. cit., vol. II, p. 549.
29 - G. BOLOGNA, Leonardo a Milano, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1982, p. 3.
30 - Bernardino Corio nacque a Milano nel 1459 dove visse per tutta la vita. Nel 1485, rifugiatosi in campagna per sfuggire alla peste, iniziò a scrivere la storia della sua città partendo dalle origini. Ludovico mise a sua disposizione gli archivi dello stato e gli fornì il lasciapassare per la consultazione di documenti conservati in città e monasteri dei suoi territori. Nel 1503 l’opera fu terminata e stampata a spese dello stesso Corio.
31 - B. CORIO, Storia di Milano, A. Morisi Guerra (a cura di), II, Torino, UTET, 1978, pp. 1479-80.
32 - M. KEMP, Leonardo da Vinci – Le mirabili operazioni della natura e dell’uomo, op. cit., pp. 85-87.
33 - C. SANTORO, Gli Sforza, Milano, Dall’Oglio, 1968, pp. 289-292.
34 - S. ALBERTI DE MAZZERI, Leonardo, l’uomo e il suo tempo, op. cit., p. 51.
35 - C. PEDRETTI, Leonardo architetto, Milano, Electa, 2007, pp. 57-63.
36 - Ibid.
37 - Ivi, p. 58. Secondo Pedretti testimonianze di questi studi si rintraccerebbero in alcuni fogli dei codici Atlantico e Forster III, ma anche in alcuni schizzi contenuti in un foglio del manoscritto A (folio 114v) datato 10 luglio 1492; gli schemi di reticoli stradali in esso rappresentati, sarebbero tipici di certi quartieri milanesi.
38 - Niccolò Perotto (1430-1480), è stato un noto umanista e filologo italiano. Le sue opere letterarie sono
principalmente testi di filologia, grammatica e traduzioni dal greco e dal latino. Per un approfondimento sull’umanesimo rinascimentale, si veda E. GARIN, L’umanesimo italiano, filosofia e vita civile nel Rinascimento, Bari, Laterza, 1994.
39 - Elio Donato è stato un grammatico romano del IV secolo. La sua Ars Grammatica fu un’opera molto nota fra i suoi contemporanei, tanto da essere poi commentata e trascritta da molti autori nei secoli successivi. www.treccani.it
40 - M. KEMP, Leonardo da Vinci – Le mirabili operazioni della natura e dell’uomo, op. cit., p. 87.
41 - S. ALBERTI DE MAZZERI, Leonardo, l’uomo e il suo tempo, op. cit., p. 83.
42 - Bramante aveva raggiunto Roma nel 1499 dopo la caduta di Ludovico il Moro; negli anni precedenti all’incontro con Giulio II, l’architetto non realizzò opere di grandi dimensioni, ma sicuramente tali opere furono importanti per il suo percorso professionale. Si pensi al tempietto di San Pietro in Montorio,
realizzato nel 1502, che unisce in sé i canoni degli edifici a pianta centrale, di cui si era occupato durante il soggiorno milanese, e il culto per l’architettura classica. L’incontro con il papa portò alla realizzazione di opere di grandi dimensioni come il percorso ideato per collegare i palazzi vaticani sulla collina del Belvedere. L’audacia di Giulio II unita all’ardore creativo di Bramante portarono poi alla decisione papale di abbattere la vecchia e pericolante basilica di San Pietro per provvedere poi alla sua ricostruzione seguendo il noto progetto bramantesco. W. LOTZ, Architettura in Italia, 1500-1600, trad. it., Milano Rizzoli, 1995, pp. 11-23.
43 - G. VASARI, Le Vite, op. cit., II, p. 572.
44 - C. PEDRETTI, Leonardo architetto, Milano, Electa, 1981, pagg. 32-33. Secondo Pedretti la prova che Leonardo avesse partecipato al concorso indetto per la costruzione del nuovo tiburio tra il 1487 e il 1490 è rintracciabile nei suoi stessi manoscritti. Un foglio del codice Atlantico (333v), recante alcuni progetti di attacchi sottomarini, è stato messo in relazione ad un altro foglio appartenente allo stesso codice (346r-a, v-a) per via dello stile di scrittura usato e per il tipo particolare di carta; sembrerebbe infatti la stessa carta usata per i registri della Fabbrica del Duomo, che probabilmente Leonardo ebbe modo di usare in quanto materiale di scarto. Il successivo confronto del foglio 333v con un altro ancora, anch’esso appartenente al
Codice Atlantico, (148r-a), recante alcuni riferimenti ai progetti del tiburio, ha permesso di confermare tale teoria.
45 - P.C. MARANI, Bramante e Leonardo architetti militari, in Leonardiana, Milano, Skira, 2010, pp. 303-309.
46 - Vasari ne parla nel capitolo dedicato a Piero della Francesca. G. VASARI, Le Vite, op. cit., II, pp. 337-338.
47 - A. CIOCCI, Luca Pacioli tra Piero della Francesca e Leonardo, Sansepolcro, Aboca Edizioni, 2009.
48 - Appartenente ad una nobile famiglia veneziana, fu per un trentennio una delle personalità più eminenti della Scuola di Rialto, dove impartiva lezioni di filosofia, teologia, logica e matematica. www.treccani.it
49 - S. ALBERTI DE MAZZERI, Leonardo, l’uomo e il suo tempo, op. cit., p. 119.
50 - Fu un tipografo bresciano, attivo a Venezia a partire dal 1483. Stampò soprattutto opere di teologia e giurisprudenza. Per Pacioli stampò anche il De Divina Proportione nel 1509. www.treccani.it
51 - M. KEMP, Leonardo da Vinci - Le mirabili operazioni della natura e dell’uomo, op. cit., pp. 133.
52 - Ivi, p. 131.
53 - A. MARINONI, Gli scritti di Leonardo, in C. ZAMMATTIO, A. MARINONI, A.M. BRIZIO, Leonardo scienziato, op. cit., p. 95.
54 - MARANI P. C., FIORIO M. T. (a cura di), Leonardo. Dagli studi di proporzioni al trattato della pittura, Milano, Electa, 2007, p.70.
55 - Ibid.
56 - M. DE MICHELI, op. cit., p. 50.
57 - P. GALLUZZI, Gli ingegneri del Rinascimento. Da Brunelleschi a Leonardo da Vinci, Firenze, Giunti, 2001, p. 81.
58 - P. C.MARANI, Leonardo e Francesco di Giorgio. Architettura militare e territorio, in Leonardiana, op. cit., pp. 287-301.
59 - Si veda R. PAPINI, Francesco di Giorgio architetto, Firenze, Electa, 1946.
60 - Si veda F. DI GIORGIO MARTINI, Trattati di architettura, ingegneria e arte militare, C.MALTESE (a cura di), Milano, Il Polifilo, 1967.
61 - P. GALLUZZI, op. cit., pp. 25-27.
62 - P. TORRITI, Francesco di Giorgio Martini, in Art Dossier, Firenze, Giunti, 1993, pp. 33-37.
63 - P. C.MARANI, Leonardo e Francesco di Giorgio. Architettura militare e territorio, in Leonardiana, op.cit., p. 288.
64 - Ibid.
65 - E. H. GOMBRICH, La forma del movimento nell’acqua e nell’aria, in L’eredità di Apelle, op. cit., p. 51.
66 - F. CAPRA, La scienza universale. Arte e natura nel genio di Leonardo, trad. it., Milano, Rizzoli, 2007, p. 25-27.
67 - Ivi, p. 29-30.
68 - M. DE MICHELI, op. cit., p. 27.
69 - Il ricorso all’analogia, di concezione aristotelica, fu ampiamente in uso tra gli studiosi medievali e rinascimentali. Lo stesso Leonardo ricorse all’analogia tra macrocosmo (la Natura come essere vivente) e il microcosmo (l’uomo) per quasi tutta la sua carriera di scienziato. Durante gli ultimi anni di vita, si fece critico nei confronti di questo sapere tradizionale; un segno – questo – della sua conversione intellettuale verso una scienza sempre più basata sulla rielaborazione mentale e sulla certezza delle leggi matematiche. Per un approfondimento in merito si rimanda al saggio di M. KEMP, La crisi del sapere tradizionale nell’ultimo Leonardo, in Lezioni dell’occhio. Leonardo da Vinci discepolo dell’esperienza, trad. it., Milano, Vita & Pensiero, 2004, pp. 133-153.
70 - F. CAPRA, L’anima di Leonardo. Un genio alla ricerca del segreto della vita, trad. it, Milano, Rizzoli, 2012, p.37.
71 - Ibid.
72 - A.M. BRIZIO, op. cit., p. 285.
73 - F. CAPRA, L’anima di Leonardo. Un genio alla ricerca del segreto della vita, op. cit., p.34-35.
74 - Ibid.
75 - C. PEDRETTI (a cura di), Leonardo da Vinci. Studi di Natura dalla Biblioteca Reale nel Castello di Windsor, Firenze, Giunti Barbera, 1982, p. 50.
76 - P. C. MARANI, L’Adda nelle carte e nei disegni di Leonardo, in L’Adda trasparente confine. Storia, architettura e paesaggio tra Lecco e Trezzo, Lecco, Cattaneo, 2005, p.189.
77 - Ibid.
78 - F.MAVERO, Le vie d’acqua, una cultura lombarda, in Storia della Brianza. Il paesaggio e l’uomo, vol. VI, T. Casartelli, F, Mavero, V. A. Sironi (a cura di), Lecco, Cattaneo, 2011.
79 - La lettera, detta patente, con la quale Cesare Borgia nominava Leonardo suo architetto e ingegnere, fu ritrovata a Vaprio d’Adda, presso la dimora dei Melzi d’Eril, nel 1792. Questo documento, insieme ad alcuni studi di fortificazioni in Romagna, contenuti nel manoscritto L, sono le uniche testimonianze del viaggio di Leonardo in queste terre. Per approfondire l’argomento si veda il catalogo della mostra tenutasi a Vaprio d’Adda nel 1993. C. PEDRETTI (presentazione), F. VAGLIENTI (introduzione), Il lasciapassare di Cesare Borgia a Vaprio d’Adda e il viaggio di Leonardo in Romagna, Firenze, Giunti, 1993.
80 - P. GALLUZZI, Gli ingegneri del Rinascimento. Da Brunelleschi a Leonardo da Vinci, op. cit., p. 71.
81 - M. KEMP, Leonardo. Nella mente del genio, trad. it., Torino, Einaudi, 2006, p. 95.
82 - C. ZAMMATTIO, Acque e pietre: loro meccanica, in Leonardo scienziato, op. cit., pp. 11-15.
83 - E. H. GOMBRICH, La forma del movimento nell’acqua e nell’aria, in L’eredità di Apelle, op. cit., p. 55.
84 - A.M. BRIZIO, op. cit., pp. 304-305.
85 - Per un approfondimento sulla figura del filosofo inglese Francesco Bacone, si veda P. ROSSI, Francesco Bacone. Dalla magia alla scienza, Bologna, Il Mulino, 2004 (prima ed. 1957).
86 - E. H. GOMBRICH, op. cit., p. 53.
87 - F. CAPRA, L’anima di Leonardo. Un genio alla ricerca del segreto della vita, op. cit., pp. 67-70.
88 - J. ROBERTS (a cura di), Il Codice Hammer di Leonardo da Vinci. Le acque, la terra, l’universo, trad. it., Firenze, Palazzo Vecchio, 1982, p. 18.
89 - P. C. MARANI, L’Adda nelle carte e nei disegni di Leonardo, in L’Adda trasparente confine. Storia, architettura e paesaggio tra Lecco e Trezzo, op. cit., p.187.
90 - T. CELONA, G. BELTRAME, I navigli milanesi. Storia e prospettive, Milano, Silvana Editoriale, 1982, p.25.
91 - Ivi, p. 43.
92 - Nella sua monografia dedicata all’artista, Edmondo Solmi riporta alcuni stralci dei carteggi tra i Francesi e la Repubblica. Se ne deduce che la trattativa con Firenze fu lunga e laboriosa, giocata con le carte della diplomazia ma anche a forza di pressioni politiche, alle quali i fiorentini dovettero infine piegarsi. Si veda E. Solmi, Leonardo (1452-1519), Firenze, G. Barbera, 1923, pp. 163-169.
93 - P. C. MARANI, L’Adda nelle carte e nei disegni di Leonardo, in L’Adda trasparente confine. Storia, architettura e paesaggio tra Lecco e Trezzo, op. cit., p.198.
94 - C. PEDRETTI (a cura di), Leonardo da Vinci. Studi di Natura dalla Biblioteca Reale nel Castello di Windsor, op. cit., p. 48.
95 - C. ZAMMATTIO, Acque e pietre: loro meccanica, in Leonardo scienziato, op. cit., p. 40.
96 - P. C.MARANI, L’Adda nelle carte e nei disegni di Leonardo, in L’Adda trasparente confine. Storia, architettura e paesaggio tra Lecco e Trezzo, op. cit., p.191-194.
97 - ZAMMATTIO, Acque e pietre: loro meccanica, in Leonardo scienziato, op. cit., p. 45.
98 - Il rapporto di Carlo Pagnani è stata ripubblicato in anni recenti da vari autori. Qui si segnala l’edizione curata da Gianni Beltrame e Paolo Margaroli nel 2003. C. PAGNANI, Decretum super flumine Abduae reddendo navigabili, G. Beltrame, P. Margaroli (a cura di), Milano, edizione stampata nell’officina d’arte grafica Lucini, 2003.
99 - C. e P. VIOLANI, La tutela dell’ambiente: parchi e zone protette, in Storia della Brianza. Il paesaggio e l’uomo, vol. VI, op. cit., pp. 234-238.
100 - A. BURATTI MAZZOTTA, L. DACCÒ, L’Adda trasparente confine. Storia, architettura e paesaggio tra Lecco e Trezzo, op. cit., p. 5.
101 - L’alzaia che costeggia la sponda destra del fiume inizia Lecco; è possibile raggiungere Milano senza mai abbandonarla, costeggiando il fiume e i Navigli di Paderno e della Martesana.
102 - L’incisione fa parte oggi della collezioni della Biblioteca Ambrosiana.
103 - O. SELVAFOLTA, Paesaggi tecnici, ponti in ferro e architettura elettriche da Lecco a Trezzo, in L’Adda trasparente confine, op. cit., pp. 138-142.
104 - M. Rossetto, Acque che dividono, acque che uniscono: confini, criminalità e sfruttamento delle acque tra Cinque e Settecento, in L’Adda trasparente confine, op. cit., pp. 122-129.
105 - A. MARINONI, Gli scritti di Leonardo, in C. Zammattio, A. Marinoni, A.M. Brizio, Leonardo scienziato, op. cit., pp. 68-123. - C. PEDRETTI, M. CIANCHI, Leonardo. I codici, op. cit.; A. CHASTEL, Leonardo da Vinci, op. cit.



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SITOGRAFIA

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Hammer Codex                                 www.hammercodex.com
Parco Adda Nord                               www.parcoaddanord.it
Royal Windsor Collection                  www.royalcollection.org.uk
Victoria and Albert Museum              www.vam.ac.uk
Villaggio Crespi d’Adda                     www.villaggiocrespi.it
Visit Adda                                          www.visitadda.com



RINGRAZIAMENTI
 

Ringrazio la mia relatrice, la professoressa Patrizia Castelli, che con rigore e passione mi ha guidata in questi mesi.
Ringrazio le mie compagne e i miei compagni di corso, con i quali ho condiviso gioie e dolori di questa straordinaria avventura. A ognuno di loro va il mio profondo affetto, che rimarrà immutato nel tempo.
Ringrazio tutte le persone che in questi anni mi hanno sostenuto e incoraggiato. Mia mamma, le mie sorelle, amiche e amici, semplici conoscenti.
Ringrazio e abbraccio mio figlio Gianluca e mio marito Gianfranco che con amore e pazienza sono stati sempre al mio fianco durante questi anni di studio. A loro è dedicato questo importante traguardo.


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