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ANGELO ARLATI E IL POPOLO ROM: UN INCONTRO CHE DURA DA QUARANT'ANNI di Angelo Arlati

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Angelo Arlati, classe 1948, è un pensionato, ex insegnante di materie letterarie alla scuola media; è nato a Bellusco, vive a Cornate d'Adda; è sposato e ha due figlie.
Quarant''anni fa, anno più anno meno, ha svolto la sua tesi di laurea su un argomento allora, e forse anche oggi, insolito: il romanés, la lingua dei rom o, se preferite, degli zingari.
Così ha avuto inizio, e da allora non si è più interrotto, il suo rapporto con questo popolo e la sua cultura.
 

 
Angelo Arlati, quarto da destra, tra i Lovara


Nel 2005 ha pubblicato un libretto sulla persecuzione nazista dei rom, intitolato "Porrajmós e samuradipen. L'olocausto del popolo zingaro"(1). Più recentemente su la "Rivista Anarchica" è apparso un suo ampio saggio intitolato "La lingua dei Rom"(2) Un altro articolo, "La più antica rappresentazione iconografica degli zingari", è stato invece pubblicato dalla rivista "Rom, Sinto" (3)
Parlare con lui di questo argomento è un'avventura: sai quando cominci ma riguardo alla fine ...
Per la  prima domanda, propedeutica, utile a chiarire l'uso di alcuni termini, abbiamo chiacchierato per più di mezz'ora: preparatevi, si parte.

 
Fotografia di Jurij Razza*


Marco (M) -Una premessa: zingari, nomadi, rom, sinti. Come usare questi termini? Tu ad esempio, se non vado errando, usi il la parola"zingaro" senza farti troppi problemi, ( mi riferisco all'articolo "La più antica rappresentazione iconografica degli zingari") mentre di solito si cerca di evitarlo in quanto sarebbe sgradito al popolo in questione.
Angelo (A) - È una domanda pertinente e di grande attualità. Io non mi faccio troppi problemi. Anzi, non è vero, anch'io me li faccio: non scrivo, a vanvera; non uso zingari, o rom così come mi capita.
Il criterio fondamentale è la chiarezza e il contesto del discorso.

M - Un esempio?
A - Ad esempio, nell'articolo a cui fai riferimento, visto che sono i "nostri" pittori che dipingono, non sono rom, essi offriranno un'immagine generica dello zingaro, non del rom o del sinto. Anche i titoli, originali o attribuiti, dei loro quadri - "La Zingarella" di Boccaccio Boccaccino; "La buona ventura della zingara" di Caravaggio e così via - non si possono cambiare. Se il nostro pittore lì guardava come zingari, io non posso inventarmi adesso che sono rom.

Quindi usare "zingari" fuori luogo è sbagliato; quando c'è la possibilità di usare la parola rom, ben venga. Ma perché sostituire necessariamente la parola "zingari"?

M - Forse perché è offensiva?
A - Certo, è ritenuta offensiva, specialmente dagli "zingari" stessi, ma non è assolutamente vero che sia offensiva. È un etnonimo, come le parole rom e sinto, cioè un nome che designa l'appartenenza a un popolo. Solo che rom e sinto sono nomi che la popolazione dà a se stessa; "zingaro" è un nome che viene applicato da altri. Se chiedi a uno zingaro: "tu chi sei?" lui risponde, giustamente: "io sono un rom" oppure: "io sono un sinto" e non: "sono uno zingaro": è corretto privilegiare nell'uso le prime due, ma non è necessario, ripeto, abbandonare del tutto l'altra, solo perché è un nome applicato da altri, un eteronimo. Apache, sioux, cheyenne, eccetera: sono nomi attribuiti alle tribù degli indiani d'America dagli inglesi o da altre tribù, sono eteronomi: nessuno grida allo scandalo quando vengono usati.

M - E quindi le tribù indiane avranno avuto, prima della "conquista", un loro nome?
A - Sì, un autonimo, un nome dato da sé stessi, che in genere corrisponde a "uomo", "vero uomo", "popolo": è un classico delle popolazioni di natura il definirsi "uomini". È così anche per quelli che "noi" chiamiamo eschimesi (cioè: mangiatori di carne cruda) che autonomamente si chiamano "inuit", che nella loro lingua vuol dire uomini. E lo stesso vale per la parola rom

M - Quindi la parola rom vuol dire uomo?
A - Rom è il nome di tutto il popolo, ma è anche il nome comune di ogni singolo uomo maschio. Anche "marito" è rom, mentre "moglie" è romni.
Ma rom è l'uomo zingaro. Tu ed io non siamo rom, siamo manush, un termine indiano che significa uomo. Loro distinguono l'uomo zingaro che è rom, dall' uomo comune che è manush. O anche gagio, un termine più spregiativo.

 
Fotografia di Jurij Razza



M - Manush è una parola indiana, e rom?
A -È difficile risalire al significato della parola rom, ci sono diverse teorie che io accetto in parte, poi personalmente ognuno ha il diritto di dire anche la propria, no? Praticamente è sicuro che rom derivi dalla parola indiana dom: che significa "uomini"(4)
In medio oriente ci sono popolazioni che si chiamano dom che vuol dire uomo: i dom della Siria, i dom della palestina .Sono di origine e anche di lingua zingaresca, quindi imparentati con i rom.
La lingua dei nostri zingari europei che si sono diretti in Grecia e nei paesi balcanici ha visto l'iniziale D di molte parole trasformarsi in R.
Frank Miklosich, uno dei più grandi glottologi e orientalisti, vissuto nell'Ottocento, ha studiato questo cambiamento fonetico che ha riguardato decine di parole indiane, non solo la parola  Rom. Ad esempio il cucchiaio in indiano è doi e gli zingari dicono roi.

M - L'origine indiana di queste parole testimonia dell'origine indiana del popolo degli zingari?
A - Su questo sarei prudente, metterei un po' di puntini sulle i. Piuttosto che di "origine indiana", per essere più scientifici, sarebbe meglio parlare di "provenienza ultima indiana". Un esempio, per chiarire: i rom romeni che arrivano in Italia da sette, otto, dieci anni, non sono di origine romena, sono di provenienza romena; i rom greci sono cittadini della Grecia, ma non di origine greca, ...

M -Quindi non è sicuro neanche che l'India sia il luogo d'origine ...
A - Io ci tengo a sottolineare questo tema: gli studi sono andati sempre più indietro nel tempo e nello spazio e alcune realtà sono ormai assodate: i rom sono giunti nei Balcani provenendo dall'area greco turca, avendo percorso il medio oriente e la Persia, perché nel Romanés, la loro lingua, ci sono molti prestiti e molti fenomeni fonetici e linguistici persiani, oltre naturalmente a uno zoccolo, una base che è indiana. Nel romanés tutti i termini che riguardano la famiglia sono ancora termini indiani. Quindi è chiaro che hanno un fondo indiano. Poi sull'origine ...

M - Come si deve usare invece la parola Sinto?
A - Sinto è una differenziazione che si è sviluppata nel tempo. Ma prima sono tutti rom: anche il sinto prima di tutto è rom.

M - Ah, questo non lo sapevo. L'insieme è Rom; Sinto è un sottoinsieme?
A - Sì alcuni rom sono solo rom.

M - Ma in che cosa si differenziano?
A - Dall'area geografica di insediamento. I rom -rom o Rom propriamente detti sono quelli che abitano nei paesi balcanici, in Romania, Bulgaria, Turchia, in Russia e nell'Italia meridionale

M - E i Sinti?
A - I Sinti sono quelli dell' Italia centro settentrionale, della Francia, della Repubblica Ceca, della Slovacchia, della Germania e su, su fino alla Svezia.

M -È tutto?
A - No, in Spagna ci sono i calè, o meglio i rom - calè, ossia i 'rom neri',  e in Inghilterra i romanicel, ossia i 'f'igli Rom'.

M - In nord Africa ci sono rom?
A -  Dalla Francia e dalla Spagna molti zingari sono emigrati nel nord Africa.
Direttamente invece sono i Dom, di cui abbiamo già parlato prima. Sono mussulmani, provengono dal Medio Oriente, e sono lì anche loro da mille anni. Al tempo della conquista araba, avendo un territorio unico, potevano girare come volevano, non c'erano le frontiere e quindi i Dom sono presenti su un territorio che si estende dall'Afganistan fino al Pakistan e all'Egitto.

 
Fotografia di Jurij Razza




M - Riassumendo ...
A - Riassumendo, dobbiamo dire che la cosa principale è che i termini vanno mantenuti tutti e usati nel contesto giusto. Essi ci aiutano a capire la storia di questo popolo, che nei secoli si è diversificata ed è diventata più complessa.
Ma ciò non toglie che sempre di un unico popolo si tratti. Se si vuole riorganizzare questo mondo, modernizzarlo, integrarlo, bisogna partire dal riconoscimento della sua globalità di popolo. Sono convinto che si danneggi la popolazione zingara continuando ad insistere sulle differenze. Bisogna unire. Bisogna far leva su forze centripete, non centrifughe. Io vado un po' controcorrente, ma perché mi sembra di avere le idee chiare.
La prima cosa che uno zingaro fa quando ne trova un altro è chiedergli da dove viene:
"Tu chi sei?"
"Un rom Romeno? E tu?"
" Anch'io, e sono un kalderash e sono stato anche in Russia, che è piena di kalderash"
"La tua famiglia allora lavorava il ferro"
" Io invece sono un sono lovari, i miei antenati allevavano i cavalli"
"Allora vieni dal'Ungheria"
Le famiglie dei questi nostri tre amici immaginari hanno una storia comune: tutte e tre sono state liberate dalla schiavitù in Romania. Una si è poi trasferita in Ungheria e l'altra in Russia. Lo so che conoscere queste cose è utilissimo, ma il rom è soprattutto un rom prima di essere qualcosa d'altro.

M - Perché la parola rom, anch'essa legata a un sottogruppo del popolo complessivo, è stata assunta come nome dell'intero popolo?
A - E' il nome che si sono dati dalla notte dei tempi. I rom sono la fetta più grossa, rappresentano i tre quarti della torta: due milioni e mezzo in Romania, un milione in Bulgaria; 700 mila in Ungheria ecc.
Io sono il primo a riconoscere che i Sinti hanno una grande importanza storica e culturale, ma numericamente se arrivano a 500 mila è tanto.

 
Fotografia di Jurij Razza



M -Un modo sicuro per essere impopolari in Italia, e probabilmente non solo in Italia, è quello di occuparsi degli zingari, di apparire come loro amico. Ti sarai certo chiesto perché: che risposta ti sei dato?
A - Non c'è categoria, non c'è individuo che non nutra una idiosincrasia, un' ostilità innata verso di loro È una cosa atavica che tutti, anch'io, abbiamo sperimentato fin da giovani.
Questo sentimento, assurdamente, si trasferisce anche su coloro che gli sono vicini: occuparsi di rom è letale, l'ho provato sulla mia pelle.
Anche tra amici, finché se ne parla così nessun problema, ma quando si comincia a dire "ma tu ti occupi di zingari?" allora gli atteggiamenti cambiano. E in famiglia lo stesso: "ma cun toeut quel che se poeu fâ, cu i anzian, i malà, i drugà, propri cun chi le gheret de metess?". Drogati, i carcerati: ci sono tante categorie bisognose che hanno un immagine in sé peggiore degli zingari, eppure solo questi suscitano questa automatica repulsione, che, come dicevi, si riflette anche su coloro che se ne occupano.
Ma che senso ha prendersela anche con questi ultimi? Che ci sia almeno una separazione!

M -Tu, comunque, hai deciso di occupartene e, se si può dire, di essere loro amico. Quando è successo e perché?
A - Ho deciso di occuparmene una quarantina d'anni fa; sono diventato amico di tanti con cui sono entrato in contatto e sono ammiratore della loro cultura. Di qualcuno posso dire di non essere amico, perché non hanno seguito le regole dell'amicizia, che, ovviamente, non è cieca. Però di tutto il popolo sì, sono un ammiratore.

M - Come è successo?
A - Non è stata un'iniziativa a carattere sociale o di volontariato: è stato un motivo culturale. Facevo l'università, ero all'ultimo anno e avevo scelto la tesi in letteratura latina, in cui mi ero specializzato, quando un compagno di studi un po' particolare, perché aveva una ventina d'anni più di me ed era alla terza laurea (la prima in ingegneria, era un dirigente della Dalmine), mi ha fatto un ragionamento:
"Come può uno studioso come te di 21, 22 anni, fare una tesi su Plauto o Cicerone? Non può far altro che scopiazzare di qua e di là!"
Lui, siamo nel 1971, stava facendo una tesi sociologica intitolata: "La percezione che gli italiani hanno degli zingari", basata su un questionario a livello nazionale, con domande tipo "Da dove arrivano? Di che religione sono? Fanno riti tribali? Fanno magie? Ecc.."
M - E così ti ha proposto di fare una tesi sulla cultura degli zingari?
A -  Sì. Sapeva che nei miei studi mi ero dedicato anche al sanscrito  e quindi ...

M - Ti ha convinto ...
A -  Esatto. Non c'era niente in Italia a quel tempo sull'argomento. Mi sono detto: "Beh, male che vada passa, perché qualsiasi cazzata scrivo ... "  tanto è vero che il professor Bolognesi, emerito professore di glottologia che andava a convegni in Russia , in America, nel 72 quando mi sono laureato ha detto: "oh che bello, sa che mai avevo sentito ... è l'unico ... uno dei pochi"

M - Come andò a finire?
A - Quando l'ho sostenuta ho detto quattro cose (che adesso non sottoscriverei tutte), mi hanno detto bravo, bravo, bravo e mi hanno dato 109, perché avevo esami un po' bassi.

 
Fotografia di Jurij Razza




M - Esattamente qual era l'argomento della tesi?
A - Era sui dialetti zingari: avevo visto un po' di testi che già c'erano, alcuni vocabolari e fatto due indagini personali. Una a Cuneo, presso i Sinti, e l'altra a Milano, presso gli Harvati (5). Chiedendo: "Come dici padre? madre?" Ho composto un piccolo vocabolario, una mini grammatica.

Il mio primo maestro di lingua zingara è stato Giuseppe Levackovitc detto Tzigari o Zigari, rom harvato, dell'Istria, venuto in Italia dopo la seconda guerra, a Milano, in uno dei primi campi che il comune aveva messo a disposizione. Me lo aveva presentato il mio compagno di studi. Andavo da lui all'osteria o nella sua roulotte e gli chiedevo come si dice questo e quest'altro. Poi confrontavo le sue risposte con quelle che ottenevo in Piemonte. Con questo lavoro piano, piano sono entrato nella loro mentalità, nella loro cultura.

M - Siete diventati amici?
A - Andavo nel loro carrozzone a mangiare, a bere, a bere il caffè eccetera.  Nel 1977 Tzigari è stato invitato al mio matrimonio. Gli altri invitati si chiedevano: "Chi l'è? L' è 'n zingher?". E già, c'era uno zingaro tra gli invitati e tutti citu musca. Cosa vuoi dire allo sposo? Anzi qualche parente, alla fine, gli ha dovuto dare un  passaggio: sono belle rivincite, no?

M - Era una persona anziana?
A - Già allora aveva sui 70 anni. Quando è morto ne aveva circa 90.

M - Tutto questo succedeva 40 anni fa?
A - Sì, dal '72,  ho quarant'anni di servizio in questo campo e da allora, con alti e bassi me ne sono sempre occupato, privilegiando l'aspetto della conoscenza. È ovvio, che avendo a che fare con i rom non puoi dissociare del tutto l'aspetto culturale dall'aspetto utilitaristico perché volente o nolente chi avvicina gli zingari deve mettere nel conto di essere usato.

M - Usato in che termini?
A - Per i loro bisogni materiali, il riso, la pasta, i documenti, la burocrazia. Ma anche per i soldi: se ne hanno bisogno perché che ne so, gli tagliano la luce, te li chiedono.: Insomma, bisogna mettere in conto, che c'è anche questo aspetto.
A volte non è una richiesta diretta di denaro. Ti propongono una vendita. Uno dei primi anni, mi ricordo, sono arrivato a casa con una batteria  di pentole.

Comunque l'aspetto assistenzialistico non deve assolutamente prevalere. Lo dico, se può servire a qualcosa, con la mia esperienza di quarant'anni di frequentazione. Non deve prevalere perché c'è già. Vai a offrire i tuoi servizi a chi ti succhia il sangue?

"Li conosco, vado e li aiuto" oppure; "Io sono qua, se hai bisogno...": sono due atteggiamenti letali, da evitare soprattutto per un concetto di dignità e di rispetto.

Ti racconto un episodio.
Un tizio, gagio, grande esperto, amante dei nomadi, visita una famiglia di rom Harvati. Entra in casa: " oh buongiorno ciao, ciao, ciao: che bello, finalmente trovo dei rom puliti". "Perché i rom devono essere sporchi? Tu allora ti aspetti che i rom siano sporchi, che siano ladri dicendo così".

Non bisogna assolutamente accostarsi agli zingari con l'atteggiamento di beneficenza, di volontariato e così via.

M - Sei critico anche nei confronti delle associazioni che si occupano di zingari?
A - Critico? Lo posso dire e sfido chiunque venga in un dibattito pubblico a negarlo: la prima cosa per far andare bene il popolo rom in Italia è chiudere, sopprimere tutte le strutture che si occupano di loro, che sono una quarantina in Italia ...dei mangia, mangia... Prima cosa. Non si risolvono i problemi se prima non si sopprimono tutte queste sanguisughe, queste associazioni parassitarie che vivono sugli zingari, definiti parassiti. Bello! Sugli zingari, definiti parassiti, ci vivono i parassiti.

Tutte associazioni che fanno progetti di avviamento al lavoro, utilizzando fondi europei e italiani, che poi finiscono in niente. Un sacco di soldi. Si fa il corso di cucito per le donne, che sono pagate per partecipare. Finito il corso, finito tutto. Si fa il corso per incrementare il ballo e la musica degli zingari; partecipano in sette o otto, finito il corso se non vengono chiamati a suonare ..... Si fa un corso per l'avviamento di cooperative di zingari per il verde: finito il corso la serra è andata in malora, troppa fatica e poi chi va a vendere? Ce ne sarebbero di cose da dire, ma è meglio lasciar perdere.

 
Fotografia di Jurij Razza


M - C'è qualcuno che si salva, o no?
A - L'unica che capisco è l'associazione NAGA, un'associazione di medici ( naga è il nome di un serpente indiano). Sono medici volontari che, con un ambulanza, girano nei campi. E' una realtà solo italiana, perché all'estero i rom hanno case, hanno l'assistenza medica eccetera. In Italia vanno, vengono sono qui sono là. L'intervento del Naga è importante soprattutto a livello infantile, più che per l'adulto che, bene o male, s'arrangia. Anche perché gli zingari non si curano. Hanno male agli occhi? Ai denti? Allo stomaco? Passerà! Ma è un dovere seguire le donne, i bambini, fare le vaccinazioni, le visite  e siccome non li raggiungiamo tutti perché non tutti si rivolgono alla struttura sanitaria ben venga questa istituzione, che da almeno 30 anni gira nei campi con i furgoni e i medici volontari. Questa non è più beneficenza, è un servizio sociosanitario.

M - E l'Opera Nomadi?
A - Opera Nomadi è stata fondata nel 1965 da don Bruno Nicolini, santo prete e brava persona, morto qualche mese fa, e da Mirella Karpati, studiosa di pedagogia di Padova.
Questa associazione, agli inizi, ha fatto un ottimo lavoro perché ha risvegliato l'attenzione verso gli zingari e ha fondato una rivista Lacio Drom, che vuol dire "buon viaggio". Soprattutto, però, ha firmato due convenzioni con il Ministero della Pubblica Istruzione per inserire i bambini a scuola. Con la prima, verso la fine degli anni sessanta, furono create: delle classi speciali. Praticamente vicino a quelle ordinarie c'erano classi composte solo da zingari, da 5 a 10 alunni: purtroppo allora non si sapeva fare di meglio. C'era una graduatoria speciale per insegnanti delle classi Lacio Drom. Chi voleva si iscriveva a questa e, in base ai requisiti, veniva chiamato per  insegnare nelle classi di zingari. L'altra convenzione, firmata nel 1982, superava le classi speciali e prevedeva l'inserimento degli alunni rom nelle classi ordinarie.

Anche a Milano l'Opera ha fatto tantissimo: sulla scuola, sul trasporto; sui campi, ha insistito col comune per portare almeno acqua, luce gas. Il mio amico Zigari è stato un beneficiato dell'ON, perché ha avuto un suo appezzamento, ha mandato i nipoti a scuola. Il lavoro pionieristico è stato importante, poi ...

M - Poi?
A - Poi il tempo è passato e ora credo che gli zingari non siano più un popolo da assistere, ma che anche loro debbano essere oggetto della legislazione generale, come tutti. Se c'è da andare a scuola vanno a scuola, io sono ferreo su queste cose: se tu vivi qui e non mandi i bambini a scuola ti denuncio e te li tolgo, come succede a tutte le famiglie che non mandano i bambini a scuola. Non paghi la luce? Eh caro mio io, te la taglio: "Ma io non ho i soldi" .Va lavora o vai ai servizi sociali, vai in comune. Lo zingaro va trattato innanzitutto  come essere umano come tutti, salvo l'applicazione di tutte quelle norme e di tutti quei benefici che situazioni di disagio ammettono  Invece di dare i soldi a te che sei dell'associazione io uso i soldi per gli zingari direttamente e favorire l'autopromozione.

M - E' l'intermediazione che non approvi?
A - Ecco sì, l'intermediazione: non c'è bisogno di intermediazione, se hanno bisogno di qualcosa si rivolgano a chi di dovere, come gli altri cittadini. E' chiaro che, dato l'alto livello di analfabetismo e di scarsa conoscenza burocratica, vanno aiutati, ma solo, diciamo così, come tutoraggio.

Ma, a parte l'Opera Nomadi che comunque la sua parte l'ha fatta e l'ha fatta bene, poi sono arrivati gli altri, i furboni. Si mettono insieme in cinque, nominano un presidente, scelgono un nome - "drom (strada) qualcosa" - ed ecco l'associazione. Ne esistono una quarantina e più in Italia.

M - Che vantaggi hanno?
A - Di avere i contributi. Adesso magari no, ma un tempo, quando i comuni erano di manica larga, le associazioni presentavano progetti e prendevano un contributo.
Poi lo so anch'io che ci sono problemi che il singolo non può risolvere da solo ma deve agire in forma associata, come ad esempio per modificare o aggiornare la legislazione.
Oggi ad esempio c'è il grosso problema dei rom apolidi, provocato dalle guerre dell'ex Jugoslavia: sono ragazzi di dieci, anche vent'anni, figli, nati in Italia, di famiglie fuggite dalla guerra. Non hanno documenti e non sono registrati né da una parte né dall'altra. Un problema.

M - Qual è stata la scoperta più inaspettata che hai fatto frequentando questo mondo ?
A - L'umanità Tutto quello che si diceva di loro non era vero. La mia grande scoperta, fondamentale, è che è gente semplice, naturale senza secondi fini (a parte quelli che vogliono fregarti, ma quella è un'altra cosa), gente che ti parla davanti.
Io quando vedo in tv quelli che partecipano ai giochi, sono subito sospettoso: sono spiritosi, ma solo per farsi vedere. Per esempio con Jerry Scotti, una sera c'era una copia per cui ho provato istintivamente simpatia: lui un bel ragazzo, avrà avuto 30 anni, fine; lei una bella ragazza, alta: erano giostrai. Erano semplici, naturali. Guarda, senza saperlo.

M - Ma i giostrai sono tutti zingari ?
A - I veri giostrai, antichi, sì. Anche le famiglie dei circhi:Moira Orfei, ad esempio, ha sempre dichiarato le sue origini zingare, anche i Zavatta, i Buglione. Altri invece non lo dicono.
Oggi ci sono anche giostrai non zingari: questi li accusano di avergli rubato la piazza, li chiamano "i dritti". Se chiedi a un giostraio: "sei un dritto?", quello si offende: perché se è uno zingaro dice "quelli lì? ammazzali tutti!" Se invece è un dritto ti dice: "Sì perché, cosa vuoi? Te sei uno zingaro?"
In Umbria ho conosciuto zingari che hanno smesso di lavorare con la giostra perché non ce la facevano più e sono diventati rottamatori, raccolgono il ferro. Tanti adesso lo fanno

 
Fotografia di Jurij Razza



M - Parlami del tuo rapporto con loro
A - Ho un buon rapporto perché è un rapporto di parità Anche quelli che vedo raramente, quando li vedo mi guardano con occhio benevolo, con occhio giusto: non il gagio che gli serve, il gagio dilo, che vuol dire il gagio stupido, che li insegue e che crede di sapere tutto e invece si fa sfruttare. Io sicuramente sono un gagio, non un rom e già questo crea una barriera: non sei un rom e quindi sei già diverso, automaticamente inferiore. Ma poi sei il più privilegiato dei gage perché li tratti da pari a pari: "Avete bisogno? io sono qua, ma non credete che sia lo straccio eh". Allora ti rispettano.
Ho aiutato uno che era in carcere mandandogli lettere. Adesso, dopo sette anni, è uscito e mi ringrazia e mi dice che senza le mie lettere sarebbe stata molto più dura. Gli scrivevo e gli chiedevo di rispondermi in romanés, per farmi imparare. Gli ho mandato il libro sull'olocausto del suo popolo, lui lo ha fatto vedere al direttore del carcere. Per lui sono diventato un "phral", un fratello, mai come un vero zingaro ma comunque un fratello
Lui è uno molto ricco e intelligentissimo, un big nella sua comunità. Nei matrimoni e nelle feste quando arriva tutti si alzano in piedi, la banda si ferma e poi riparte in suo onore. Fra loro non esiste il capo che comanda, ma il capo di prestigio sì.
Una volta ho partecipato a una "pomana", cioè a un banchetto funebre. Quando lui è arrivato, io ero già seduto, è venuto a stringermi la mano. Sai cosa vuol dire per gli altri? "Ti ho visto con ..." e per loro sei qualcuno.

M -Due mondi, il "nostro" e il "loro" che non si piacciono, che non riescono a parlarsi: cosa sbagliamo "noi"? Cosa sbagliano "loro"?
A - Sono due mondi diversi. Non è questione di chi ha torto e di chi ha ragione o di chi sbaglia. Sono due mondi fatti così. Il "nostro" è quello maggioritario e vuole che lo si accetti così com'è .

M - Chi non si adegua è fuori?
A - Esatto e loro sono un altro mondo, che non si è adeguato. Tutti ammirano la tenacia con cui ha saputo rimanere se stesso, nonostante le persecuzioni, il nazismo, il pericolo di distruzione e nonostante le nostre lusinghe, perché la casa, il lavoro, la tranquillità sono delle lusinghe che possono essere anche alla loro portata. Tutto questo lo hanno rifiutato perché i benefici economici e della nostra civiltà sono visti in un'altra ottica. Per noi è una conquista avere una casa, un lavoro, un conto in banca ecc. Per loro sono cose che  oggi ci sono e domani no. Con queste premesse non lo so come si possa fare ad integrarli

M - Ma l'integrazione è comunque un obiettivo?
A - Sì, non si può rinunciare a priori a questo obiettivo, ma con la consapevolezza che i due mondi viaggiano in modo parallelo. Poi ogni tanto c'è qualcuno che passa di qua, però non è un interculturalità, un'emancipazione

M - E' una scelta individuale
A - Una scelta famigliare, individuale di tanti che rinunciano, si nascondono. Conosco tantissimi che non si ritengono più zingari. Dicono "I Zingher?" .So di tante famiglie. Ma chi vuole vivere ancora in questa tradizione, deve continuare con questa mentalità.  Chi non vuole, deve fare il passo e venire di qua, non si può vivere in due mondi.
La loro è una società sovra famigliare, una società di clan la quale vive non parallelamente ma dentro la nostra società. Gli Yankee e gli Indiani d'America sono società diverse, che vivono parallelamente : Gli indiani hanno difeso il loro territorio, gli altri glielo hanno preso e li hanno messi in riserve punto e basta.
No gli zingari partono già dicendo "io sono diverso, ma sono dentro di te". E come fai a liberarti di uno che è dentro di te? "O diventi come me o stai fuori di me". E se stai dentro accetti l'emancipazione, che significa che ti vengono riconosciuti tutti i diritti previsti dalla Costituzione, dalle leggi e dalle normative. Ovviamente però ti toccano anche tutti i doveri connessi. La legge dice che i bambini devono andare a scuola? Tu li devi mandare a scuola . Pochissimi rom romeni, che sono la maggioranza, manda i bambini a scuola.

 
Fotografia di Jurij Razza



M - In Romania?
A - No, qui in Italia. In Romania, sia sotto Ceausescu che dopo, andavano a scuola. Infatti i genitori vengono che sanno leggere e scrivere. Ma, una volta qui, non mandano i figli, "Perché farli studiare? tanto guadagnano, chi se ne frega ..."

M - E quindi la legge deve intervenire
A - Certo, deve intervenire, in questo caso con decisione; in altri con discrezione. Bisogna stare attenti a non applicarla in modo ingiusto
Un esempio: se vediamo un bambino che corre scalzo nel campo, per noi, essendo scalzo, è anche  malnutrito e incustodito. Arrivano i Servizi Sociali e lo tolgono ai genitori. Un momento, non è lì che si vede l'affetto o l'attenzione dei genitori. Ci sono anche delle abitudini e delle tradizionali che non corrispondono alle nostre, dove basta soffiare addosso a un bambino per incappare in qualche violazione della di privacy, o in un atto di violenza. 
Sono altre le cose gravi a cui fare attenzione: la sudditanza della donna, la violenza nei suoi confronti,  l'ubriachezza, ...

M -Sugli zingari hai scritto diverse cose. Alcune le ho citate all'inizio di questa intervista e due brani sono pubblicati dopo. A parte l'interesse specifico per gli argomenti, una sera mi ha parlato dell'importanza che potrebbe rappresentare l'approccio culturale ai fini della convivenza con i rom: me ne puoi riparlare?
A - Sì, questo secondo me è un punto fondamentale. L'approccio  culturale può aiutarci ad abbattere il muro di incomunicabilità che ci separa
Questo tema si presenta sotto due aspetti.
Il primo è, diciamo così, quello "culturale intrinseco", cioè la conoscenza sic et simpliciter della  loro cultura, delle loro tradizioni, della loro lingua, della loro società, e anche della loro religione, se c'è.
Ma questo basta per avvicinarci? No.
Allora è necessario anche l'altro aspetto, quello di conoscere cosa loro ci hanno dato dal punto di vista culturale ed è indubbio che noi siamo debitori verso gli zingari per molte cose e che la nostra cultura è imbevuta della loro: nel divertimento (i lunapark), nello spettacolo (il circo), nella conoscenza dei cavalli, nel commercio ambulante. C'è chi dice che si debba a loro l'importazione delle armi da fuoco in occidente.
Cosa sarebbe l'arte se togliessimo agli artisti il personaggio dello zingaro o della zingara?. e Verdi cosa sarebbe senza il Trovatore, o la sua Traviata senza "il coro delle zingarelle"?. Anche Hugo a Cervantes resterebbero mutilati.
La maschera dello zingaro e della zingara è da sempre presente nei nostri carnevali, e in molte rappresentazioni della Passione di Cristo nel meridione d'Italia la zingara è il personaggio che predice il futuro.
L'eterno cammino degli zingari sarebbe dovuto a una maledizione ricevuta per non aver dato alloggio sotto le proprie tende alla Sacra Famiglia durante la fuga in Egitto.
C'è tutto un mondo letterario artistico, musicale, di divertimento che fa riferimento agli zingari, un mondo sterminato, che, se si vuole si può ignorare, ma se lo conosciamo dobbiamo dire: ah, tanto di cappello. Allora io dico, guardiamo lo zingaro anche in questo modo. Non sempre è lo straccione, l'analfabeta.

M - Non guardiamo solo quello che chiede ma anche quello che ha dato ...
A - Quando mi chiamano a parlare, parlo soprattutto di quello che ci hanno dato, e non se rubano o se mangiano con le mani....banalità!

M - Quali sono i tratti culturali in comune di un popolo così variegato, che non ha un proprio stato, che vive disperso su tanti territori e aderisce a diverse fedi religiose? La lingua, ad esempio, è unica o ce ne sono tante?
A - Anche qui ci sono le solite e tante leggende metropolitane, se vogliamo dire le cose come stanno. Intanto non è vero che i rom non abbiano uno stato, a parte gli apolidi, gli altri hanno tutti una nazionalità: i sinti italiani e i rom abruzzesi sono di nazionalità italiana, i rom che emigrano in Italia dalla Romania, ad esempio, sono romeni ...

M - Però il "popolo dei rom" non ha un suo stato ...
A - Sì, non ha uno stato che lo rappresenti. I rom sono una minoranza dispersa, che assume la nazionalità dello stato dove vive. Ciò significa che geopoliticamente non sono un unico corpo. Per questo motivo è stata negata la loro cultura e non sono stati riconosciuti in Italia come minoranza linguistica..
Un'altra leggenda metropolitana è che sono così diversi fra loro che non comunicano. Una zingara mi disse che il popolo rom è come una mano che ha cinque dita, ma la mano è unica: anche il popolo dei rom è un unico popolo.
Piasere, un grande antropologo degli zingari, di loro ha detto che sono "Un mondo di mondi".
Le sfaccettature sono innegabili ma, come ho detto all'inizio, insistere a guardare il fatto che fra loro sono diversi non serve. Per esempio non c'è niente di più diverso del gitano spagnolo e del rom romeno, ma, alla fin fine, sono molto più simili fra loro che il rom rumeno con il suo vicino di casa.


 
Fotografia di Jurij Razza



M - E parlano la stessa lingua?
A  - Avevano un'unica lingua, adesso hanno tanti dialetti ma con un fondo comune che gli permette di capirsi. Se un gruppo di italiani si spostasse in un'altra parte del mondo manterrebbe un po' della lingua italiana - il nome della famiglia, di Dio, della religione - e per il resto imparerebbe la lingua del paese ospitante. Il "pezzo" di italiano rimasto servirebbe al gruppo per capirsi con il resto degli italiani nel mondo.

M - Possiamo paragonare la varietà della lingua fra i rom con la varietà dei nostri dialetti?
A - Sì, ma c'è una considerazione importante da fare, che riguarda i rapporti numerici. Mi spiego: ci sono, supponiamo 100 dialetti zingari, ma di questi 99 sono parlati da due persone; l'altro è parlato da 10 milioni di persone. Nella realtà il rapporto fra sinti e rom (quelli che all'inizio per non confonderci abbiamo definito rom -rom) è 1 a 100: gli zingari hanno 100 dialetti ma la stragrande maggioranza ne parla uno o due.

M -La caduta dei regimi comunisti e, in seguito, le guerre della ex Jugoslavia hanno mutato, mi sembra, le caratteristiche della presenza degli zingari in Italia. Puoi, a grandi linee, farci capire cos' è successo?
A - L'immigrazione di questi ultimi anni - e parlo di immigrazione, non di "invasione"come dicono molti - è la terza grande immigrazione del popolo rom.
Molto brevemente . La prima è stata quella del 1400, e ha interessato tutta l'Europa: a Bologna si segnalano i primi zingari nel 1422, in Germania nel 1414.
Prima di allora gli zingari non si sapeva neanche chi fossero. I luoghi di provenienza erano i paesi Balcanici, la Romania e la Turchia.
Il fenomeno crea i disagi per le popolazioni, nascono i primi pregiudizi, e cominciano a essere emanate le prime leggi di oppressione. Ognuno aveva i suoi nomadi e cercava di cacciarli: a picchiare duro era la Francia? gli zingari si spostavano in Germania. Questa cominciava a reprimere? Si spostavano in Italia, e così via. Tra il 1400 e il 1800 l'Europa ha visto sempre una migrazione degli zingari al suo interno.

M - Questa è la prima migrazione?
A - Sì. Verso la metà dell'ottocento, quando si era creato un certo equilibrio all'interno dei vari stati, avviene la seconda migrazione.

M - Si sa quale sia stato il fatto storico scatenante?
A - Sì. Intorno al 1856 avviene la liberazione degli schiavi in Romania, e in tutta quell' area geografica: Valacchia, Transilvania, Bessarabia, Moldavia.  Vale a dire il serbatoio dei rom, dove ne vivevano a centinaia di migliaia.
A Milano si hanno le prime avvisaglie di questo esodo negli anni sessanta: il giornale "La tribuna illustrata", mi sembra, nel 1868 pubblica  un bel articolo con una fotografia di un attendamento di nomadi a Milano, a Porta Ticinese: "Zingari a Milano".
Un accampamento con grandi tende,  carretti con cavalli. Erano zingari rumeni, transilvani alti con capelli lunghi e i costumi da zingari ungheresi: anelli, un cappellaccio e, soprattutto, un gilè con bottoni d'oro, tipo i giannizzeri, i cavalieri ungheresi.
Il cronista scriveva: "ah, questa razza così naturale, così fiera Begli esemplari  umani eccetera ... "
Comunque questi nuovi arrivi creano un squilibrio nell'assetto che ormai si era creato fra i vari stati con i rom presenti fin dalla prima immigrazione. Se con questi ultimi ormai si cercava di convivere, i nuovi venivano invece respinti ( o è meglio dire che si tentava inutilmente di respingerli).

M - Possiamo quindi datare la seconda immigrazioni verso la metà dell'ottocento
A - Sì, il suo inizio, perché proseguirà anche nei decenni successivi, con una forte accentuazione alla fine del secolo e allo scoppio della prima guerra mondiale.
Dobbiamo poi fare un salto fino agli anni sessanta, settanta del ventesimo secolo. Gli anni in cui nasce Opera Nomadi che riesce ottenere quelle cose di cui abbiamo parlato prima (scuola, campi eccetera)

M - Terza migrazione ...
A - Esatto, a questo punto arriva la terza migrazione che scombussola ancora una volta l'equilibrio in atto.
Siamo alla fine degli anni sessanta. I primi ad arrivare sono bosniaci musulmani

M - Perché alla fine degli anni sessanta?
A - Perché cominciava il progresso qui da noi e, di là i primi che hanno capito han mangiato la foglia e sono venuti in Italia: gli Alilovich e Metalovich.
Poi, con le guerre dei Balcani sono arrivati i kosovari e i macedoni e, dopo la caduta dei Ceausescu in Romania, sono apparsi i rom romeni.

M - Cosa ha significato tutto questo?
A - Che hanno squilibrato ancora una volta l'assetto che, bene o male, si stava creando. I numeri sono pochi però se negli anni sessanta si erano fatte politiche di integrazione scolastica, di campi nomadi ( "famigerati" fin che vuoi, ma quasi tutti i rom vivevano nei campi), di assistenza sanitaria, con i nuovi arrivi tutta la costruzione crolla. Cavolo, arrivano i bosniaci che gridano "Campo, campo, vogliamo campo! Lavoro vogliamo lavoro!" Finiti i bosniaci arrivano i kosovari , poi i romeni. E allora riunioni su riunioni, problemi su problemi. Capisci cosa è stato che ha fatto saltare le cervella agli amministratori? Che  non hanno tutta colpa; non è che gli amministratori siano stati così boia. Io ho seguito la situazione di Milano: sai quante riunioni? Quanto è stato fatto per il lavoro, per la scuola per i campi? Per portare l'acqua, la luce, fare i giardinetti, fare le pulizia, mettere su baracche?. Poi anche i "nostri" zingari aumentavano perché sono prolifici: facevi il campo per 100 persone e dopo diventano 250 e gli amministratori sono impazziti.
Questo è successo in questi anni.

M - Un'ultima domanda. A chi, come te in cerca di popolarità, volesse instaurare un contatto più diretto con gli zingari, cosa consiglieresti?
A - Nessuna velleità assistenziale, ma rapporto umano con l'intento di conoscere il loro modo di vita e la loro visione della vita. Gli zingari, i Rom non sono terra di missione.

* Le fotografie di Jurij Razza sono state scattate a Roma, al campo Casilino 700, nel 1999. Ringrazio Jurij per aver acconsentito alla pubblicazione. M. B.
 


NOTE
(1) Angelo Arlati, Porrajmós e samudaripen, Divoramento e Genocidio . L'olocausto del popolo zingaro, Comitato per il Sessantennale della liberazione dal nazifascismo, 2005, Cornate d'Adda
(2) Angelo Arlati, La lingua dei Rom, Rivista Anarchica, anno 42 n. 9, Dicembre2012/gennaio2013
(3) Angelo Arlati, La più antica rappresentazione iconografica degli zingari, Rom-Sinto, n.15, novembre 2012
(4) "Dom significa uomini e deriva dalla radice indoeuropea gdhom, da cui derivano il latino homo "uomo" e humus "terra", il greco ???? "terra", il sanscrito kshas "terra", l'irlandese duine "uomini", Angelo Arlati, la lingua dei rom, op. cit
(5) I rom Harvati sono giunti in Italia dalla Jugoslavia dopo la seconda guerra mondiale. Erano circa 7000 persone (http://it.wikipedia.org/wiki/Zingari)

"DIEDE ALLA LUCE IL SUO FIGLIO PRIMOGENITO, LO AVVOLSE IN FASCE E LO DEPOSE IN UNA MANGIATOIA, PERCHE' NON C'ERA POSTO PER LORO NELL'ALBERGO" (Lc 2,7)

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Verderio Superiore


Verderio Inferiore
Fotografie di Angelo Arlati

FAUSTA FINZI 1920/2013

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foto Cavallari

























Il 25 giugno scorso è morta all’ospedale di Vimercate, dove era ricoverata da qualche giorno, la signora Fausta Finzi. Nata a Milano l’11 giugno 1920, era figlia di padre ebreo, Edgardo, e di madre cattolica, Giulia Robiati.
Il 22 aprile 1944, soldati tedeschi arrestarono lei e il padre presso la loro piccola azienda chimica. Prigionieri, prima a San Vittore e poi al campo di concentramento di Fossoli, partirono insieme, alla fine di luglio, per la Germania: il padre Edgardo finì ad Auschwitz, dove fu assassinato, prima di essere ammesso al campo, il 6 agosto 1944.
La signora Fausta rimase invece prigioniera nel campo di Ravensbrück per 265 giorni, fino al 27 aprile 1945. Da quel giorno dovranno passare ancora 4 mesi, trascorsi per lo più camminando con altre migliaia di prigionieri per le strade dell'Europa distrutta dalla guerra, prima di poter giungere a Milano, il 31 agosto, a riabracciare la mamma. 



FAUSTA FINZI RACCONTA: UN'INTERVISTA DI JURIJ RAZZA
 

Fausta Finzi, salvo che per uno stretto numero di conoscenti, ha mantenuto il silenzio su questa tragica parte della sua esistenza, per quasi tutto il resto della vita. Solo nel 2001, alla prima “Giornata della Memoria”, ne parlò in pubblico. Quella volta però non lo volle fare direttamente, ma attraverso un’intervista filmata, che fu realizzata da Jurij Razza, obiettore di coscienza in servizio civile presso il comune di Verderio Superiore. L’intervista fu proiettata nella palestra della scuola elementare intercomunale di Verderio, il 27 gennaio 2001.
La potete vedere ed ascoltare  cliccando su questo indirizzo:







IL RICORDO DI UN AMICO, FEDERICO BARIO

Negli anni successivi al 2001, la signora Fausta ha raccontato la vicenda sua e di suo papà in diverse occasioni pubbliche, invitata da comuni, scuole, radio e televisioni.
In collaborazione con due amici, Marilinda Rocca e Federico Bario, ha dato alle stampe anche due libri: “Varcare la soglia” e “A riveder le stelle”.




 























Il 27 Gennaio 2013, Giorno della Memoria, Fausta Finzi non aveva già più le forze per raccontare la sua storia. Federico Bario l’ha però ricordata sulle colonne de”La Gazzetta di Lecco” con questo articolo.


UN RICORDO DI FAUSTA FINZI di Federico Bario


Il 31 gennaio 2005 gli studenti dell'Istituto di Istruzione Superiore Giovanni Bertacchi, accompagnati dai referenti delle attività studentesche Elisabetta Rusconi e Giovanni Valsecchi, si recarono ad un doppio appuntamento presso il cine-teatro Nuovo di Lecco per celebrare  la Giornata della Memoria. Erano più di mille gli studenti che, per un giorno, fecero di nuovo grande il vecchio cinema.
Nel corso della mattinata era prevista l'orazione civile “Dio delle ceneri” da me ideata, e interpretata dalla mia voce troppo bassa; ma a sostenere ritmo e tenore con me c'erano Mirella Morelli, l'altra voce narrante e il canto, Giovanni Ripamonti alle tastiere, Luigi Crippa al contrabbasso e Marilinda Rocca che scelse le video-immagini a commento del testo. E poi l'incontro con Fausta Finzi. Fausta: milanese, ebrea, classe 1920, sopravvissuta alla prigionia nel campo di concentramento di Ravensbrück. Fausta, amica e autrice dei volumi di memorie “Varcare la soglia” ILSMLEC, Lecco 2003, e di “A riveder le stelle”, Gaspari, Udine 2006, con prefazione dello storico Frediano Sessi (entrambi i volumi sono curati da me e Marilinda Rocca).
I ragazzi erano stati ben preparati all'evento. La loro attenzione ci permise di dare il meglio nel recital. E fu in un silenzio pregno di rispetto e interesse che venne accolta la testimonianza di Fausta Finzi: il narrato semplice e chiaro, dotato di una pungente ironia che è la sua cifra del dialogare - anche nel riferire le vicende più atroci che hanno segnato la sua esistenza.
Venne il momento di rispondere alle domande che gli studenti avevano preparato, e di quelle nate li, indotte dal racconto di Fausta. Una domanda più bella dell'altra, pensai. Quesiti intelligenti, che non si fermavano neppure di fronte al fatto di chiedere, senza alcuna morbosità, degli aspetti più imbarazzanti che costituivano la parte più oscura della storia dei lager. O di quelli “tecnici” che regolavano la vita quotidiana dei deportati.
 

 
foto Cavallari




Fausta era tranquilla, a suo agio nel dare spiegazioni esaustive alle richieste dei ragazzi, permettendosi talvolta un commento ironico di alleggerimento, un sorriso, un istante di riflessione. La sua figura minuta, seduta su una seggiola di fronte all'assemblea degli studenti nella grande sala, irradiava una forza pacificante.
Ma il tempo dell'incontro volgeva al termine, e tante domande rischiavano di rimanere delle “pratiche inevase”. Ed ecco che Fausta, con quella generosità di cui è maestra quando si tratta di mettere un po' di luce in quel tetro universo che ha attraversato, chiese ai ragazzi di consegnarle le domande scritte su fogli e biglietti: lei avrebbe risposto per iscritto, e poi inviato le risposte all'Istituto Bertacchi perché venissero consegnate ai ragazzi.
Un fatto unico, eccezionale, che mi piace ricordare qui, ora.
Perché la Giornata della Memoria 2013 non sia relegata in quell'ambito di doverose ma ormai smorte celebrazioni.
Ora che la memoria “Si è accomodata nel salotto buono, sta tranquilla, e fa polvere...” come ha recentemente scritto lo storico Walter Bidussa “e rischia di diventare come l'enciclopedia: la consulti solo per sapere cos'è successo, e poi la metti via, come fosse un lemma o un tomo ingombrante. (…) Un esercizio mnemonico più che acquisizione della coscienza. Una memoria dal fiato corto.”
Io dico che sono i giovani oggi che possono prendere il testimone.
A loro l'onore e l'onere di tener vivo l'esercizio della memoria senza la quale l'essere umano è di fatto uno schiavo.

Federico Bario, scritto in occasione della Giornata della memoria 2013. 

Pubblicato da "LA GAZZETTA DI LECCO"


FAUSTA FINZI IN QUESTO BLOG


In alcune occasioni la signora Fausta ha collaborato con questo blog. Ecco l'elenco dei suoi contributi.

14 gennaio 2010:
 
- MI CHIAMO FAUSTA FINZI ....(etich. Giorno della Memoria)
- MIO PADRE, EDGARDO FINZI (etich. Giorno della Memoria)

21 aprile 2010:

LEOPOLDO GASPAROTTO IN UNA TESTIMONIANZA DI FAUSTA FINZI (etich. Regime Fascista e Liberazione)

27 gennaio 2011

- PERCHE' SCRIVERE DELLA PROPRIA VITA IN COSì TARDA ETA'
 
 


 





STREET ART ALLA GALLERIA DEL MELGONE: PRIMA SERIE di Marco Bartesaghi

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La galleria del Melgone è l'antica galleria, ora abbandonata, della Strada Statale 583 che da Lecco conduce a Bellagio. la si raggiunge deviando a destra (direzione indicata: Moregallo) all'uscita della prima delle "nuove" gallerie. Questa prima serie di immagini comprende le opre che mi sono sembrate più significative e che sono state realizzate all'interno della galleria. Alcuni disegni sono firmati "Tenia", un autore gìa presente in questo blog: puoi trovare i suoi disegni sotto l'etichetta"graffiti, alle date 12/8/2011 e 11/2/2012.






















BARZANÒ: UNO SCIOPERO OPERAIO DEL 1927 di Anselmo Brambilla

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Il 3 novembre 1927 le maestranze del cotonificio Figliodoni di Barzanò, 560 lavoratori, scendono in sciopero di protesta contro la diminuzione dei salari voluta dal Governo fascista. Dopo alcune ore, verso le 11,50, riprendono il lavoro senza nessun incidente. Il fatto tiene in agitazione per diverso tempo le autorità, a cominciare dal Prefetto, e provocano l'intervento massiccio dei carabinieri. I documenti che riguardano questo fatto, e che qui sinteticamente presento, sono conservati all'Archivio di Stato di Como (1).

Una delle prime cartoline illustrate con il panorama del paese (data approssimata 1919)
 

* Il 7 novembre 1927, un fonogramma del Commissario di Pubblica Sicurezza D'Amato al Capo della polizia recita: "i lavoratori riprendono il lavoro "incondizionatamente" fiduciosi nei provvedimenti delle Autorità".
 

* Due lavoratori, Giovanni Rigamonti e Rinaldo Riva, ritenuti i capi e gli organizzatori dello sciopero, vengono arrestati. IL 29 novembre, con lettera riservata al Prefetto di Como, il Ministero dell'Interno, chiede di indagare sull'attività politica precedentemente svolta dai due, e sull'esito del procedimento penale in atto contro di loro per la questione  dello sciopero.
 

* I due arrestati, rinchiusi nelle carceri di Lecco per il reato di istigazione allo sciopero, "godono" di particolari attenzioni da parte della Questura, che decide di ignorare la sentenza dell'autorità giudiziaria che concedeva loro la libertà provvisoria.
 

* Ciò avviene anche grazie al parere del Capitano dei carabinieri, secondo il quale se anche i due arrestati fossero stati trattenuti ulteriormente in prigione, i lavoratori non avrebbero fatto niente per chiedere la loro liberazione. Il Capitano aveva fatto notare però che un atto di indulgenza, come il rilascio dei due in giornata con diffida scritta, avrebbe prodotto una buona predisposizione nella popolazione e nei lavoratori.
 

* Oltre alle forze dell'ordine, ribadisce il commissario, anche i Sindacati e il fiduciario del Fascio si erano espressi favorevolmente alla concessione di indulgenza verso i due ribelli.
 

* I due arrestati, una volta rilasciati, riprendono regolarmente il lavoro, presentandosi puntualmente alle 8 del mattino davanti allo stabilimento, come certificato dal Capitano dei CC RR Alfredo Gatti al questore e al prefetto di Como.




 
Un angolo della piazza con in primo piano l'antico albergo Redaelli e il negozio del salumificio Beretta (1921)


* In un telegramma, il giorno 5, il questore Mara chiede al tenente dei carabinieri in missione a Barzanò di non lasciare in libertà i due arrestati, almeno fino alla fine dell'agitazione, e di informarlo se e quando gli operai fossero rientrati al lavoro.
 

* In base ad una lettera del 16 novembre 1927, un ufficiale di pubblica sicurezza trasmette al Questore di Como la comunicazioni da lui inviata al Commissario di pubblica sicurezza dove si evidenzia che i "due arrestati dovevano rimanere detenuti fino al nuovo ordine della Questura e non che sarebbero stati messi immancabilmente in libertà ad agitazione finita" aggiungeva arrogantemente che tale interpretazione non poteva essere dubbia, sia per le precedenti intese con il Tenente dei Reali Carabinieri, sia perché non era concepibile che l'Autorità dovesse subordinare le proprie determinazioni alla volontà degli operai".
 

* In data 16 dicembre 1927 il comando della stazione dei CC RR di Barzanò trasmette una memoria al comando della Legione dei CC RR di Milano, Divisione di Como, dove si evidenzia che, oltre ai due arrestati, per "l'astensione dal lavoro" (parlare di sciopero era proibito) erano state denunciate altre dieci persone:
Annoni Edoardo di Luigi
Baggioli Emilia di Felice
Colombo Giulia fu Enrico
Frigerio Orsola di Carlo
Perego Ida di Alessandro
Perego Angela di Alessandro
Pirovano Maria di Fortunato
Pirovano Maria di Santo
Proserpio Rosa di Luigi
Redaelli Emma fu Primo
Vigano Emilia di Francesco
Villa Maria di Carlo

Tutti i denunciati risultarono di buona condotta morale e soprattutto politica, ad eccezione di Maria Villa di Carlo e di Giuseppina Dell'Orto nata a Seregno l'8 agosto 1901 in quanto appartenente ad una famiglia nota per i sentimenti antinazionali (cioè antifascisti) dei suoi componenti, inoltre la suddetta era anche cognata del sobillatore Rigamonti Giovanni.
 

* Dopo l'arresto del cognato la Villa istiga le compagne a non riprendere il lavoro ma a continuare lo sciopero anche per far liberare gli arrestati. La direzione dello stabilimento dichiara che la Villa è un'ottima operaia e che non ha mai manifestato , al contrario della sua famiglia, idee antinazionali, e quindi chiedono ai carabinieri di non prendere misure contro di lei, tenendo conto anche del fatto che entro pochi mesi tornerà nella sua famiglia al paese di origine Seregno.
 

 
Cartolina illustrata del centro di Barzanò con la piazza del paese, che dopo il 1945 verrà dedicata alla memoria dei fratelli Besana (1925)


* La responsabilità dello sciopero viene quindi attribuita al solo Rigamonti, persona di idee sovversive e antinazionali ma con forte ascendente sulle maestranze. Indicato come persona capace di commettere ogni genere di crimine - nel 1919 condannato per furto, nel 1924 arrestato a Barzago per oltraggio e resistenza alla forza pubblica, ecc - viene definito persona politicamente molto pericolosa.
 

* Intervento della Confederazione Nazionale dei Sindacati Fascisti, che cerca di convincere gli operai e la ditta a trovare un accordo in base alle leggi e dichiara che la ditta, anche con le riduzioni di salario stabilite, applicava tariffe troppo alte rispetto ad altre ditte similari e che, continuando in tal modo, avrebbe pregiudicato la possibilità di lavorare nei mesi da luglio a ottobre.
 

* I sindacati obiettano che la sola riduzione di salario applicabile dalla ditta è quella stabilita a livello di categoria per i cotonieri a livello nazionale, e pertanto non è consentito alla azienda fare accordi diversi con gli operai. Quindi, se le maestranze rifiutano l'accordo proposto, l'azienda deve limitarsi ad applicare quanto stabilito dagli accordi generali nazionale lettera del 15 novembre 1927 del Segretari Generale di Como Ugo Clavenzani.
 

* L'azienda dal primo giugno del corrente anno aveva eliminato, in base all'accordo nazionale stipulato fra gli industriali del settore e i sindacati fascisti, la quota fissa di carovita consistente in lire 1,50 per le donne e lire 2 per gli uomini.
 

* Il mese di luglio aveva, a motivo di indisponibilità, applicato con il consenso di una commissione operaia, una ulteriore riduzione variabile da articolo ad articolo del cottimo tra il 5 e il 25%, con la promessa da parte dell'azienda Figliodoni che questa ulteriore riduzione della paga sarebbe stata assorbita qualora vi fossero stati altre decurtazioni di salario a livello nazionale.
 

* Coll'accordo nazionale del 27 ottobre 1927 si concordò fra le parti, industriali e Sindacati un'ulteriore riduzione del supplemento carovita del 25% pari al 12,5% sulla paga globale. La ditta applica integralmente la riduzione, senza tener conto della quota già applicata e della promessa fatta alla commissione operaia, che aveva cercato di venire incontro alle difficoltà dell'azienda, con grave pregiudizio della situazione economica dei lavoratori che si vedevano decurtato il salario di una forte percentuale.
 

* Dopo aspro dibattito fra la federazione sindacale fascista di Como e l'Unione Industriali di Monza e della Brianza si ottenne l'eliminazione di parte dell'arbitraria riduzione di paga applicata dall'azienda stabilendo un'aliquota del 10% invece che del 25% stabilito a livello nazionale e applicato integralmente dall'azienda.
 

 
La casa del fascio, inaugurata nel 1932. Da notare la scritta sotto la foto, corretta in "Casa del Popolo, dopo il 1945


* Il sindacalista chiude la lettera al prefetto di Como sulla vertenza ribadendo che l'accordo aveva soddisfatto parte delle maestranze, anche se non era stato possibile ottenere tutto quanto i lavoratori, con grande spirito di collaborazione, avevano ceduto (2).

Testo dell'accordo siglato il 15 ottobre1927 

Oggi 13/11/1927 VI° - Nella sede dell'Unione industriale Fascista della Provincia di Como tra l'Unione Industriale Fascista di Monza e Brianza rappresentata per delega dal direttore dottor Mario Riboldi  assistito dal signor Commendatore Mario Figliodoni, per la spettabile ditta SPA: fratelli Figliodoni di Barzanò e l'Ufficio Provinciale  dei sindacati Fascisti di Como rappresentato dal signor ragioniere Ugo Clavenzani dal segretario del sindacato tessili signor ragioniere Luigi Severgnini ed il fiduciario della zona di Barzanò, assistiti da una commissione operaia in rappresentanza della maestranza della ditta stessa.
Presi in esame la questione in corso presso la ditta medesima, dopo lunghe discussioni e definizione completa della questione si conviene quanto appresso: Sulle tariffe in corso sulla tessitura ed orditura il caro viveri sarà applicato nella misura del 90% e ciò a decorrere dal 27 ottobre corrente anno.
Le organizzazioni si riservano di stendere regolare verbale di accordo debitamente motivato, da scambiarsi per le firme.
Firmato: Riboldi Mario,  Ugo Clavenzani,  Luigi Severgnini.


* I carabinieri di Lecco, per intervenire il più celermente a Barzanò, sono obbligati, ad affittare degli automezzi da una ditta privata, come risulta da una lettera del comandante della divisione di Como, a firma capitano Liberati Serafino, al prefetto per autorizzazione della spesa sostenuta dalla Tenenza di Lecco del 18 novembre1927.
 

* Anche il Ministero delle Corporazioni si interessa alla causa Figliodoni, inviando in data 14 novembre1927 una lettera al prefetto con la richiesta di informazione sulla vertenza in atto e sulla eventuale chiusura della stessa.
 

* Solita richiesta di autorizzazione al prefetto da parte del capitano Liberati Serafino per le spese sostenute per i viaggi e relativi pernottamenti a Barzanò del Capitano Alfredo Gatti nei giorni 5/6/7/ e 8 novembre in occasione del noto sciopero maestranze Figliodoni


NOTE
(1) Archivio Storico di Stato Como – ASCO – Fondo sottoprefettura – II° versamento – Cartella 191
(2) Archivio Storico di Stato Como – ASCO – Fondo sottoprefettura – II° versamento – Cartella 191

Anselmo Brambilla

* Immagini tratte dal "museo virtuale" del sito di Enrico Sprea:

GUGLIELMO MARIOTTI, MUSICISTA E LIUTAIO di Marco Bartesaghi

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Sara e Guglielmo









Guglielmo Mariotti, nato a Roma ma abitante a Verderio Inferiore in “Cùrt di Scarsitt”, è musicista e liutaio.

Le due attività hanno avuto fino a poco tempo fa lo stesso peso. Ora prevale la seconda, che svolge in società con la moglie Sara Pirovano, poiché, per la prossima nascita del primo figlio, ha deciso di ridimensionare l’impegno musicale, che lo teneva lontano da casa gran parte della settimana, e quindi di lasciare la band con cui suonava in modo più continuativo.
Si è avvicinato alla musica nel 1989, a 15 anni, dopo le scuole medie, studiandola da solo, da autodidatta. Il suo strumento principale è il basso elettrico, ma suona anche le chitarre, a sei e dodici corde, e la tastiera, che, mi dice, suona “con i piedi”. Sto già chiedendomi perché, se per quest’ ultima non si sente portato, non l’ abbandoni, che lui si spiega meglio. Suona, con i piedi appunto, uno strumento, il “bass pedal”, che, riproducendo la pedaliera dell’organo da chiesa, gli permette, nelle canzoni in cui usa la chitarra, di suonare contemporaneamente anche il basso. Era uno strumento usato dai Genesis negli anni settanta, che lui ha adottato.
 

 
Guglielmo durante le prove di un concerto


“Sono il tipo di musicista– mi racconta - che sale sul palco con il basso e la chitarra in un unico strumento a due manici, con il “bass pedal”e con il microfono, perché sono anche cantante”.
Sono incompetente, ma non posso non pensare che, per il gruppo che ha lasciato, il suo abbandono sia stata una sciagura.
Erano i “The Watch”, la più accreditata cover band dei Genesis (“periodo Peter Gabriel, Phil Collins: rock progressivo,. …” precisa) che ci sia in Europa, secondi solo ai “Musical box”, canadesi.
 

 
Locandina di concerto dei "The Watch"



Gli esordi sono stati però con i piccoli gruppi musicali di Morlupo, il paese a trenta chilometri da Roma dove ha vissuto fino a 33 anni. 
“Intrippatosi” per il rock progressivo anni settanta, ha in seguito abbandonato la dimensione locale, per frequentare le band della capitale, avvicinandosi man mano al professionismo e riuscendo ad incidere 3 dischi, il primo nel 2002, con la band dei “Taproban”




 
Posidonian Fields (2006)



Ogni pensiero vola (2002)
 
Outside Nowhere (2004)














 
Tutti risultati conquistati non senza fatica, perché Guglielmo, per quasi quindici anni, fino al 2008, ha affiancato all’attività musicale quella di imbianchino.
Oltre ad aver fatto parte del gruppo “The Watch”, Guglielmo è stato coinvolto, e ancora collabora, con il “Classic ELP tribute” (tributo a Emerson, Lake & Palmer), con un tributo ai primi King Crimson e un altro ai Marillion.

Traguardo importante della sua carriera musicale è stato suonare, nell’autunno del 2012, in tre concerti dello storico gruppo italiano de “Le Orme”, in sostituzione del loro bassista, un amico a cui aveva costruito lo strumento.
 







L’attività di liutaio, indirizzata verso la costruzione di strumenti elettrici, inizia per gioco, quando insieme a un amico decidono di costruire una chitarra. Ne distruggono una da pochi soldi, per scoprire i segreti che nessun liutaio voleva loro rivelare, e forti della sua esperienza nella lavorazione del legno, acquisita facendo apprendistato in famiglia, dove la falegnameria è una tradizione che si tramanda, e forti anche delle capacità artistiche dell’amico, diplomato all’Istituto d’Arte, fanno i primi tentativi. È autodidatta anche in questo campo, salvo un breve periodo di collaborazione con un liutaio di Roma, dal quale ha imparato alcune regole per sveltire il lavoro e scegliere i legni più adatti.
Iniziata nel 1996, rimasta quasi un hobby fino al 2010, ora che la liuteria è diventata l’attività principale della famiglia, Guglielmo e Sara stanno cercando di dare una fisionomia più precisa all’azienda. In questa prima fase si dedicheranno più alla produzione di “bassi elettrici”che a quella di chitarre. In laboratorio stanno prendendo forma alcuni strumenti che serviranno da campionario, da proporre al pubblico soprattutto attraverso Internet. e facebook.
Ma il loro desiderio è continuare, il più possibile, con una tradizione collaudata in questi anni di esordio: stabilire un rapporto personale con il cliente, quando possibile disegnare e progettare lo strumento in sua presenza, invitarlo ancora un paio di volte a verificare l’avanzamento del lavoro. Sentendoli mi viene in mente il lavoro del sarto, con le prove e i ritocchi prima della consegna del vestito, e in questa immagine anche loro si ritrovano.
Questa procedura è più difficile da attuare quando il cliente vive lontano, ma non impossibile grazie all’uso di face book. “Per ora” – mi racconta – “la più grande soddisfazione è stata quella di consegnare uno strumento a doppio manico ad una ragazza belga, che me lo aveva ordinato dopo avermi sentito in un concerto in Belgio. Gliel’ho consegnato che era incinta al sesto mese e, quando lo ha provato appoggiandolo sulla pancia, ha detto “È esattamente quello che volevo”. L’avevamo progettato e discusso tutto su face book. Lei non è mai venuta in laboratorio: mi ha detto quello che voleva in linea di massima. Le mandavo i disegni e le fotografie man mano che il lavoro cresceva. – Ma finché non ha avuto modo di provarlo e di averlo fra le mani finito … “

 
"Bassi" in costruzione

Su suggerimento anche di alcuni negozianti con cui sono in contatto, hanno deciso di puntare per il momento su una produzione di qualità medio alta, che giustifichi la scelta economicamente più impegnativa di rivolgersi a un prodotto artigianale piuttosto che a uno industriale. La proposta di una linea più economica potrebbe eventualmente essere adottata in un secondo tempo.
Lo spazio dedicato alle riparazioni è importante, nell’economia della ditta, sia per creare una rete di clienti che, prima o poi, potrebbero essere interessati all’acquisto di uno strumento nuovo e di qualità, sia per aver accesso al mondo delle scuole di musica.

 




Guglielmo, con il suo lavoro, ha un rapporto “intimo”, è lui che lo dice. Nel suo piccolo laboratorio, una falegnameria in miniatura, ti fa entrare, ti fa vedere quello che sta facendo, risponde a tutte le tue domande ma, finché sei lì, non lavora. Si interrompe anche quando entra Sara: “Ho fatto per una vita un lavoro che non mi piaceva, anche se mi riusciva bene, l’imbianchino. Adesso che ne faccio uno che mi piace è come se fossi un po’ autistico: me ne devo stare da solo, con i miei pensieri, i miei discorsi, le mie musiche (quando non ci sono i macchinari accesi). È “il mio lavoro” …”
Ogni strumento che costruisce è un pezzo unico: non usa frese programmabili con il computer, che tagliano le forme ogni volta nello stesso identico modo. Usa dime di cartone e le sue chitarre che taglia a macchina ma poi rifinisce con la lima e con la carta vetrata (“Toccare il manico di una chitarra elettrica prima della prima mano di vernice è come toccare la pelle di una donna nuda”), non si sovrappongono mai perfettamente.
L’uso di vari tipi di legno e l’utilizzo di diverse elettroniche, per le quali è in contatto con un artigiano tedesco conosciuto tramite il bassista de “Le Orme”, gli permettono di avere strumenti in grado di soddisfare le molteplici esigenze dei musicisti.

“Mariotti guitars” sarà il marchio dei suoi futuri prodotti. Importante per un liutaio elettrico è quello di agganciare personaggi celebri in ambito musicale, che portino in giro e facciano conoscere il suo marchio: anni di frequentazione dell’ambiente dovrebbero essere un buon viatico per la nascente impresa

La nascita del figlio, prevista per settembre, e lo sviluppo della piccola azienda artigianale sono due impegni di certo non indifferenti, ma che non bastano per far dimenticare a Guglielmo la passione per la musica suonata.

In questo ambito ha già due obiettivi precisi.
Il primo è quello di pubblicare nel 2014 un primo disco da solista, con sue musiche composte in questi anni e praticamente inedite (recentemente, come solista appunto, ha fatto il suo debutto al “Bloom” di Mezzago).
 

L’altro obiettivo è comporre un ‘opera rock su san Francesco, da scrivere in collaborazione con un frate francescano, appassionato spettatore, a volte con il saio e altre volte no, dei concerti di rock progressivo, tanto da essere soprannominato“frate Prog”. Da questa insolita collaborazione fra un non credente, quale Guglielmo dice di essere, e un religioso, dovrebbe uscire un’opera presentabile sia nel mondo del rock - “dove siamo tutti dei senza Dio” - che negli ambienti del mondo cattolico.
Negli anni settanta un progetto simile era stato pensato, ma mai realizzato, dal Banco del Mutuo Soccorso. Non abbastanza efficace sembra invece a Guglielmo il risultato raggiunto su questo tema da Angelo Branduardi.

Ho un’ultima curiosità e chiedo: “come siete capitati a Verderio?”
“Cercavo casa e ho letto un’inserzione su internet. L’incontro con il padrone di casa, Giorgio Oggioni, è stato decisivo: ci siamo capiti subito. Poi ha contato molto anche la presenza di un caminetto e del soffitto con le travi di legno. Siamo stati adottati anche dal resto della corte: Rino, Daniela, Cesarina ci fanno setire in famiglia e, per me che vivo a seicento chilometri da quella vera, è stata una cosa importante.”



Marco Bartesaghi

LA CASCINA "MANGINA" di Giulio Oggioni

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Per completare le informazioni contenute nel testo di Marta Cattazzo, ho chiesto a Giulio Oggioni di scrivere quello che sa sulla piccola Cascina Mangina di Verderio Inferiore. Lo ringrazio. M.B.


LA CASCINA "MANGINA" di Giulio Oggioni

La piccola cascina “Mangina”, aveva altri due nomi: san Giorgio e“delle rose”. Si trova a Verderio Inferiore, alla fine di via IV Novembre.
 

La cascina Mangina


Non si conosce il primo proprietario. Si sa solo che la costruzione fu terminata nel 1923 e, come risulta dal rogito di Andrea Pirovano, il 23 dicembre 1926 fu venduta da un notaio a cinque famiglie: Pirovano, Stucchi, Mapelli, Frigerio e Sirtori.
Ogni famiglia aveva la cucina a pianterreno e le altre camere, al primo e al secondo piano, raggiungibili con  una scala in muratura posta sul lato sinistro della cascina e affacciavano ad un balcone con ringhiera in ferro.
Sul retro dell’edificio c'era un cascinotto che apparteneva alla famiglia Stucchi. Sul muro della cucina della famiglia Sirtori era dipinto un bellissimo angioletto.



Un'immagine della famiglia Pirovano
 

UN "ANGIOLETTO" ALLA CASCINA MANGINA di Marta Cattazzo

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LOCALITA' : Verderio Inferiore
UBICAZIONE : Cascina Mangina, via IV Novembre 25
ICONOGRAFIA : Angioletto o Cherubino
COLLOCAZIONE : sopra una porta, da terra cm. 220
DIMENSIONI : cm. 38 x 40
PROPRIETA‟ : le famiglie della cascina









Immagine originale (2001)





DESCRIZIONE
Questo angioletto dall‟aspetto non completo, è alquanto originale come iconografia. Infatti
non appare, come di consueto, alle spalle di qualche figura di valenza più importante, bensì è
l‟unico protagonista della scena. Mi sono interessata nel verificare se un tempo magari facesse
parte di una pittura più estesa, in realtà fu dipinto solamente questo riquadro.
Originale quindi nella scelta, ma anche nell‟esecuzione effettuata con l‟antica tecnica dello
spolvero: da un supporto cartaceo riproducente il disegno, precedentemente tracciato lungo i
bordi con una serie di fori, si ricalca l‟immagine mediante una tampone sporco di fuliggine,
ovvero si picchiettano i buchi lungo i margini della figura. In questo modo la povere passa
attraverso i fori rimanendo sull‟intonaco fresco. Quindi si prosegue ripassando i bordi con il
colore per poi proseguire con la decorazione interna.
Il pittore avrà avuto a disposizione poche tonalità cromatiche, inoltre era anche alquanto
incerto circa i delineamenti della figura. Tuttavia il risultato dalle caratteristiche naïf sembra
aver perseguito un intento preciso.






A MONZA, MOSTRA PERSONALE DI CARLA COLOMBO

IL PRIMO VOLANTINO DEL "COMITATO PER UN UNICO VERDERIO"

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**CLICCA SULL'IMMAGINE PER INGRANDIRLA

1-2 SETTEMBRE 1880. UN'ESCURSIONE AL PIZZO DEI TRE SIGNORI di Antonio Gnecchi Ruscone (prima parte)

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Antonio Gnecchi Ruscone




IL TESTO - Come racconto delle vacanza vi presento, in due puntate, questa cronaca su un'escursione al Pizzo dei Tre Signori, avvenuta l'1 e 2 settembre 1880, scritta da Antonio Gnecchi Ruscone e destinata al "Giornale di Famiglia". Questa versione è tratta da una minuta del testo, conservata presso l'Archivio Storico di Verderio.
L'autore, figlio di Giuseppe Gnecchi Ruscone e di Giuseppina Turati, al momento dell'impresa aveva 23 anni, essendo nato l'11 febbraio 1957.
Il testo, che oggi vi propongo con poche notizie di contorno, merita invece un approfondimento, riguardante i partecipanti - compresa la guida, il signor Magni -, il percorso, i luoghi citati e tante altre piccole curiosità. Mi riprometto di svolgere questo lavoro in un prossimo futuro e di ripresentare l"ESCURSIONE" con un maggior corredo di informazioni.
 

Un passaggio del racconto, seppure secondario per i protagonisti, è per me significativo perché evoca una parte importante della vita della mia famiglia. Prima della partenza, i quattro alpinisti si trovarono a Lecco, al Caffè delle Colonne, il locale dove, qualche decina d'anni più tardi, lavorò mio papà, Angelo Bartesaghi, come barista. Nel 1956 l'edificio che ospitava il bar, situato fra via Roma e piazza Garibaldi, venne abbattuto per lasciar posto al grattacielo del Credito Italiano. Mio papà acquistò allora, grazie all'aiuto degli ormai anziani proprietari del "Colonne", Giuseppina Balderacchi e Alessandro Beltramini, il Caffè Commercio, in piazza xx Settembre, vi trasferì il mobilio del locale soppresso, che tuttora arreda il bar, e trasformò il nome in Caffè Colonne Commercio.






LE IMMAGINI - In mancanza di immagini specifiche dell'escursione, ho pensato di corredare questa prima parte del testo con una serie di fotografie tratte da un album appartenuto a Giulia Robiati, dono prezioso che ho ricevuto anni fa dalla figlia, la signora Fausta Finzi. L'album raccoglie serie di fotografie relative in gran parte ad escursioni in montagna organizzate nei primi anni del XX, probabilmente dal CAI di Milano.


In questo blog puoi trovare:

sulla famiglia Gnecchi Ruscone:
LA FAMIGLIA GNECCHI RUSCONE A VERDERIO di Marco Bartesaghi . Pubblicato giovedì 23 settembre 2010

Su "Il Giornale di Famiglia":
DA VERDERIO A CISANO -NOTE DI UN ANTIQUARIO di Francesco Gnecchi Ruscone, 1882 - prima parte. Pubblicato sabato 30 maggio 2009

Sull' Archivio Storico di Verderio:
Alcuni articoli rintracciabili sotto l'etichetta "Archivio Storico di Verderio".



UN'ESCURSIONE AL "PIZZO DEI TRE SIGNORI" di Antonio Gnecchi Ruscone (prima parte)

La spedizione al Pizzo dei Tre Signori fu progettata fin dall'anno passato e la si fece un anno dopo e cioè nei giorni 1 e 2 settembre 1880. Di Pizzi dei Tre Signori ve ne saranno almeno una dozzina in Italia, occorre quindi sappiate che quello da noi prescelto è posto al di sopra di Morbegno e fa confine tra la Valtellina, la Valsassina e il bergamasco.
Dovevamo essere in numerosa compagnia ma come di solito, chi senza ragione o meglio chi per un'altra rimase a casa a dormire dei placidi sonni (e forse fu per il meglio) e quattro soli furono i campioni, i prodi alpinisti che gettando da un lato la pigrizia e sfidando i calori che, ben a ragione, possono ancora chiamarsi estivi, si accinsero all'ascesa. Erano Ticozzi Giovanni, promotore della gita, Brini Pietro, Formenti Pietro ed io.
Il 31 agosto, vigilia della partenza, ci trovammo tutti provenienti da diversi punti del globo terracqueo, al Caffè delle Colonne in Lecco a combinare l'itinerario del nostro viaggio etc. etc., a procurarci una carrozza che ci conducesse fino ad Introbio, giudicando inutile far due ore e più di cammino su di uno stradone dove ci può camminare qualunque tanghero ed inoltre già fatto le mille volte.
 




Terminato il congresso alpinistico ognuno andò pel fatto suo, che credo fosse per tutti il letto.
Avevo dato ordine di svegliarmi la mattina alle 6 e 1/2 ed invece con mia sorpresa svegliandomi vedo che le lancette del mio orologio segnavano già le 7. Che diamine sarà successo pensai tra me e me, e non fu se non dopo aver ben aperto gli occhi e raccapezzato le idee che potei ammettere la possibilità di un cattivo tempo. Apersi infatti le finestre e vidi tutto il cielo coperto di nubi poco promettenti e anzi qualche gocciolina cominciava a cadere.
Ma io, che quando fisso una cosa la voglio ad ogni costo, mi vestii in fretta da alpinista e, mentre scendevo le scale per uscire, sento una carrozza. Era l'amico Brini il quale, coraggioso al pari di me e fisso nelle sue idee, non aveva badato al tempo. Andammo così ambedue forniti di buona volontà in casa Ticozzi e trovammo Giovanni col cugino suo Formenti coi visi rivolti in su e con una cert'aria di scoraggiamento. Appena ci videro ci vennero incontro dicendo:  Per oggi bisogna rinunciare, piove certamente.
Ma che  - rispondemmo noi - siamo in ballo e bisogna ballare - del resto è domattina che saremo in cima al Pizzo, dunque non c'è da temere domani deve far bello.
Dalle nostre parole eloquenti furono persuasi, si montò in carrozza e in meno di due ore eravamo ad Introbbio. Mentre ci si preparava la colazione andammo a vedere la famosa cascata del Paradiso dei Cani, lontana un quarto d'ora e non più dal paese. Aveva piovuto moltissimo nei giorni addietro,  quindi la cascata si presentava nella sua massima bellezza ed anzi era fin troppo bella tanto che già alla distanza di un centinaio di metri alcuni minutissimi spruzzi ci venivano in faccia.. Un previdente raggio di sole aveva in quel momento fatto capolino dalle nuvole per mostrarci nel suo massimo splendore quello stupendo spettacolo di natura. Tutti i colori dell'iride vedevansi in quell'immensa massa di vapore acqueo che ora avanzavasi, aumentandosi spaventevolmente mossa dal vento, ed ora restringevasi avvicinandosi alla bianchissima [....].
Era, sotto ogni rapporto, impossibile il portarsi a pochi metri dal punto dove la cascata batteva in terra formando un piccolo laghetto, essendo sì immensa e fitta la nube di spruzzi d'acqua che non solo non si poteva vedere, e ci si bagnava come gettando tutto il corpo sott'acqua, ma non si poteva nemmeno respirare. Ad onta di tutto questo Brini ed io non potendo resistere a quell'incantevole spettacolo fummo tanto arditi da avvicinarci alla cascata in modo da fare un vero bagno, un vero rigagnolo ci scorreva [....] canaletto formato dalla tesa del cappello blu Effetto stupendo il respirare quell'aria così pregna d'acqua, tutto l'ossigeno entrando nei polmoni  metteva in corpo un'energia una [...] dall'allegria indescrivibile. Ciò è eminentemente igienico ed è una cura praticata da chi soffre di petto, con abbastanza buon esito (avverto però che noi non ne avevamo di bisogno). Ma il male si fu che in quella nuova atmosfera non vi potemmo rimanere che pochi minuti altrimenti ne saremmo annegati. È proprio vero che non c'è rosa senza spine.
Allontanati di là dovettimo asciugare ai raggi del compiacente Febo, che proprio in quel momento si era fatto vedere.
 



E dire che a ben pochi è noto questo paradiso dei cani! Se una simile cascata fosse in Isvizzera certo vi si fabbricherebbe vicino un grande albergo od uno stabilimento idiopatico, tutti i giornali ne parlerebbero e si vedrebbero accorrere forestieri da tutte le parti del mondo. Noi italiani, abituati a vivere nel nostro pezzo di cielo caduto in terra, non vi badiamo nemmeno e neppure ce ne curiamo. Come il bambino parla spesso prima una lingua straniera che la patria, come spesso il Milanese conosce prima il S. Pietro che le guglie del Duomo o la Trasfigurazione di Raffaello prima della Cena di Leonardo, così l'italiano prima di conoscere la bella nostra natura la va a cercare in lontane e straniere regioni. Vergogna!!
Fatto ritorno ad Introbio si mandò per una guida mentre ci si fece preparare la munizione da bocca pei due giorni che dovevamo passare in montagna. Ci venne presentato per guida un simpatico uomo un certo Magni, il quale poveretto, ebbe mozzo un braccio da una mina o da un mortaretto, non ricordo bene, e trovandosi così incapace a molti lavori prese a fare codesto mestiere per guadagnare il pane pe' suoi 4 o 5 figlioli e per la moglie (casomai andaste al Pizzo, ve lo consiglio, perché oltre ad essere pratico, forte e buon camminatore è anche molto onesto. Figuratevi che non ci cercò che 5 lire per giorno).
 




Ci munimmo dunque di quanto era necessario per un pranzo ed una colazione, fecimo porre nel gerlo solo 4 litri di vino avendo con noi molti liquori e piano piano si cominciò la grande salita. Eravamo tutti allegri, di buon umore, ci si prometteva una bella gita; il tempo solo sembrava mettersi a pioggia ma a questo filosoficamente non si badò pensando che nel mese di settembre quattro gocce non fanno mica male. Dopo una mezz'ora di cammino ci trovammo precisamente al di sopra della cascata del Paradiso dei Cani. Guardando in basso nella vallata che scende spaventosamente a picco vedevasi quell'immane massa d'acqua bianchissima precipitare e battere sulla roccia. Era bellissimo l'effetto, meno tetro e sorprendente che visto dal basso in alto. Se mi permettete una strana similitudine quella cascata vista dall'alto è come il sole che nasce , dal basso come il sole che tramonta: gli effetti sono diversi ma bellissimi ambedue. Non potemmo a meno che rimanere colà, estatici davanti a quello spettacolo per un quarto d'ora, ed anzi vi facemmo sopra un progetto per una gita possibile anche per donne poco alpiniste. Eccolo: venire ad Introbio in carrozza. Per antipasto recarsi al basso per vedere la cascata; poi colazione a Introbio, dove si hanno due buoni alberghi, e dopo per frutta vista delle cascate dall'alto. Finalmente [...] ritorno a Lecco ancora in carrozza.


Mentre si agitavano tali progetti si continuò a camminare per un paio d'ore sempre ascendendo però in mezzo a posti tanto ameni e deliziosi che non era possibile stancarsi.
Intanto il cielo si annuvolò completamente e l'acqua cominciò a cadere con poca gentilezza. Eravamo lontani un'ora da Biandino, dove dovevamo secondo il primo nostro progetto passare la notte, quindi accelerammo il passo per bagnarci il meno possibile, ma fu ben inutile ché giungevamo in Biandino con uno splendido sole. È Biandino un gruppo di casupole o meglio di stalle posto in un ampio prato che gli si apre davanti come un grandissimo anfiteatro. Di essere umane (sic) ve ne sono pochissime, solo le necessarie per condurre al pascolo le molte e numerose mandrie di vacche che vedevamo appunto sparse qua e là per le adiacenti colline.
Ma che facevamo in codesto Biandino?
Non sono nemmeno le cinque, molte ore ci separano dalla cima del Pizzo e noi rimaniamo qui oziosi? [....]tra noi e si concluse di avanzarci quanto più si poteva e se fosse stato possibile giungere fino a Piazzotto a 1 ora e 1/2 sola dalla cima e dove, ci disse la guida, avremmo dormito bene poiché pochi giorni prima vi aveva pernottato una signora col marito e con altri due compagni.
In un'ora e anche meno fummo al così detto Sasso altro gruppo di casupole unicamente pei pastori e fabbricato di fianco e sotto un enorme masso staccatosi e rotolato dall'alto.
Il Sasso era un po' più popolato che non Biandino, le vacche erano tutte in giro e entrati in una baita trovammo 3 pastorelle poco seducenti e alquanto schifose alle quali domandammo del latte e polenta che cordialmente ci concessero e portarono al di fuori preparandoci una piccola tavola su di un bel sassone. La tavola era alquanto grossolana ma l'appetito suplì a tutto e seduti tutti e quattro intorno al masso demmo principio al nostro frugale pasto. [....] in men che non si dica, attirati forse dall'odore di polenta fumante, comparvero davanti a noi una buona quantità di animali selvatici dal buon padre [....].
Ora li nomino tutti statemi attenti:
due grossi cani da pastore, l'uno dei quali il giorno prima, morto di fame s'aveva divorato una pecora. Che razza di bocchino! Portava al collo un collare tutto a pungiglioni che faceva paura al solo vederlo, l'altro sembrava un po' più umano, però ai suoi dì la sua parte l'aveva fatta, s'era ingollato un giovane vitellino.
4 oche della vera razza di quelle che salvarono il Campidoglio; una dozzina di galline; una maialessa con numerosissima prole non molto infante; e un paio di cagnetti di grossezza normale.
Tutta codesta famigliola bisognava mantenerla a nostre spese, e se non si dava loro da mangiare la era una zampa sui ginocchi od un muso poco aggradevole che lambiva le mani; le galline poi, più audaci, volavano sulla tavola beccandosi senza tanti complimenti le nostre magre vivande. In causa di questa compagnia poco cara e difficile da scacciare accelerammo la nostra refezione, ed appena terminato proseguimmo coraggiosamente per Piazzotto, stimando che quando si fosse colà giunti saremmo stati ben contenti avendo un buon paio di ore in meno per giungere alla cima.
 




Che luoghi stupendi abbiamo passati! Come la natura da allegra, amena, ridente, ci cangiava in tetra e spaventosa! Il Lago del Sasso, dove giungemmo mentre appena appena incominciava ad imbrunire, è qualche cosa di veramente maestoso per la sua tristezza. S'apre questo laghetto nel fondo della valle ch'è ristretta e chiusa da roccia tutt'allo intorno . Grossi massi fra cui uno enorme, da cui il lago forse prese il nome, vedevansi sparsi qua e là in quell'acqua tranquilla immobile di quello stagno. Più nessun raggio di sole penetrava colaggiù e le rocce col loro cupo riflesso rendevano il lago quasi nero.
Un perfettissimo silenzio regnava tutt'all'intorno. Se le Fate ànno  dei laghi, quello ne è certo uno. Se fosse di notte e se splendesse la luna la vista di quel lago non s'avrebbe potuto sopportare , sarebbe stato qualcosa di troppo bello ; fortunatamente di là di notte non passa anima viva o se passa è qualche montanaro  o pastore, i quali ad onta della poesia che v'ànno  attaccato i poeti rimangono impassibili o quasi davanti a simili portenti della madre natura!
Appena oltrepassato il lago ci vedemmo sorgere maestoso davanti agli occhi una cima di nuda roccia che illuminata dagli ultimi raggi del sole morente sembrava tutta quanta di fuoco. Unanimi gridammo: ecco finalmente la [....] del sospirato Pizzo, domattina saremo lassù. La guida crollando il capo soggiunse: no, no signori miei è ben più alta la cima ed anche prima di vederla ce ne vuole del tempo. Quest'annuncio fu per noi da un lato una stilettata al cuore, o meglio alle gambe che avevano già fatto la loro parte, e dall'altro un piacere pensando che ci dovevamo spingere ancora più alti di quella cima che ci sembrava già altissima. Ad un tratto udimmo un colpo di fucile proveniente dall'alto.È il pastore di Piazzotto - soggiunse il Magni - il quale quando arrivano forestieri tira una fucilata per allegria: eccolo là in cima che sta ritto guardandoci - lo vedono? Per quanto guardassimo non ci fu mai dato di distinguere un uomo, ed anche quando la guida ce lo segnò col dito ci parve una pianta. È strana la facoltà visiva di questi montanari. Spesso distinguono camosci a lontananze tali, che noi a stento distinguiamo col cannocchiale.
Però noi prestammo fede alla guida e infatti dopo una mezz'ora di cammino si vede quella pianta muoversi - era proprio il pastore.
Era già buio e l'aria vespertina tirava frizzante, quando noi giunsimo al tanto sospirato Piazzotto. Il pastore raggiante di gioia alla vista di esseri abbastanza simili a lui ci venne ad incontrare e ci offerse subito l'intiero suo appartamento . Era questi un bel giovanotto sulla ventina, dalla barba incolta, dai lunghi capelli  e dall'unghie [....].
Povera Arcadia se l'avesse veduto come ne sarebbe stata delusa! - Viveva colassù da tre mesi solo in compagnia di 60 pecore ed una capra sua fida compagna a tre ore di lontananza dal primo luogo abitato che è appunto il Sasso, ed altri non vede che quei pochi alpinisti che andavano al Pizzo e quel tale che di tanto in tanto gli portava quel po' di farina e di sale per fare la polenta. Sembra impossibile come un uomo possa vivere in quelle condizioni eppure egli diceva di passarsela benone, tolto quando pioveva che allora, come ci diceva, costretto a starsene sempre nel suo appartamento, si annoiava un pochino. Povero diavolo! A quanti pericoli trovavasi esposto, se per caso gli fosse venuto male sarebbe morto mille volte prima di essere soccorso - ma a questo non vi badava nemmeno!
 

 

Ci condusse finalmente alla sua abitazione. Dio mio che sorta di topaia! Altro non era che una specie di grotta fabbricata di fianco ad un masso, tutta di sassi e ben [....] e fra loro cementati con (con vostra licenza) letame bovino. Dovevamo inchinarci per entrare e una volta entrati accendere un lume per vedere dove eravamo capitati. In 4 ci [....] appena appena stando in piedi, e vi dovevamo dormire! Il letto era uno solo ben inteso, e che letto! - Un po' di fieno posto sopra due assi, dove stando ben addossati l'uno all'altro vi si poteva sdraiarsi in 3. Faceva un freddo da non dire, figuratevi a 2000 metri! La parte, anche chiusa, aveva certi piccoli forellini da cui non solo vi poteva penetrare l'arietta frizzante, ma ben anco il grosso cane da pastore, il quale di tanto in tanto entrava liberamente a piacimento. C'era una specie di camino  ma accenderlo non si poteva a meno di rassegnarsi a morire asfissiati ciò che ci sarebbe punto accomodato. Il pensiero di dover passare tutta una notte in quel buco ci spaventò ma considerando che a quell'altezza di alberghi non se ne trovavano e che quella spelonca era l'unico luogo dove vi si potesse stare un po' riparati , nessuno si disperò, prendemmo la cosa da ragazzi di spirito e si incominciò a ridere.

Ci sedemmo qualcuno sul letto qualcuno sopra una specie di panca formata da un'assicella larga un decimetro e appoggiata alle due estremità sopra due sassi e ci preparammo in qualche modo pel pranzo che si pensò di farlo ben adagino perché avevamo propri bisogno di far passare il tempo. Di commestibili ne avevamo in abbondanza, quindi ci accingemmo con tutta lena e dopo pranzo si tentò perfino di fare un caffè, ché il previdente Formenti avea pensato a portarsi una boccetta di caffè condensato, ma ad onta di tutti i nostri studi si riuscì a far poco di buono. L'acqua per le ragioni dianzi dette non la potemmo di molto scaldare e molto pulviscoli di cenere e di altre materie eterogenee andarono a depositarsi in essa. Pure qualcosa servì anche il caffè, se non altro a  farci passare un'ora di tempo.
Il freddo sembrava aumentare di mano in mano ed i nostri pleiade non erano sufficienti per riscaldarci; allora ognuno levò i liquori che s'era portato.
 




Una vera bottega di liquorista - [....] Rhum, cognac, robur, caffè concentrato con essenza di zucchero, menta acquavite, acqua di tutto cedro e camomilla. Faccio notare che questi ultimi due liquidi erano stati portati dal nostro dottore in erba Piero Brini il quale aveva con sé una specie di farmacia ambulante composta di laudano, arnica glicerina, unguenti di due o tre qualità, bende per ferite etc. etc. ch'era un vero peccato non farsi male.
I liquori ci ristorarono un pochino e ci tennero svegli per qualche mezz'ora, ma ben tosto la stanchezza ci vinse ed avremmo pagato ben caro un'ora di sonno placido; quindi mediante sforzi erculei del nostro ingegno ci ponemmo tutt' e quattro in quel po' di fieno e tentammo di dormire. Si spense il lume ed un profondo silenzio regnò in quella povera capanna perduta sul monte, altro non udivasi che quattro sospiri di quattro infelici giovani.


Antonio Gnecchi Ruscone
- continua -

BUON FERRAGOSTO A TUTTI!!!

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Fotografia scattata da Pianello del Lario

"IL PARADISO DEI CANI" (INTROBBIO) una cartolina proposta da Maurizio Pirovano.

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Maurizio Pirovano, un abitante di Verderio Inferiore, mi ha inviato questa cartolina del "Paradiso dei cani", la cascata della Troggia di Introbbio, di cui Antonio Gnecchi parla nella prima parte della sua cronaca dell'ascensione al Pizzo dei Tre Signori. Ringrazio Maurizio per il suo prezioso contributo. M.B.


1 -2 SETTEMBRE 1880. UN'ESCURSIONE AL "PIZZO DEI TRE SIGNORI" di Antonio Gnecchi Ruscone (seconda parte)

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TESTO: seconda parte della cronaca della salita al Pizzo dei Tre Signori, scritta da Antonio Gnecchi Ruscone nel 1880. La prima parte è stta pubblicata su questo blog il 14 agosto scorso.

IMMAGINI: le immagini di montagna in bianco e nero, indipendenti dal testo,  che corredano questa seconda parte del racconto sono di mio cognato Giorgio Buizza, lecchese, che ringrazio.
 Di lui ( sotto l'etichetta Giorgio Buizza) potete leggere su questo blog i seguenti articoli:

CONSIDERAZIONI SULLA POTATURA DEGLI ALBERI

PLATANI IN UNGHERIA E CROAZIA

IL PLATANO DI VERDERIO



UN'ESCURSIONE AL "PIZZO DEI TRE SIGNORI" di Antonio Gnecchi Ruscone (seconda parte)

Dopo 5 minuti io capii che una mia povera gamba compressa da 4 o 5 altre non poteva più resistere ad un certo senso di dolore, quindi piano, piano, piano me la disvincolai dal più che [....] peso di altre sue simili  e l'appoggiai ad una parete di quel canile per non essere d'impiccio agli altri. Non l'avessi mai fatto ! Un improvviso rumore come di qualcosa che cade fece balzare in piedi tutti quanti, ad eccezione di me che ne conoscevo la causa, e spaventati si misero ad urlare: È l'orso! E c'era ben ragione di temere avendo alcune ore prima udito dal pastore che l'orso si aggirava appunto in quei monti e che pochi giorni prima aveva avuto una visitina della poco cara bestiaccia. Si accese il lume con tutta la celerità possibile, e lo spavento cessò ben presto quando si capì che il rumore era proveniente da una grossa pietra ch'io involontariamente aveva staccato dalla parete con la gamba. Si rise dell'errore, almeno da parte mia, però gli altri tre vollero si tenesse acceso il lume ad ogni buon conto. Dopo una mezz'oretta di commento si ritentò di dormire. Tutto congiurava contro di noi. Una capra che proprio in quella notte non aveva voglia di dormire continuava ad aggirarsi intorno alla capanna a raschiare qua e là con le zampe ed a disturbarci col mesto din din della sua campanella.
 

 
Aig du Dru e Aig Verte dalla P.ta Helbronner (22/9/1972)

Dico poi tra parentesi che all'[....] fantasia dei miei tre soci la capra, o per meglio dire il rumore da essa prodotto doveva per lo meno provenire da un orso.
Ma non basta. Un topolino, forse socio del Club Alpino s'era spinto fin su là, e fissata la sua dimora in compagnia del pastore, impertinentemente e tenacemente continuava a rosicchiar carte per poter penetrare in un certo involto contenente un buon pezzo di strachino di Gorgonzola che trovammo poi alquanto decimato. Non avete mai provato quanto sia carino un topo in camera di un povero diavolo che vorrebbe dormire? No. Ebbene non ve l'auguro
Ma qui non terminano le nostre pene. Una quantità di insettini amanti, anzi troppo amanti della compagnia degli uomini, avendo in noi trovato dei robusti giovanotti e di carne saporita, si misero a cenare avidamente. Ciò per vero dire c'accomodava assai poco, accesi tutti i lumi che potei trovare a mia disposizione e tutti d'acordo cercammo e frugammo per poter scoprire  ....
Ahimè scoprimmo troppo!  - Il gentile pastorello credendo fare cosa grata agli ospiti aveva preparato un molle cuscino su cui noi fidenti avevamo deposto le nostre teste . Quel cuscino era composto di un mucchio di biancheria di un tempo che fu e che .... Basta, non voglio più oltre offendere le delicate orecchie delle mie gentili lettrici.
 

M. Bianco e M. Mandit dalla funivia (22/9/1972)


Quella notte fu feconda di molte altre piccole avventure ed infecondissima di sonno ma ormai ne ò dette abbastanza e tiro avanti.
Appena appena si ebbero gli indizii di una vicina alba, appena [....] cantò il gallo (che però non c'era) chiamammo il nostro Magni ed accese le lampade ci avviammo per raggiungere finalmente la sospirata cima.
Il cielo era serenissimo e limpido, la luna splendeva ancora in quella volta d'un azzurro molto più cupo di quello che siam soliti vedere noi altri poveri mortali delle marcite Lombarde. Il freddo era freddo ma aveva in sé qualcosa di piacevole. Non avete mai provato la voluttà del freddo ? No. Non so che dirvi!
Quando appena incominciava il primo albore ci trovammo in vista della cima che maestosa sorgeva ad un centinaio di [passi (?)] sopra la nostra testa.
L'ultimo tratto per arrivare alla cima è molto erto, [....] e letteralmente composto di rocce affatto prive del benché minimo muschio; solo qua e là appare qualche ghiacciaia o qualche ammasso di neve in alcune depressioni della roccia. Quest'ultimo passo come ho già detto è il più difficile e faticoso di tutto il rimanente, ma il gran desiderio di raggiungere la cima ci pose le ali ai piedi.
Quando il sole mandava i suoi primi raggi indorando le più alte vette, noi raggiungevamo la cima. D'intorno non vedevamo che cime di monti e cielo, tutto era silenzioso, non udivasi che il fischiare della brezza mattutina fra le rocce, ed il gracchiare di qualche ardita cornacchia che si era spinta fin lassù. Davanti aprivasi una vita affatto nuova, tanto e sì grande era la folla di pensieri che colassù passava per la testa che se l'uomo potesse nutrirsi di soli pensieri, vi sarei stato un anno senza annoiarmi un minuto. Ad un tratto fummo tutti quanti avvolti in una nube leggera e trasparente che illuminata dai primi raggi rossissimi del sole sembrava di fuoco. Che piacere, che poesia trovarsi in mezzo a quella nube ed in cima ad un'alta montagna, è impossibile descriverlo! L'uomo così in alto si sente più potente, più orgoglioso; e dire che uno stupido (mi si perdoni l'epiteto forse un po' troppo slanciato) osò dire che gli alpinisti sono poveri infelici poiché non trovano nelle loro ardite escursioni  altra soddisfazione che stancarsi maledettamente e morire dal freddo. "Non ragioniam di lor, ma guarda e passa" (1).
Eravamo pure forniti di un cannocchiale e per lungo tempo stettimo lassù ammirando tutte le catene di montagne che ci si stendevano davanti, e buona parte delle quali erano di nostra conoscenza. Vidi anche il mio maestoso [....] (2), di buona memoria, spiccarsi al cielo maestosamente con la sua cima acuta e bianchissima la in fondo alla Valtellina , e gli mandai un amichevole [....]. Dalla cima del Pizzo si à  poi un'idea completa e precisa di tutta la catena delle Prealpi, di cui, dopo il Legnone è la montagna più alta infatti questa misura 2617 metri ed il Pizzo 2398.
Del resto qui faccio punto e non parlo più né di bella vista né di monti, sarebbe impresa troppo lunga, ed impossibile parlarne degnamente. Chi desiderasse avere un'idea esatta di quello stupendo panorama non à che andare in cima al Pizzo, io mi disimpegno dal descriverlo ed anzi passo ad una cosa molto prosaica. Figuratevi che anche in cima al Pizzo con tante bellezze di natura all'intorno ed in mezzo a una deliziosa auretta mattutina ci venne fame e fummo costretti a dar mano alle nostre provvigioni ed a divorarle con un appetito da veri alpinisti, là dove molte carte indicavano che altre persone al pari di noi poco poeti avevano mangiato.
Però prima di abbandonare quel delizioso luogo lasciammo una memoria della nostra ascensione , con una carta da visita che ponemmo in una bottiglia ben turata e che trovammo lassù con entro i nomi di tanti altri individui, alcuni dei quali di nostra conoscenza. Noi però prima di deporre il nostro nome in quella bottiglia  scrivemmo ciascuno un detto, un pensiero qualunque caratteristico dell'individuo. L'ameno e positivo Brini scrisse, "L'alpinista filosofo guarda nelle acque del Pizzo il bel cielo, se non vuole cadervi dentro".
 

 
Dente del Gigante dalla funivia (22/9/1972)


Ed io .... No, non ve lo voglio dire, lo leggerete voi se sarete curiosi e se le gambe vi sapranno portare su quella cima.
Ma purtroppo l'ora si faceva tarda e dovevamo quantunque a malincuore discendere .
In 4 salti fummo vicini alla spelonca del pastore, su di un bel altipiano ed al di sotto scorgevasi un precipizio in fondo del quale stava il bel lago d'Inferno, laghetto molto simile a quello del Sasso. Colà ci venne ad incontrare il pastore col suo stupido sorrisetto e recando in mano un bellissimo mazzolino di edelweiss di una grossezza immensa, di proprietà e monopolio unico di detto pastore poiché a lui solo era nota quella [....] dove i bei fiori crescevano. Dopo aver fatto una seconda e più abbondante colazione ed aver dato al pastorello un paio di lire , che accettò con una compiacenza ed un sorrisetto come fossero stati due milioni si espose alla guida il nostro progetto: eccolo. Vorremmo discendere da una parte nuova e per esempio da Bellano dove si prenderebbe il battello delle 4 1/2 per andare a Lecco. Che ne dice? È possibile questa discesa?
A far la via a passo di corsa sì altrimenti no, si giunge a Bellano a notte, camminando comodamente si impiegano 12 ore, quindi signori miei la cosa è impossibile; giorni fa condussi una compagnia di 4 persone sul Pizzo , e v'era pure una donna (3) discesero a Bellano ma in due giorni, si fermarono una notte a Premana; così potrebbero fare anche loro.

A queste confortevoli parole, misi automaticamente le mani in tasca, estrassi l'orologio: erano le 7 e dissi: e noi si tenta, mettiamoci in cammino ...e .... e .... e .... Le gambe son forti forse giungeremo in tempo, se una donna andò fino a Premana, noi andremo fino a Bellano! Se vi riusciremo potremo dire di aver fatto in un giorno quello che gli altri fanno in 2, avremo fatto insomma qualcosa di nuovo.
Queste parole animarono la compagnia e alzati in piedi ci incamminammo nell'ardua impresa, quantunque potei scorgere con la coda dell'occhio il nostro Magni crollare la testa. Si passò la valle d'Inferno dove si incontrarono due bellissimi laghi, quello cioè delle trote e quello delle rane, che però, a nostro malincuore, non potemmo rimirare ed esaminare come meritavano per la scarsezza di tempo.
Si passarono altre moltissime valli e vallette di cui non mi ricordo neppure il nome fra mezzo alle quali abilmente ci dirigeva la nostra guida non forviando di un sol metro dalla retta via.

La bellezza e la poesia dei d'intorni (sic) non ci faceva neppure pensare che ci fosse la possibilità di stancarci, e sempre progredivamo a passo da bersaglieri su e giù per quei monti guardando qua e là per rilevare i punti più belli che però non posso descrivervi per la mancanza di tempo. Vi dirò solo che se conoscete la Valsassina quei luoghi le assomigliano di molto.




 
Monti della Brenva (1° piano). Cresta di Penterey (2° piano). Da funivia per rif. Torino (22/9/1972)


Infilammo poi un lunghissimo sentiero di una rimarchevole pendenza e tutto a ciotoli acuti, e lungo parecchi chilometri. Questo modo di camminare non è proprio troppo comodo specialmente quando si ànno  delle scarpe un pochino corte. Io però ero ben fornito, come pure tutti gli altri ad eccezione di Brini, il quale di tanto in tanto si impazientiva con le scarpe, procedendo però sempre senza lamentarsi e, quel che è più, senza fermarsi.
Era una bella giornata e di mano in mano che si discendeva il caldo si faceva sentire in modo molto noioso e tanto più per noi che venivamo nientemeno che dalle nevi. Pure nessuno osava fare osservazioni e come se nulla fosse si progrediva senza mai rallentare il passo che avevamo preso in principio . quando si fu a metà della valle che conduce al ponte di Premana, un bel boschetto di grossi castani con un bel prato spirante frescura ci colpì tutti quanti, ed unanimi ci fermammo per mangiare ufficialmente e per riposare segretamente . Quando poi furono totalmente finiti gli ultimi avanzi delle nostre provvigioni e interamente vuotato l'ultimo fiasco di vino, la guida che come noi non era animata da un certo qual amor proprio soggiunse: Non pensate abbia poca fiducia nel loro valore alpinistico, ma per amor del vero bisogna che dica che se fanno conto di camminare come finora ànno  fatto fino a Bellano v'arriveranno mezzo morti e fors'anche non vi arriveranno che a sera. Queste parole erano prudenti ed assennate tanto più che uno di noi, che non nomino ma che non ero io, sembrava durar fatica a seguirci. Ci guardammo tutti in faccia  come volessimo dire: il Magni à ragione, è proprio da matti far l'alpinista in questo modo, fermiamoci a Premana a pernottare od anche a Bellano giungendovi con tutto il nostro comodo possibile, che domattina sul [....] partiamo in battello per  Lecco ....
 




Val Codera (18/8/1962)


Ma nossignori, nessuno osò esternare questo bel progetto, e si decise invece di continuare la nostra marcia forzata fin che ci fosse stato possibile, e che se verso le 3 - 3 1/2 ci fossimo trovati ancora a 3 o 4 ore da Bellano , allora ci saremmo dati per vinti. E così dicendo riprendemmo il camino , e giunti a Premana tirammo lungo il fiato, credendo di aver fatto gran che. Poveri illusi, non avevamo che di poco oltrepassato la metà strada. Ma qui m'accorgo che vi tiro troppo per le lunghe: se noi ci siamo stancati tanto, abbiamo anche goduto, ma voi che leggendomi non godete nulla, non potete permettermi che vi abbia ad annoiar tanto ed a seguirci palmo per palmo in una strada tanto lunga sotto un sole cocente, quindi come se nulla fosse, portandomi tutta io la fatica,vi porto di botto a Margno dove si giunse alla 1 3/4 e si entrò in un'osteria per una quarta o quinta colazione se non erro. Brini appena giunto si fece dare una camera per farsi un bagno e per utilizzare [....] tre o quattro unguenti diversi. Ticozzi ed io ci provammo a divorare una mezza dozzina d'uova. Il povero Formenti fattosi [.... .... .... ....] si sdraiò su di una panca; il troppo cognac e la troppa acqua da lui bevuta in istrada gli avevano fatto male. Questo piccolo incidente turbò sulle prime il nostro piano e ci credettimo dover passare colà la notte; ma il bravo Formenti, non volendo che per causa sua andasse a male la nostra ardita spedizione , che già era a buon punto, si fece forte e balzò in piedi. Proseguiamo - disse - non ò più nulla.
Io domandai a varie persone in quante ore si sarebbe discesi a Bellano, ma secondo il solito non ne potemmo capir nulla, poiché chi ci dice 4, chi 3, chi 2 ed una bella ragazza ci disse perfino 1 1/2. Animati da questa buona parola uscite dalle labbra di una ninfa montanina le nostre gambe ripresero lena ed infatti in meno di un'ora potemmo giungere alla vista del lago. Eravamo a buon punto. Ad un tratto tutti quanti impallidimmo - nientemeno che si vide un battello solcare pacificamente le onde tranquille del lago. Ahimè fatiche gettate al vento , inutili sudori, gambe e stomaci inutilmente sprecati ...!!
 

 
Il veunza e il Mangart Piccolo di Coritenza (28/7/1959)


Un momento - disse il provvido Ticozzi: levò il portafogli, un orario, e ci mostrò come dall'ora si poteva solamente ammettere che quel battello era diretto a Colico e non a Lecco. Ed infatti non erano che le 3 1/2 ed il battello per Lecco non partiva che alle 4 1/2. Questa elementare considerazione ci consolò molto, radoppiò le nostre forze presso a svanire e per non tirarvi troppo alle lunghe vi dirò che mentre suonavan le 4 noi entravamo nel Caffè di Bellano in riva al lago, molto freschi relativamente ai tanti chilometri che avevamo indosso. Molti vedendo questi 4 alpinisti reduci all'apparenza da qualche cima lontana ci domandarono la nostra provenienza e sentendo = dalla cima del Pizzo , ci guardavano in faccia con aria d'incredulità e non l'avrebbero creduto se la nostra guida abbastanza nota in quei paesi non avesse attestato la verità dei nostri detti e lodato l'abilità delle nostre gambe.
All'imbarcadero incontrammo il [lungo (?)] avv. Aureggi che ci doveva essere socio nella nostra spedizione, ma che invece aveva pensato meglio di tentare una spedizione sulla (sic) Bernina. Il poveretto però non fu fortunato come noi , ché colto da una forte tormenta, dovette moggio, moggio ritornarsene ad [.... ....].
Alle 4 1/2 il battello giunse a Bellano e nel tranquillo tragitto fino a Lecco la simpatica brezza vespertina e due ore di placido riposo ci ridonarono completamente le nostre forze ed il nostro vigore di prima, sì che si giunse a Lecco non come reduci da una gita alpina, ma da una gita di piacere sul lago. Fummo accolti da una folla di persone , che per tutta la strada ci tempestarono di domande, finché giunti a casa, dopo una sesta e ultima refezione, che chiameremo pranzo o cena come più vi piace, ciascuno se ne andò a dormire e ne aveva ben diritto . Io la mattina dopo alle 9 ero a Verderio, ed alle 9 1/2 giravo per la campagna col mio cane in traccia di quaglie. Brini, che doveva partire con me, non si vide, Morfeo l'aveva vinto. Taccio degli altri.
 

 
Sfinge e Pizzo Ligoncio (18/8/1962)


Ora vorrei dare un parere a chi dei miei lettori è alpinista: andate sul Pizzo dei 3 Signori, che ne vale veramente la pena; ma per carità non scendete a Bellano che è veramente una cosa da matti, o, se proprio avete il desiderio di fare questa strada che è molto bella, pernottate a Premana, che allora la vostra escursione sarà comoda e ricompensatissima.
Seconda avvertenza o consiglio paterno: evitate di dormire a Piazzotto a meno che non vogliate fare un po' di penitenza dei vostri peccati, ma se invece desiderate farla in altro modo dormite al Sasso, certamente nemmeno al Sasso troverete grandi cose ma almeno vi si potrà dormire. Alla mattina poi, mettendovi in moto di buon ora, potrete giungere alla cima prima che il sole sia spuntato, e discendendo dalla stessa parte potrete trovarvi comodamente a Lecco per la sera, facendovi trovare una carrozza ad Introbbio dove anzi potrete pranzare , tanto più che esistono buonissimi alberghi.
Ed ora finisco - e n'era ben ora - perdonatemi se abusai un po' troppo della vostra pazienza.


 

Ultime notizie: L'orso che tanto ci fece spavento non era un orso ma un'orsa. Venne uccisa nelle vicinanze di Premana da tre intrepidi cacciatori ...peccato che io non poteì essere il fortunato quarto!.



ANTONIO GNECCHI




NOTE
(1)"Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa."
Canto III dell'Inferno, al verso 51
(2) Parola poco comprensibile. Forse "Tresero", e quindi Pizzo Tresero
(3) Nota n. 1 dell'autore: "Chi vuole sapere chi fu la signora c'ebbe tanto coraggio, sappia che fu la signora Sala di Malgrate, maritata Stabilini".

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IL LAVATOIO DI IMBERSAGO NEGLI ANNI SESSANTA fotografie di Luigi Oggioni

LA FONTANA - LAVATOIO DEL CAZZULINO di Anselmo Brambilla

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Il limite territoriale fra Calco e Imbersago è dato dal corso della Roggia Rigo. Detto ruscello nasce dalle colline di Imbersago che sovrastano l’agglomerato di Cazzulino, e tortuosamente prosegue il suo corso fino ad immettersi nel fiume Adda. L’acqua dalla sorgente arriva, attraverso un percorso di circa 330 metri, con l’ultimo tratto incanalato in una tombinatura sotto la strada che divide i due agglomerati, ad una fontana lavatoio. Detta fontana , molto antica, un tempo era usata di comune accordo fra gli abitantidi Calco e Imbersago, le due entità in cui si divideva e si divide la località Cazzulino.




L'ultimo tratto in superfice della Roggia Rigo



Il manufatto, ormai inutilizzato da anni e lasciato senza nessuna manutenzione, è in condizione disastrose, tanto che qualcuno ha deciso di utilizzarlo come pollaio. Anticamente a cielo aperto, la fontana alimentata dall’acqua della roggia era usata in promiscuità fra gli abitanti delle due parti, specialmente dalle donne: quelle di Imbersago lavavano i panni sulla piotta destra. quelle di Calco su quella sinistra.

Anche se non siamo in possesso di sicura documentazione che lo comprovi, possiamo ipotizzare che la fontana sia stata costruita dai due comuni, in comproprietà sul limite territoriale. Da una nota della commissione distrettuale di Brivio del 27 giugno 1842,   risulta pero che ad averne cura era solamente il comune di Imbersago al quale era stata delegata dal comune di Calco la manutenzione, la tombinatura e la periodica pulizia del fosso.

 



In base alla succitata nota, il comune di Calco avrebbe dovuto contribuire alle spese per il 50% del costo delle opere necessarie ma, purtroppo, le richieste avanzate dal comune di Imbersago di onorare tale obbligo cadevano quasi sempre nel vuoto,   quindi la manutenzione con i relativi costi per la sistemazione della zona di confine ricadevano quasi totalmente sul comune limitrofo. 
 
Per anni il comune di Imbersago intervenne sulla manutenzione della roggia  e della strada che la costeggia, chiedendo senza successo al comune di Calco prima e a quello di Olgiate Calco  poi,  di ottemperare agli obblighi sottoscritti. Finalmente il ricostituito comune di Calco il 22 novembre 1954 si rese disponibile a pagare  a pagare la metà delle spese ma, ribadendo però che trovandosi la sorgente del Rigo e il lavatoio sul territorio del comune di Imbersago, sarebbe toccato  a questo comune pagare la maggior parte delle spese.

Per predisporre un progetto di sistemazione dell’ormai deteriorato lavatoio e risolvere definitivamente la questione delle pertinenze, venne incaricato un ingegnere, il dott Angelo Corti, di stendere un progetto e verificare di chi fosse la proprietà del lavatoio. Il 31 marzo 1955 il professionista presentò un preventivo per la sistemazione del lavatoio e del ruscello e certificò che la proprietà del manufatto, costruito a cavallo del corso d’acqua, era di pertinenza dei due comuni e quindi l’opera di sistemazione doveva essere assunta dagli stessi per la quota  del 50% cadauno.

Anche a fronte di questa verifica Calco continuò a fare orecchie da mercante: innumerevoli sono le richieste di Imbersago giacenti nell’archivio comunale e rimaste senza risposta. Solo nel 1967 Calco incomincia a prendere coscienza della situazione e ad onorare il 50% di sua spettanza.

 



L’intervento previsto dal Corti, che consentirà agli abitanti delle due porzioni della frazione di Cazzulino di riprendere  il normale utilizzo promiscuo del lavatoio, consisteva nella costruzione ex novo della copertura della antica fontana.

L’intervento, realizzato da Imbersago trovò alla fine  concorde anche Calco che, sia pure in costante ritardo, contribuirà , oltre che a versare la quota di sua spettanza, anche al pagamento di quanto già precedentemente realizzato: rifacimento della tombinatura  e costruzione della copertura del manufatto.

 




Anche se nel catasto censuario di Calco non è registrata, si ritiene sufficientemente provato  che la fontana costruita a cavallo della roggia che delimita il confine tra i due comuni, fosse ritenuta di proprietà e uso promiscua , altrimenti non si spiegherebbe il fatto delle ripetute nel tempo richieste di compartecipazione alle spese costantemente avanzate da Imbersago.

Date le limitate possibilità finanziarie dei comuni nei secoli scorsi è probabile che le due amministrazioni si siano accordate per risolvere il problema dell’approvvigionamento idrico alle due parti della località Cazzulino, incanalando l’acqua della roggia e costruendo la fontana in comune. Fontana che serviva per lavare i panni, per usi domestici e anche come abbeveratoio per gli animali.

 



Per finire ritengo sia doveroso per il comune di Calco contribuire a ripristinare il manufatto in accordo con Imbersago, indipendentemente dal diritto o meno di proprietà come segnale di interesse, di rispetto e di valorizzazione di una parte del patrimonio storico sociale, ritenuta a torto minore, di due comunità divise amministrativamente ma unite dalle necessità quotidiane come un tempo era quella dell’uso dell’acqua.

22 giugno 2007  Anselmo Brambilla

ANTICHE MONETE RINVENUTE IN TERRITORIO DI BERNAREGGIO di Luca Cereda

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Il signor Luca Cereda mi ha mandato una fotografia e una breve presentazione su tre antiche monete da lui rinvenute in territorio di Bernareggio. Lo ringrazio.M.B.






MONETA 1
Luogo di ritrovamento: campo arato dopo un temporale. La moneta in questione e' attribuita al secondo secolo dopo Cristo. E'costituita da una lega di argento e piombo e potrebbe risalire a l'insediamento romano di IBERNA REGIA ( l'attuale Bernareggio )



Le Origini

Secondo le più accreditate ricostruzioni storiche, il luogo trae origine da un accampamento invernale di truppe romane che, nel secondo secolo dopo Cristo, svernarono sul dosso dell’attuale Cascinetta.
Nella valle sottostante infatti, scorreva a quel tempo un largo corso d’acqua, affluente del vicino fiume Adda e, la vicinanza di un corso d’acqua è un primo indizio importante. Determinante però a suffragare questa tesi, è il rinvenimento di alcuni reperti archeologici venuti alla luce nella zona tra cui il sarcofago del terzo secolo dopo Cristo, in mostra nel parco della villa Banfi di Carnate. ( TESTO DA RICERCA IN INTERNET ).

MONETE 2 e 3
Le monete 2 e 3 invece risalgono ad un periodo compreso dal 1600 a fine settecento, sono in pessimo stato di conservazione ma secondo vari esperti di numismatica possono essere appartenute al periodo sopra descritto.


FOTO DI GRUPPO DI FRONTE A VILLA GNECCHI di Marco Bartesaghi

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Delle tante cartoline in cui appare Villa Gnecchi Ruscone di Verderio Superiore, quella che vi voglio presentare oggi è la più bella che conosco, grazie al folto gruppo di abitanti che la popola, soprattutto bambini, che sembrano essersi agghindati apposta per l'occasione.






L'immagine risale probabilmente agli ultimi anni venti o ai primi anni trenta del novecento, quando sul tetto e sulla facciata della villa erano già state collocate le statue tuttora presenti.
Interessante  l'abbigliamento dei bambini e, in particolare, l'atteggiamento quasi sfacciato di alcuni di loro. 


 





 

















Un altro particolare che merita attenzione è il personaggio in primo piano con la bicicletta da corsa.






Sul retro della cartolina è stampato un numero (14) e il nome dell'editore: L.Fioroni - Milano. L'esemplare che possiedo, non avendo mai viaggiato, non contiene altre scritte, salvo il prezzo, a matita, che - ahime - mi è costata e il timbro con la sigla del venditote da cui l'ho acquistata: G.C.E.B.

Marco Bartesaghi


PERSONALE DI ALBERTO MOTTA A ROBBIATE, DAL 28 SETTEMBRE AL 12 OTTOBRE

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SU QUESTO BLOG PUOI TROVARE UN INTERVISTA AD ALBERTO MOTTA, PUBBLICATA IL 14 GENNAIO 2012 (la trovi anche sotto l'etichetta: "personaggi")

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