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I CASÒT di Giancarlo Consonni

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Ho chiesto all'architetto Giancarlo Consonni di parlarci dei "casòt".


I CASÒT  di Giancarlo Consonni

I casòtt sono un bell'argomento.

Erano piccole  costruzioni plurifunzionali (ricovero degli attrezzi; immagazzinamento di foraggio secco). Uno spazio più piccolo e separato dal resto era destinato all'ospitalità per le galline lasciate libere di razzolare, ma che vi deponevano le uova. Le galline si ritiravano spontaneamente in questi spazi verso sera, quando venivano stipate in apposite carriole per essere riportate nell'abitazione o in locali ad essa contigui.

Ogni famiglia contadina aveva il suo casòtt.

Costruttivamente erano inizialmente così concepiti: struttura in legno, pareti e tetto in paglia. In seguito sorsero costruzioni più spaziose con struttura in mattoni (spesso misti a sassi), paglia per le pareti,  tegole per il tetto.

Questo l'essenziale.
 

I casòtt erano anche ben altro (convegni amorosi; caccia agli uccellini con trappole d'inverno); ma questa è un'altra storia.

 Giancarlo Consonni



Le immagini che seguono sono mie. Sono casòt (cascinotti), alcuni ridotti a rudere, ripresi tra Verderio e Vimercate M.B.


 



















































UN CASCINOTTO DI CANNE A VERDERIO, IN UNA FOTO DEL TEMPO DI GUERRA di Giorgio Oggioni

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Questa fotografia, che fa parte dei ricordi della mia famiglia, risale agli anni della seconda guerra mondiale. Il cascinotto in canne era ubicato sulla strada che porta alla cascina Bergamina.




La signora a destra è mia mamma, Giulia Regina Airoldi; a sinistra sua sorella, Maria Giuseppina, che poi si fece suora. In centro, Rosaria Balestrieri, una signora sfollata a Verderio per la guerra. La bambina è mia cugina Luigia Villa, che vende giornali e tante altre cose in via Tre Re.



ELEZIONI AMMINISTRATIVE 25 MAGGIO 2014: ALESSANDRO ORIGO PRIMO SINDACO DI VERDERIO di Marco Bartesaghi

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Il 25 maggio 2014 si sono tenute le prime elezioni amministrative di Verderio, il comune nato dalla fusione dei comuni di Verderio Inferiore e Superiore, a seguito del referendum del dicembre 2013 e della successiva decisione del consiglio regionale della Lombardia.

I RISULTATI

E' stato eletto Sindaco  Alessandro Origo, presentato dalla lista SIAMOVERDERIO. 
Nelle che seguono copiate dal sito del comune, i risultati della consultazione elettorale e la composizione del nuovo Consiglio Comunale.

(Cliccare sulle tabelle e sulle fotografie per ingrandirle)












I DOCUMENTI

Presento ora il materiale propagandistico/informativo distribuito in paese dalle tre formazioni politiche locali. E' molto probalile che la raccolta di documenti sia incompleta: invito chiunque sia in possesso di ulteriori documenti di inviarmene copia, in modo da poter integrare la rassegna.

LISTA N. 1 "UNITI PER VERDERIO". Candidato SIndaco: Caterina Viani

1° documento: fascicolo di quattro pagine ottenuto da foglio A3 piegato.

pagina 1
pagina 2
pagina 3

pagina 4

2° documento: volantino formato A4, bianco e nero, intitolato "IL BRAVO RAGAZZO"



LISTA N.2 "VERDERIO CAMBIA". Candidato Sindaco: Marco Benedetti

1° documento: fascicolo di 12 pagine, stampato a colori, formato A4

Per l'ampiezza del documento ho pensato di inserire immagini più piccole delle precedenti. Ricordo che comunque possono essere ingrandite cliccandogli sopra.

pagina 1
pagina 2
pagina 3
pagina 4
pagina 5
pagina 6
pagina 7
pagina 8
pagina 9
pagina 10
Tralascio le utime due pagine che contengono solo le istruzioni per il voto e il simbolo.


2° documento: volantino stampato a colori, formato A4, intitolato "CHI SIAMO".

Fotocopia del documento

3° documento: volantino stampato a colori, formato A4, intitolato: "Verderio: Cambiare si deve, cambiare si può".




4° documento: volantino stampato su due facciate, a colori, formato A5. Propaganda individuale del candidato Daniele Maggioni, che risulterà eletto avendo ricevuto il maggior numero di preferenze (23) fra i candidati della lista.

fronte








retro

LISTA N.3 "SIAMOVERDERIO". Candidato Sindaco: Alessandro Origo.

1° documento: volantino bianco e nero, formato A4, intitolato: "VERSO LE ELEZIONI AMMINISTRATIVE DEL COMUNE DI VERDERIO"


2° documento: pieghevole ottenuto da foglio formato A4, stampato a colori

faccaite esterne
facciate interne

3° documento: fascicolo di 12 pagine, a colori solo le pagine 1 e 12, formato A4

facciata
 
controfacciata

pagina 1
pagina 2
pagina 3
pagina 4

pagina 5
pagina 6
pagina 7
pagina 8

ATTUALITÀ. UNA POESIA DI CARLO PORTA DEL 1812, TRASCRITTA E TRADOTTA, PER CHI NE AVESSE BISOGNO, DALL'ARCHITETTO FRANCESCO GNECCHI RUSCONE

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Quand vedessev on pubblegh funzionari
a scialalla coj fiocch senza vergogna,
disii pur chel’è segn ch’oltra el salari
el spend lu del fatt sò quell che besogna.

Quand savessev del franch che all’incontrari
nol gh’ha del sò che i ball ch’el ne bologna,
allora senza nanch vess temerari
disii ch’el gratta senza avegh la rogna.

Quand intrattant ch’el gratta allegrament
vedessev che i soeu capp riden e tasen,
disii pur che l’è segn che san nient.

Ma quand poeù ve sentissev quaj ribrezz
perchè a dì che san nient l’è dagh de l’asen,
giustemela e disii che fan a mezz.

Carlo Porta, 1812


Traduzione in Volgare per chi ne avesse bisogno

Quando vedete un pubblico funzionario scialare in grande senza vergogna, dite pure che significa che oltre al salario mette di tasca sua quello che occorre.
 
Quando sapeste per certo che invece non ha di suo altro che le balle che ci spaccia, allora senza nemmeno essere temerari dite che gratta senza aver la rogna.
 
Quando mentre gratta allegramente vedeste che i suoi capi ridono e tacciono, dite pure che è segno che non sanno niente.
 
Ma se poi sentiste ritegno perché dire che non sanno niente è dargli dell’asino, correggiamola e diciamo che fanno a metà.

Francesco Gnecchi Ruscone, 2014

RICORDANDO IL 1945 E IL 1946 A MILANO di Carla Deambrogi Carta

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La guerra era finita, finalmente.
Il 29 aprile 1945 erano entrati in città i soldati americani: dalle jeep e dai “doodge” rispondevano festosamente ai saluti e agli applausi dei milanesi


.


Alleati a Milano

Quello era stato un giorno veramente felice, di una felicità quasi vertiginosa.
La guerra sì, era finita, ma non erano finiti i disagi e le preoccupazioni. I viveri erano ancora razionati, c'era ancora la borsa nera. Diverse scuole erano ancora occupate dai sinistrati. C'era anche la coabitazione, perché alcune famiglie di sinistrati erano state alloggiate  in appartamenti lasciati liberi da famiglie sfollate a causa dei bombardamenti e che, a guerra finita, erano tornate a Milano.





La città mostrava gli squarci  e le distruzioni causate dai bombardamenti “a tappeto” della seconda settimana dell'agosto '44 (l'8, il 13, il 15, il 16). Il più pesante era stato quello del 13 agosto. Quella notte piombarono sulla città, con il loro carico di 2000 tonnellate di bombe, 504 aerei inglesi (Lancaster e Halifax) con le conseguenze che non è difficile immaginare.
Tuttavia, gli anni di privazioni che avevamo vissuto ci avevano insegnato ad apprezzare tutte le più piccole cose, nuove o riconquistate.
Intanto, ad uno ad uno, cadevano i divieti che avevano accompagnato gli anni di guerra. Non c'era più l'oscuramento e le strade ci sembravano sfolgoranti di luci. Nelle scale dei palazzi le “normali lampadine”, che avevano sostituito le lampadine oscurate con una pittura blu, ci sembrava diffondessero una luce paradisiaca.


Il Teatro alla Scala dopo i bombardamenti
Venne abolito il coprifuoco e il fatto di non essere più costretti a rinchiuderci in casa alle 8 di sera ci dava una grande sensazione di libertà.
Si ricominciò anche ad organizzare festicciole in casa, cosa che dalla fine del '43 era stata vietata.
Nell'estate del '45, di sera, si ballava anche nei cortili.
 A questo proposito, il severo colonnello Steevens, da Radio Londra, ogni sera, all'inizio della sua trasmissione ripeteva: “In Europa si lavora, in Italia si balla”.

 
Una nota di colore alla città era data dai manifesti che invitavano gli italiani a sottoscrivere il “Prestito della Ricostruzione”, redimibile in 30 anni, prestito che ebbe numerose adesioni.
Benché fosse ancora una città sofferente, Milano dimostrò ben presto una grande voglia di ricominciare.
La volontà di ripresa si manifestò con l'impegno di ricostruire in breve tempo la “Scala”, che aveva la volta sfondata, i palchi e il loggione semidistrutti, gli uffici incendiati.
Questa intenzione sembrava un sogno irrealizzabile, invece il miracolo avvenne. L'11 maggio 1946 la “Scala” riaprì i battenti con un concerto di sole musiche italiane: sul podio Arturo Toscanini (1).
 

 
Teatro alla Scala: veduta della sala teatrale il giorno dell'inaugurazione del restauro della volta dopo i danni bellici, con il concerto Arturo Toscanini


Ricordo anche l'entusiasmo con cui una folla festosa assistette alla partenza della Milano – San Remo”, la prima dalla fine della guerra: il vincitore fu Fausto Coppi.
Nella tarda primavera del '46 vennero distribuite coperte e stoffe inviate dagli Stati Uniti, tramite l'UNRRA (2). Ricordo le numerose persone in coda per poter acquistare con i punti della tessera annonaria quelle merci molto apprezzate.


Ma come non ricordare che il 1946 fu l'anno della prima volta delle donne alle urne?
A Milano, il 7 aprile, ci furono le elezioni amministrative. Queste elezioni furono indette nello stesso giorno in tutta Italia, ma la data fu fissata in base alle diverse situazioni locali.
Invece per l'elezione dell'Assemblea Costituente e per il Referendum, la data fu unica per tutto il Paese: il 2 giugno.
 



Le signore e le ragazze maggiorenni andarono a votare e ci andarono con evidente emozione e trepidazione. Anche gli uomini, però, erano emozionati (non si votava dal 6 aprile 1924). Io non ho votato perché allora si raggiungeva la maggior età a 21 anni, io ne avevo 18.
Ho ancora ben presente l'aspetto evidentemente preoccupato di alcune signore in attesa davanti alla sezione elettorale. Alcune erano letteralmente aggrappate al braccio del marito.



La Stampa, 7 marzo 1946




Davanti ai seggi c'erano lunghe code, perché allora il numero delle sezioni elettorali era inferiore a quello di ora.
Nei giorni precedenti le elezioni, la radio e i giornali ripetevano le istruzioni e i consigli di voto.

Ne cito alcuni:
“Vi sarà consegnata una matita copiativa che va restituita”;
“Fare attenzione a non lasciare segni di matita sulla scheda”;
“Le signore stiano attente a non lasciare tracce di rossetto sulla scheda”
 

Veniva pure ricordato che il voto non è solo un diritto ma anche un dovere.

La Stampa, 1 giugno 1946

Da settimane, la città era  tappezzata da variopinti manifesti elettorali. Ce n'erano ovunque: sui muri integri e su quelli sbrecciati, sui lampioni, su alcuni portoni. Allora non c'erano, come oggi, gli spazi riservati ai vari partiti, era una vera festa di colori.




Quando ritornano alla mente gli anni dell'immediato dopoguerra non è che si provi rimpianto. Resta il fatto che i ricordi di quel periodo sono impressi in modo indelebile nella mente e nell'animo di chi l'ha vissuto, perché quello è stato un periodo pieno di speranze.
In seguito ci furono delle delusioni, ma allora avevamo ritrovato il piacere della vita.


 Carla Deambrogi Carta

NOTE
(1) Filmato su youtube, sul concerto di Toscanini, a questo indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=DXWNiGSTcdQ
 

(2) United Nations Relief and Rehabilitation Administration: organizzazione delle Nazioni Unite, con sede a Washington, istituita il 9 novembre del 1943 per assistere economicamente e civilmente i Paesi usciti gravemente danneggiati dalla seconda guerra mondiale, e sciolta il 3 dicembre 1947.






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L’ECOMUSEO SI TROVA NEL PARCO ADDA NORD PER RAGGIUNGERE LA SEDE ESPOSITIVA SONO NECESSARIE SCARPE PER ESCURSIONI SU STRADE STERRATE


Corpo a corpo tra allievo e artista un percorso intenso si è fatto strada:
È stata una laboriosa riscoperta della téchne di cui il mito narra che gli Dei ce ne abbiano fatto dono rendendoci simili a loro per convivere con le nostre fragilità e di cui forse ne abbiamo persa memoria.

Ecco allora l’occasione attraverso questo percorso di toccare con mano il culto della bottega dove è stato possibile farne esperienza, dandoci modo di riconoscere la propria anima e il soffio che spinge a sondare la nostra natura.

L’ispirazione è una “Chiamata” e il mestiere non si sottrae a questa spinta, allora il talento si rivela!

Elena Mutinelli

 I LABORATORI PRESSO  LA BOTTEGA-SCUOLA D’ARTE RIPRENDERANNO IL GIORNO 8 SETTEMBRE  2014

Sono aperte  le iscrizioni

Info: www.elenamutinelli.eu

mutinelli77@gmail.com

Cell. 334 3777570

 Per info : http://www.elenamutinelli.eu/index_file/Page980.htm


GAY PRIDE A MASPALOMAS di Giorgio Oggioni

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Ciao,
ogni anno partecipo almeno a una parata del Gay Pride, la festa dell'orgoglio gay.
Sabato 28 giugno,  sfilerò a Milano, dove la manifestazione si snoderà da piazza Duca d'Aosta (vicino alla Stazione Centrale) con partenza alle ore 17,00 (il ritrovo è alle 16).
Se vuoi qualche informazione in più vai a questo indirizzo:  http://www.milanopride.it/#!parata/ca5z

Quest'anno però ho partecipato anche alla manifestazione di Maspalomas, alle Canarie, dove ero in vacanza con il mio compagno. Vi presento qualche fotografia che ho scattato in quell'occasione.
Giorgio











La Parata: ritrovo alle 16 in P.za Duca D'Aosta (Stazione Centrale), partenza corteo alle 17.
La Parata: ritrovo alle 16 in P.za Duca D'Aosta (Stazion
La Parata: ritrovo alle 16 in P.za Duca D'Aosta (Stazione Centrale), partenza corteo alle 17.

 
 
 
e Centrale), partenza corteo alle 17.
 
 
 
 
 

"LA SCIENZA DEL TERZO MILLENNIO": TRE CICLI DI CONFERENZE SCIENTIFICHE A VERDERIO di Giuseppe Gavazzi

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L’idea di organizzare delle conferenze di divulgazione scientifica  è stata da me presentata al sindaco Paolo Bellotto, che l’ha immediatamente recepita e l’ha resa operativa in breve tempo, anche grazie alla atttiva partecipazione di alcuni suoi collaboratori all'organizzazione. Nel frattempo,confortato da questa calorosa accoglienza al progetto, ho chiesto a Gabriella Consonni,professore di Genetica presso l’Università degli Studi di Milano,di entrare nel progetto per curare con me la parte scientifica. Abbiamo così iniziato il primo ciclo di conferenze, scegliendo spesso i relatori  tra i nostri colleghi, che hanno aderito anche senza ricevere nessun contributo. Abbiamo da poco terminato il terzo ciclo e mi auguro che l’iniziativa possa continuare perché “senza cultura non c’è futuro“ e di cultura scientifica nel nostro paese ce n’è molto bisogno. Giuseppe Gavazzi

P.S.Sulla base dell'esperienza passata penso che sarebbe opportuno trovare, anche se modesta, una forma di retribuzione per gli oratori, sopratutto se vengono da lontano
.


CICLO DI CONFERENZE 2011


29 aprile 2011. 
MENTE E CERVELLO
Giuliano AVANZINI.Primario dell'Istituto Carlo Besta di Milano
Presidente dell'International School of Neurological Sciences di Venezia


27 maggio 2011
GESTIRE IL SUOLO PROGETTANDO IL FUTURO.BENE COMUNE, FUNZIONI AMBIENTALI, CIBO
Paolo PILERI, Professore di Ingegneria del territorio del Politecnico di Milano


23 settembre 2011
L'EVOLUZIONE
Giuseppe GAVAZZI, Professore di Genetica Agraria dell'Università degli Studi di Milano

21 ottobre 2011
NUTRICEUTICA
Marisa PORRINI, Professore di Scienze Tecniche Dietetiche Applicate. Preside della Facoltà di Agraria dell'Università degli Studi di Milano

18 novembre 2011
GLI ORGANISMI GENETICAMENTE MODIFICATI (OGM)
Gabriella CONSONNI, Professore di Genetica Agraria dell'Università degli Studi di Milano

20 gennaio 2012
PRESENTAZIONE DELLA FLORA E DELLA FAUNA LOCALE
dott. Daniele SALA, Botanico

24 febbraio 2012
ENERGIE DA FONTI RINNOVABILI
Marco FIALA, Professore di Ingegneria Agraria dell'Università degli Studi di Milano



CICLO DI CONFERENZE 2012


27 aprile. DAL FORMAGGIO AL FORAGGIO
Tommaso MAGGIORE. Professore di Agronomia, Università degli Studi di Milano


25 maggio. GENOMA UMANO: LA NOSTRA RICCHEZZA E LA NOSTRA FRAGILITÀ
Raffaella MENEVERI. Professore di Biologia Applicata, Università degli Studi di Milano – Bicocca


29 giugno. BREVE STORIA DI COME L’UOMO HA MODIFICATO LE PIANTE ALIMENTARI: TANTE LUCI E QUALCHE OMBRA
Fabio VERONESI. Professore di Genetica Agraria, Università degli Studi di Perugia

 


28 settembre. INTERVENTI DI RESTAURO NEL TERRITORIO
Bianca ALBERTI, Anna SORAGNA. Restauratrici

26 ottobre. LA SFIDA AMBIENTALE E LE SOLUZIONI
Pier Antonio CASELLATO. Membro Commissione Ambiente, Ordine Ingegneri prov. di Milano

23 novembre. LA COLORATA LENTEZZA DELLE GALASSIE
Giuseppe GAVAZZI. Professore di Astronomia, Università degli Studi di Milano – Bicocca (questa conferenza si è svolta il 14 dicembre)

14 dicembre. GENI, CIBO E CULTURA
Giuseppe A. GAVAZZI. Professore di Genetica, Università degli Studi di Milano (questa conferenza non si è svolta)


CICLO DI CONFERENZE 2013


22 marzo 2013.IL CLIMA STORIA DELLE POLITICHE DELL’ONU: SPERANZE E DELUSIONI
Ignazio TABACCO.Professore di Geofisica Applicata. Università degli Studi di Milano

19 aprile. DOVE VA L’AGRICOLTURA?
Davide EDERLE. Biotecnologo e comunicatore. Direttore della rivista Prometeus Magazine.

24 maggio. DILEMMI E SPERANZE DEI NUOVI TEST GENETICI: DEFINIZIONE DEL RISCHIO, NON SEMPRE PROSPETTIVA DI CURA
Lidia LARIZZA. Professore di Genetica Medica. Università degli studi di Milano




27 settembre. LA RIVOLUZIONE DIGITALE
Federico VAGLIANI. Ingegnere. Sistemista di telecomunicazioni digitali.

25 ottobre. LA FOTOGRAFIA COME STRUMENTO DI CONOSCENZA DELLA NATURA.
Marina GALLANDRA. Dottore in Scienze Agrarie. Fotonaturalista.

22 novembre. MATERIA E COLORE. LE SINFONIE CROMATICHE DELLE CITTÀ ITALIANE.
Giancarlo CONSONNI. Professore di Urbanistica. Politecnico di Milano.


LE IMMAGINI


La farfalla che ha accompagnato le conferenze del primo ciclo è un "Papilio machaon".






 

Questa sezione di foglie di mais è stata adottata invece per il secondo ciclo. L'immagine è ricavata da un preparato di Priscilla Manzotti.




 



Il frutto di clematide (achenio piumoso di Clematis alpina), fotografato da Marina Gallandra, è stato il simbolo del ciclo di conferenze del 2013.



"L'UOMO CON LO ZAINO": GIUSEPPE GAVAZZI, DOCENTE UNIVERSITARIO, RICERCATORE SCIENTIFICO E, QUANDO È A VERDERIO, ORTICULTORE di Marco Bartesaghi

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F1 - Giuseppe Gavazzi

Lunedì mattina. È passato da poco mezzogiorno. Ho un po’ di tempo per lavorare all’intervista che sabato sera ho fatto a Giuseppe Gavazzi, persona da sempre legata a Verderio.
Prima operazione: scaricare l’intervista sul computer. Collego il registratore al PC; non lo “legge”; mi agito, “traffico” con i tasti; lo tolgo; lo rimetto. Risultato: tutti i file in memoria sono cancellati. Riprovo, niente da fare, le cartelle sono vuote. ...zzzo!
Scrivo a Giuseppe e gli comunico il disastro. Scrivo anche a Gabriella Consonni, sua allieva e in seguito collega, e al marito Enrico Miotto, che ci hanno ospitato a cena proprio per l’intervista. Il primo a rispondere è Enrico: “se volevi mangiare un'altra insalata di polpo bastava dirlo!”. Era buonissima, il sospetto è lecito.
Tutto da rifare: ma come si fa a rifare una chiacchierata? Perché di questo si è trattato: una chiacchierata durata un’ora e venti minuti, continuata a tavola e inframmezzata da domande, alcune predisposte per l’occasione e altre venute al momento, come sempre quando si discorre fra conoscenti.
Ci ritroviamo dopo due settimane, io un po’ imbarazzato, e proviamo. Questo il risultato. M.B.


“L’UOMO CON LO ZAINO”: GIUSEPPE GAVAZZI, DOCENTE UNIVERSITARIO, RICERCATORE SCIENTIFICO E, QUANDO È A VERDERIO, ORTICULTORE


F2 - Rodolfo Gavazzi


Giuseppe Gavazzi, classe 1936, è docente di genetica alla Facoltà di Agraria dell’Università degli studi di Milano. “Docente quiescente”, specifica lui, ovverosia già in pensione ma ancora legato all’ateneo e attivo, sia come insegnante che come ricercatore.
Figlio di Rodolfo Gavazzi (1908-1995) e di Pia Gnecchi Ruscone (1911 -2005), Giuseppe, fin dall’infanzia, ha frequentato Verderio, dove il nonno materno, Alessandro (1882-1970),  possedeva una delle due ville storiche di Verderio Superiore, quella già di proprietà della famiglia Arrigoni. Verso la fine degli anni settanta Giuseppe  ha costruito casa in zona Azienda Agricola Boschi, e, da qualche anno, a Verderio ha preso residenza.



 
 



F3 - Pia Gnecchi Ruscone

Scavare nel passato e seguire la traccia dei propri ricordi è un’attività comune a tutti. Scrivere un’autobiografia e pubblicarla - Giuseppe l’ha fatto di recente con il libro “LES PETITES CHOSES DE LA VIE” (1) -  è un passo successivo, più impegnativo, che implica la volontà e il desiderio di far conoscere i propri ricordi ad altri.



 
F4 - Alessandro Gnecchi Ruscone




Da qui vorrei iniziare la nostra chiacchierata.











I RICORDI

Marco (M) – Che rapporto hai con i tuoi ricordi e cosa ti ha spinto a raccontarli in un libro?
Giuseppe (G) –
Un giorno, qui a Verderio, mi sono messo a leggere una serie di lettere, da me scritte e ricevute, perlopiù quando ero appena laureato, che mio fratello Alberto aveva conservato quando ero stato in America per un soggiorno di tre anni. Mi ero dimenticato della loro esistenza e rileggerle è servito da catalizzatore per indurmi a scrivere qualcosa.
 

M - Erano lettere scritte ad Alberto?
G - No, erano soprattutto lettere scritte ad amici, tanti amici, che poi avevo mantenuto anche negli Stati Uniti, e altre scritte ai miei famigliari e alle fidanzate.
Un altro stimolo a mettere sulla carta i pensieri sul mio passato è stato il fatto che, durante le lezioni, ho sempre raccontato aneddoti su personaggi importanti,  e che avevo conosciuto, del mio settore di ricerca. Più di uno degli studenti a cui li avevo raccontati mi aveva detto : “Ma perché non le scrive queste cose?”
Ho cominciato a farlo, mi è piaciuto e sono andato avanti. Per scrivere il libro ci sono voluti un paio d’anni, non scrivendo a tempo pieno, ovviamente, ma solo nei ritagli lasciati liberi dal lavoro. Una volta iniziato ho trovato divertente rivisitare e riscoprire il mio passato.



 
F 5- Il libro autobiografico di Giuseppe Gavazzi

M – Ci sono aspetti, o capitoli, della tua vita di cui hai fatto fatica a parlare?
G
- No, anzi, direi che parlare del passato mi ha permesso di riflettere un po’ su quello che mi era successo e anche di chiarire a me stesso, affrontandoli in un’ottica diversa da quella che avevo  quando li stavo  vivendo, certi momenti piuttosto turbolenti della mia vita. Una sensazione piacevole questa di rivisitare, con un certo distacco, il passato e di poterlo chiarire.
 

M – Ci sono aspetti della tua vita di cui nel libro non hai parlato?
G
- Beh, sì, i famosi scheletri nell’armadio. Ho tralasciato di parlare di cose che avrebbero potuto dar fastidio a persone viventi, che ho conosciuto e conosco.
 

M – Questo libro è rivolto a qualcuno in particolare?
G - Ai miei figli. Ognuno ha il desiderio di lasciare una traccia in questo mondo e  questo è stato un modo di lasciare una traccia di me.
 

M – Un libro, però, può finire nelle mani di chiunque: pensi possa essere interessante anche per chi non ti conosce?
G -
Con il passare degli anni credo di aver acquisito - magari mi illudo - una certa, tra virgolette, “saggezza”, che consiste nel riuscire a vedere le cose un po’ dal di sopra, dal di fuori. Penso che un pochettino di questa saggezza, che con il libro cerco di comunicare, possa essere utile anche ad altri.


L’INFANZIA, VERDERIO, LA FAMIGLIA
 

M  - Da bambino abitavi a Milano, dove sei nato, però frequentavi anche Verderio. Perché?
G -
Sono nato a Milano. Poi la mia famiglia si è trasferita a Schio, per seguire il papà che lavorava alla Lanerossi; in seguito siamo tornati a Milano.
Dalla città siamo scappati dopo i primi bombardamenti. In un primo tempo siamo andati  a Desio, in casa dei  nonni paterni; poi, non so perché, la mia famiglia ha deciso di trasferirsi a Verderio, nella villa dei nonni materni.


F6 - Villa Gnecchi già Arigoni a Verderio
M – Quali ricordi hai della tua vita nella casa di Verderio?
G -
Mi ricordo che eravamo in tanti. Oltre alla mia famiglia, c’erano i nonni, la zia Vanna (2); c’era degli sfollati friulani, i Facchini, amici di famiglia; c’era un ufficiale tedesco, che occupava un piccolo settore della casa, che suonava il violino e mi insegnava qualche parola della sua lingua. Poi c’era il portinaio, con un figlio che era un mio amico, e l’autista. Era proprio un piccolo agglomerato di persone.
 

M - Quanti anni avevi?
G -
Quando sono arrivato lì avevo, mi pare, 8 anni.
 

M - Era l’ultimo anno di guerra?
G -
Il penultimo, sì, il penultimo, era il 1944.
 

M – Cosa ti ricordi di quel periodo?
G -
Ho ricordi molto belli, in particolare quello del mio rapporto con il nonno. Passavo molto tempo con lui, che aveva molti interessi: collezionava francobolli, fotografava insetti, fotografie che lui stesso sviluppava. Stavo  con lui anche nella stanza dell’amministrazione, dove c’erano quei bei libroni neri su cui segnava tutto. Era una figura un po’ magica, che mi ha introdotto nel mondo dell’osservazione naturalistica e mi ha trasmesso anche un’altra sua passione, quella per la montagna
.

F7 - Nonno Alessandro Gnecchi con la moglie Anita Jacob
Era anche un burlone: ricordo che nascondeva delle  armi sottoterra e poi ci diceva: “Andiamo a cercare. Vedrete che ci sono cose nascoste dai tedeschi!”. Andavamo con lui, che con un bastone toccava il terreno e diceva : “Qui! Scavate!”, noi scavavamo e trovavamo.
 

Ho anche ricordi di solitudine, ma di beata solitudine: stavo per conto mio e, forse stimolato dal nonno, facevo molte osservazioni naturalistiche. C’era una fontana, io ci bazzicavo perché scoprivo  larve di libellule,  nottue,  insetti. Me li guardavo, li studiavo, li portavo a casa, li disegnavo. Il nonno mi regalava dei libri. Uno me lo ricordo ancora, si chiamava “La strana storia degli insetti”.
Di questi tre aspetti  mi ricordo: la vita da solo,  quella col nonno e quella con la famiglia allargata.


F8 - La fontana della villa di Verderio
M –Qualche persona, in particolare, di questa famiglia allargata?
G –
L’ingegner Mario Facchini, un bell’uomo, un po’ burbero; era qui con la moglie e due figli, uno dei quali poi è diventato campione d’Italia di tennis, nel doppio misto. Gli Gnecchi, gli altri, quelli dell’altra villa, avevano il campo da tennis…
 

M – Dov’è ancora adesso?
G -
Sì. Lì io ho imparato a giocare a tennis. Mario Facchini, che aveva molta passione di insegnare ai giovani, e lo zio Cornelio Premoli, che aveva sposato la zia Vanna, sono stati i miei primi maestri. Lo zio era un fanatico del tennis. Me lo ricordo come il “trampoliere d’Italia”: lungo lungo, magrissimo. Ha giocato finché è morto. Verso la fine della sua vita scricchiolava tutto, era pieno di ginocchiere, ma sarebbe morto sul campo.
 

Mario era un ingegnere un po’ inventore. Qui a Verderio aveva fatto un sodalizio con i fratelli Pirovano, meccanici.  Insieme avevano  costruito qualche macchinetta per muoversi. Lui aveva anche inventato un sistema per estrarre i grassi, i gliceridi dalle castagne matte, per fare il sapone che, durante la guerra, era uno dei beni importanti da avere.
 

Di Facchini mi ricordo anche i suoi due figli, che erano maggiori di me ed erano cattivi, come sempre sono i bambini: mi prendevano per le orecchie e mi tiravano su di peso. Mi venivano le lacrime, ma non volevo piangere per non dargliela vinta. Sono ricordi così, anche piacevoli.

M – E della guerra cosa ti ricordi?
G -
Soprattutto i bombardamenti a Milano: una gran paura, il papà che ci raccomandava di mettere le pantofole vicine al letto e, quando suonava l’allarme, mi avvolgeva sempre nella stessa coperta e, facendo luce con una pila di quelle che si caricano a mano, ci portava in cantina. Lì si stava tutti insieme e ci davano anche qualcosa da mangiare, non mi ricordo più  cosa.
 

Al primo bombardamento ero in via Spallanzani con la mamma. C’era un tempo bellissimo e io le ho detto “mamma c’è il temporale” e lei: "non è il temporale, sono gli aerei: corri,corri, corri...”. E siamo entrati nella prima casa che abbiamo trovato.
 

Qui a Verderio la guerra non si sentiva molto: arrivava qualche aereo, si abbassava - mi ricordo il loro rumore -, mitragliava i treni, mitragliava il ponte di Paderno.

F9 - Il cippo che ricorda l'episodio raccontato da G. Gavazzi

Mi ricordo però di quei tedeschi che stavano scappando, perché ormai la guerra era finita (forse loro non lo sapevano ancora), una lunga colonna che da Verderio andava  fino a Paderno d’Adda e oltre. Gli alleati, che forse si trovavano a Merate, lanciavano volantini dall’aereo, invitando la popolazione ad evacuare il paese perché ci sarebbe stata battaglia. La gente scappava e veniva qui “ai boschi”. In casa con noi abitava anche la nonna bis, con la sua infermiera, che non si poteva muovere. Come fare a trasportarla? Le macchine erano state requisite, ci voleva una carrozza. Una grande confusione insomma.
 

Ricordo Vittorio Gnecchi  e, mi sembra, mio padre, che conoscevano la lingua, che facevano pressione sui tedeschi perché si arrendessero. Quando alla fine lo fecero, i presenti, quelli che si dichiaravano partigiani, ma anche la popolazione, gli saltarono addosso sputandogli e portandogli via la roba e loro, i soldati, se ne stavano lì fermi perché non potevano fare niente. Questi  comportamenti mi avevano fatto una bruttissima impressione.
 

Alcuni soldati avevano lanciato via armi e altri oggetti . Nell’orto della casa che mio papà stava costruendo a Paderno trovammo un mitra e cose varie. Si diceva che i tedeschi avessero  anche una cassa di soldi e allora c’era chi cercava anche quella. 
Gran confusione…(3)
 

Un altro ricordo di guerra è stato l’arrivo nel cortile di casa di una jeep, che mi aveva lasciato stupito: chi aveva mai visto una jeep? E poi i soldati neri - mai vista una cosa simile – che con chewingum, facevano i palloni e poi pum! E  regalavano le banane ai bambini...
 

M - Surreale…
G -
Sì, sì…



LE SCUOLE ELEMENTARI, LA CASA DI PADERNO D’ADDA, L’AZIENDA AGRICOLA AI BOSCHI

M  -Dove hai frequentato le scuole elementari?
G -
Le ho iniziate a Milano, dove sognavo di mettere l’uniforme da balilla, che la mamma mi aveva comprato, ma non ho fatto a tempo perché siamo scappati. A Desio, dove c’erano moltissimi parenti,  abbiamo fatto scuola privatamente, l'insegnante era un mio cugino. Nel primo anno a Verderio le mie maestre sono state la mamma e la zia Vanna. Dall’anno dopo sono andato alla scuola pubblica: per due anni a Verderio, con la maestra Pirovano, un anno a Paderno, un altro a Merate…
 

M – La scuola ti avrà permesso di avere rapporti con persone del posto...
G -
Sì, rapporti anche un po’ traumatici, qualche volta. Come quando mi hanno menato. I miei mi vestivano sempre in un modo che a me non piaceva: mi obbligavano, ad esempio, a mettere  un paletot rosso, con il collo di pelliccia, che chiaramente era un po’ un simbolo. In più il custode mi aveva appiccicato il simbolo della DC… Paletot rosso,  pelliccia, simbolo della DC: mi hanno menato, dicendo “porci sciuri, porci sciuri” .  Quando i miei l’hanno saputo hanno cominciato: “Ah, i comunisti. Adesso andiamo a punirli, chiamiamo  l’autista della Lanerossi (ch’era un pezzo d’uomo), facciamo una spedizione punitiva!”. Per fortuna poi non hanno mai fatto niente. Erano situazioni di cui soffrivo molto.





M - Avevi amici?
G -
Sì, ero amico di Giulio Occhini, il figlio del capo stazione di Paderno: andando a scuola ci incontravamo e facevamo la strada insieme.  I suoi erano toscani. Era un ragazzo sveglio, che poi ha fatto fisica ed è diventato anche  presidente dei fisici italiani. Era fantasioso, mi aveva introdotto al mondo dei fumetti: “Gordon”, che andava su Marte, mi affascinava. Poi c’era  “il Vittorioso”, disegnato da uno che si firmava con una lisca di pesce, come si chiamava? … Iacovitti. Io li nascondevo sotto il letto, perché i miei non volevano che leggessi i fumetti.
Con Giulio e qualche altro amico ci si trovava a giocare. Si faceva il Giro d’Italia. Prendevamo  i tappi dello spumante, che erano di piombo, li facevamo sciogliere e facevamo delle cose piatte,  che poi si tiravano con le dita lungo un percorso disegnato con il gesso. Era un mondo molto semplice, dove ci si ingegnava.


M - Dalla casa dei nonni siete poi andati ad abitare in una casa vostra a Paderno…
G -
La casa di Paderno l’ha costruita mio padre, si chiamava cascina dei Ronchi, perché in parte era anche cascina…


F10 - Villa Gavazzi a Paderno d'Adda. Nell'angolo in alto a destra la rotonda di platani all'imbocco di via Gasparotto, che conduce alla stazione ferroviaria

M - Che c’era già?
G -
No, non c’era niente. Però lui l’ha fatta costruire in modo che ci fossero  villa e  cascina, dove c’erano due o tre vacche, che fornivano il latte. Sotto i portici c’erano le balle di paglia, che salivano alte, fino a tre metri. Io mi nascondevo in mezzo a queste balle e quando passava la cuoca, che detestavo, le tiravo i petardi, che compravo qui a Verderio. Lei si infuriava: 
“No, basta ! Signora, suo figlio… Io vado via”. E mia mamma:“ Ma no, resta, in fondo è buono”. Perché io in famiglia ero considerato un buono, anche se mi piacevano queste trasgressioni.
 

Di quella casa mi ricordo anche  la stanza al primo piano, dove dormivo con mio fratello Alberto, e  un gelso bello, grande. Dalla finestra della stanza riuscivo ad atterrare sui suoi rami e a scendere da basso. C’era il campo di bocce e, più tardi, hanno costruito quello da tennis, dove per anni ho giocato con gli amici .
 

A ogni figlio (allora eravamo in tre, dopo siamo diventati cinque) avevano dato un pezzetto di orto da seminare, per cui c’era il confronto, la competizione a chi faceva meglio: era bello.
Io ero felice lì, allora. La mamma era molto "mammona", molto in casa. Faceva cose belle, come degli album a tema, ad esempio con le macchine, con i cani, che realizzava ritagliando le riviste, e la raccolta delle figurine Liebig, bellissime. Nella sua famiglia c’è sempre stata la passione per le collezioni.
 

 
F11 - Cartolina, disegnata da Alberto Gavazzi, con le indicazioni per raggiungere la villa di Paderno (Cascina del Ronco)


Mi piaceva anche molto leggere: Sandokan, Verne.
Insomma stavo bene, tant’è che quando i miei genitori hanno deciso di tornare a Milano, ho cercato di convincere i miei fratelli a fare la rivoluzione e a rifiutarci, ma non mi hanno seguito molto in questo movimento di ribellione, così siamo finiti a Milano.


Un altro bel ricordo di quel periodo sono le gite in bicicletta fino a Valcava. I miei genitori avevano un tandem, noi la bicicletta. Avevamo  un bel cesto di vimini con tutto il necessario per il picnic. Si andava quando c’era la fioritura dei narcisi, era tutto bianco, si tirava fuori la tovaglia, si mangiava.
Papà aveva anche la moto con il sidecar.
 

 



Allora c’erano delle nevicate pazzesche: una volta saranno venuti due metri di neve ma il papà doveva per forza andare a lavorare, perché per lui il lavoro era importantissimo. Allora tutti noi spalare neve per permettere alla macchina di arrivare alla strada.
Papà era molto mitizzato, un personaggio importante…
 

M - Mitizzato in famiglia?
G -
Sì, in famiglia: amministratore delegato della Lanerossi, arrivava con queste macchine sperimentali FIAT, che avevano dentro il bar… cose incredibili. Aveva l’autista, molto burbero.
 

M - Dal tuo libro risulta  evidente che fra te e tuo padre qualche incomprensione c’è stata, no?
G -
Sì, sì; ma soprattutto più avanti, quando ho cominciato ad essere un po’ discolo ai loro occhi.
A Milano, dove non volevo andare, dopo un po’ la vita ha cominciato a piacermi. Era divertente, c’erano le feste, le ragazze, e a me, che ormai avevo 14 o 15 anni, queste cose andavano bene.
 

M - E tuo papà non approvava?
G - Papà era molto autoritario. Ti metteva sempre davanti il dovere e la famiglia; e poi la tradizione, che a me non interessava per niente. Era severissimo. Una volta mi ha dato una sberla, davanti ai suoi amici, con cui stava giocando a carte, perché gli avevo riportato la macchina con mezz’ora di ritardo. Ci sono rimasto malissimo, l’ho detestato.
 

Ero visto  un po’ come quello trasgressivo. La mia era una famiglia bacchettona  - chiesa, casa, guai i comunisti, la tradizione; insomma l’alta borghesia che doveva mantenere una sua immagine – e la trasgressione dava fastidio.
Il fatto che io non andassi bene a scuola per loro era un disastro: tutti gli anni mi cacciavano dai preti  perché avevo gli esami di riparazione. In quarta ginnasio ho avuto latino, greco, matematica e francese: tanti!  Allora mi hanno mandato dai rosminiani, a Stresa,e poi allo Spluga, al Collegio San Carlo. Mi avevano messo vicino un prete, un missionario, perché mi facesse diventare buono, bravo eccetera.
 

Questo rapporto difficile con mio padre, come con tutte le persone autoritarie, anche sul lavoro, l’ho sempre avuto. Però sono quei conflitti che ti permettono anche di crescere.


F12 - I genitori di Giuseppe a Ponte di Legno

M – E con la mamma?
G –
Con la mamma no, lei era molto più connivente. A me piacevano le ragazze e le raccontavo tutto. Lei si divertiva, e mi metteva da parte i preservativi, in un posto segreto che sapevamo solo io e lei. Una connivenza che con il papà non esisteva: gli fregavo le camice, che erano belle perché lui si vestiva bene, per andare a prendere le ragazze a scuola e lui si incazzava.
 

M – In seguito le cose sono cambiate?
G -
Lo scontro è andato avanti anche quando ero ormai adulto. Mi ricordo una scena in casa sua, quando ero già sposato. Si discuteva di politica e a un certo punto ha cominciato a darmi del comunista:“Tu, da quando sei uscito da casa sei diventato un bieco comunista. Tu e i tuoi amici”. Se la prendeva con l’ambiente universitario che secondo lui era tremendo. E io:“Stai zitto tu, fascistone…!” Lui si è arrabbiato al punto che ha sbattuto tre pugni sul tavolo ed è uscito, nella nebbia perché era inverno. Eravamo tutti allibiti: “Cosa hai fatto al papà!?” Allora fuori tutti a cercarlo : “Rodolfooo… Papaaà”.
 

M - Poi come vi siete riconciliati?
G
- Non mi ricordo…
 

M - Ma tu eri comunista?
G -
Non sono mai stato un politico militante; se si possono semplificare le cose, fra destra e sinistra ho sempre simpatizzato più per la sinistra; se questo vuol dire che sono comunista  non lo so. Non mi sono mai iscritto a un partito, non ho mai fatto una marcia di protesta. Non so perché, forse l’educazione che ho avuto me lo ha impedito. Però sono sempre stato in quella direzione, e lo sono ancora adesso. Anzi più adesso di allora.


M – Rimaniamo ancora un attimo a Verderio: quando e perché nasce l’Azienda Agricola Boschi?
G -
Nasce perché il papà era stato licenziato dalla Lanerossi, per problemi sorti fra lui e gli altri parenti azionisti, una vicenda che lo aveva  traumatizzato. Credo che lui, un uomo molto onesto, ma forse un po’ ingenuo, abbia fatto degli errori, come aver preso con sé dei collaboratori meno onesti, che gli hanno fatto fare scelte sbagliate. Nel campo degli affari non si guarda in faccia né al nome né alla parentela: se uno va male va male, e se gli azionisti non beccano i soldi… Insomma da un giorno all’altro si è trovato fuori dall’azienda  e, per uno come lui che l’aveva guidata per anni, era stato un colpo. So che in seguito c’era stato anche un arbitrato.





 
F13 - L'Azienda Agricola ai Boschi



M – Da questa situazione nasce l’Azienda Agricola Boschi?
G - 
Sì, papà per un po’ di tempo ha cercato di rimanere nel campo tessile, poi immagino che, in accordo anche con la mamma, abbia deciso di rivolgersi al suocero, che aveva l’azienda agricola e si sia offerto di gestirla per un certo tempo per poi rilevarla. Così si è convertito all’agricoltura  ed è nata questa azienda modello, per quei tempi,  con le mungitrici automatiche. Si è buttato in questa iniziativa con entusiasmo, che era una sua caratteristica, e con spirito industriale. Credo ci abbia messo dentro tanti soldi, però ha fatto una cosa che gli dava soddisfazione. I lavoratori da mezzadri erano diventati dipendenti. Lui andava molto d’accordo con loro.



F14 - Vista di Verderio dall'Az. Agr. ai Boschi


LA LAUREA , IL LAVORO



M – Da ragazzo non eri uno studente modello…
G -
No, per niente.
 

M - Dopo cosa è successo?
G -
Mio padre insisteva perché  facessi Economia alla Bocconi, per continuare la tradizione di famiglia. Mi ha un po’ obbligato; mi ha fatto parlare con persone importanti di Confindustria. Alla fine mi sono iscritto alla Bocconi, perché si vede che non osavo prendere una posizione decisa contro di lui . Ho fatto un paio di esami, poi mi sono rotto i coglioni e, aiutato dalla mamma, gli ho detto “Babbo…” no, gli ho detto “papà”, perché se gli avessi detto “babbo” guai … “Papà a me l’economia non va”, “Cosa vorresti fare?”, “Biologia” “No, biologia è una cosa da donnette”. Allora abbiamo parlato un po’ e alla fine ho deciso per Agraria. Sono andato in Inghilterra per imparare l’inglese, perché era giugno, poi ho fatto Agraria. L'ho fatta anche bene, nel senso che non avevo grossi problemi,  però non mi ha appassionato, soprattutto perché all’epoca mia era adatta soprattutto a prepararti a fare il direttore di un’azienda agricola. A me interessava di più capire i meccanismi che sono alla base della natura, un approccio più biologico, insomma. Però alla fine mi è servito anche quello: gli studi di agraria mi hanno dato una certa sensibilità verso gli aspetti applicativi della ricerca, che altrimenti, forse, non avrei avuto.


M – Dopo l'Università il lavoro...
G -
Dopo aver fatto Agraria ho lavorato per un po’ alla FRAGD, Fabbriche Riunite Amido Glucosio Destrine. E mi rompevo le scatole: mi ricordo ancora la scrivania, il telefono; nessuno che mi cercava. Quando uscivo e vedevo le persone, mi sembravano tristi e pensavo che fosse il lavoro ad abbrutirle. Un giorno mi hanno incaricato di andare in Borsa Merci per comprare una partita di soia, dovevo andare  in sostituzione del signor Galli che di solito lo faceva. Ho fatto confusione, ho sbagliato e gli ho fatto perdere un sacco di soldi. Allora il capo dell’azienda mi ha chiamato e mi ha fatto un discorso:“Noi ci siamo informati, lei viene da una famiglia di industriali illustri, secondo noi lei qui è un po’ sacrificato,...”.  Insomma, mi ha licenziato…
 


M - Te l’ha detta bene ma ti ha licenziato …
G - Sì, sì, me l’ha detta bene. Comunque io  ero felicissimo. I miei no,  perché mio papà non mi dava fiducia e io soffrivo per questo. 


LA RICERCA SCIENTIFICA E L'INSEGNAMENTO UNIVERSITARIO

G - Il giorno dopo sono andato a parlare con il professore con cui avevo fatto la tesi e gli ho chiesto, visto che aveva apprezzato  il mio lavoro, se non aveva qualcosa da farmi fare. Mi ha detto che  non ne aveva,  però mi ha consigliato di andare a genetica, che secondo lui era la scienza del futuro. È stato un buon consiglio. A genetica ho parlato con il professor Barigozzi, che mi ha preso subito. E da lì ho cominciato. Mi sono anche iscritto a Biologia, che però non ho finito perché sono partito per l' America.
 

M - Anche il professor  Barigozzi, hai scritto nel libro, era una persona autoritaria...
G -
Sì,  era  molto autoritario. A volte mi scoprivo a parlare da solo:“ Adesso vado lì e gli dico questo e quest’altro”. Poi andavo da lui  e gli dicevo sempre: “Sì, sì sì” , come Fantozzi, “come ha ragione professore”. Non mi piacevo, mi detestavo.
 

 
F15 - Il professor Claudio Barigozzi


M - Però è stato importante per la tua carriera...
G -
Si, mi ha aiutato molto. Grazie a lui  sono andato in America. Aveva trovato un suo collega in Giappone che gli aveva detto: “ Non hai uno, che non sia proprio un coglione, che venga a lavorare con me?”. Siccome io continuavo a dirgli che volevo andar via,  quando è tornato mi ha detto che c’era questa possibilità. Quando ero  in America,  mi dava anche dei soldi. Perché  mi pagavano poco e io non volevo chiedere aiuto a  papà. Allora, quando Barigozzi mi chiedeva come andava io gli dicevo “Bene, bene, certo è un po’ dura…” . Così  ogni tanto mi mandava qualcosa.
 

M- Quando tuo papà ha cominciato ad apprezzare il tuo lavoro?
G - 
Quando ha visto che iniziavo a fare qualcosa, ad avere qualche riscontro, che mi invitavano in giro per il mondo a qualche seminario (avevo già 40, 45 anni), allora è diventato molto orgoglioso di me. E anche tenero: ricordo di un brindisi che propose per me,  a un pranzo durante l'assemblea dei soci della Banca di Desio, a cui stranamente, su sua insistenza, avevo partecipato anch'io, e dove erano presenti tanti Gavazzi e tanti altri parenti...



M – I tuoi maestri, a parte Barigozzi?
G -
Oltre a lui, i miei maestri sono stati sostanzialmente tre.
Il primo è Brink, canadese, con cui ho lavorato negli Stati Uniti, che mi ha insegnato parecchie cose nella ricerca.
 

Anche lui una persona autoritaria, con cui ho avuto parecchi scazzi. Però, indubbiamente, si imparava. Nel primo colloquio abbiamo parlato, mi ha spiegato e mi ha dato un foglietto azzurro, che conservo ancora,  con scritto: “Problemi per Gavazzi: uno, due, tre, quattro, cinque”, le domande a cui avrei dovuto rispondere con la mia ricerca sperimentale. Quello  era il promemoria.
 

Eravamo una decina di persone da tutto il mondo: lui ci offriva il materiale con cui lavorare e ci dava la traccia della ricerca. L’atmosfera era molto stimolante. Stavamo magari delle ore davanti alla lavagna a disegnare schemi di incroci da fare per verificare una certa ipotesi. Era molto bello…



F16 - Il professor Brink con la moglie e il professor Sastry.
M – Con gli altri componenti del gruppo sei rimasto in contatto o vi siete persi?
G - 
Ancora ieri ho parlato con Sastry, un indiano a cui sono rimasto molto legato. Lui ha mantenuto i contatti anche con gli altri e, quando ci sentiamo, mi mette al corrente di quello che stanno facendo. Poi chiede di me, se faccio ancora  ricerca a Verderio, io gli dico di sì e lui mi invidia perché è un po’ malandato di salute. Proprio ieri mi diceva che una cosa di cui ha più nostalgia è “il campo”, dove si sperimentano i risultati delle nostre ricerche.


M -Altri maestri?
G -
George Rédei, un ungherese  scappato nel ’56 dall’Ungheria, portandosi dietro un sacchetto di semi di Arabidopsis  thaliana,  una piantina che cresce dappertutto, anche da noi,  c’è anche nel mio cortile a Milano. Una Crucifera, che è diventata la pianta principe, la pianta modello per gli studi di ricerca, anche molecolare. Nessuno la conosceva e  Rédei è stato quello che l’ha diffusa. Era un uomo vivace, di una quindicina d’anni più  vecchio di me, che ha fatto bella ricerca.
 

Sono finito da lui perché a un certo punto, mi sono accorto che la ricerca stava diventando più molecolare e io ne sapevo poco e dovevo imparare. Allora ho scritto a lui e a un altro in California, tutti e due molto bravi. L’altro mi ha detto “Sì, ti prenderei volentieri ma non ho soldi”. Rédei invece mi ha detto che sarebbe passato  da Milano il direttore del suo dipartimento – quello che mollava i soldi -, mi avrebbe intervistato e poi avrebbero deciso. Vado all’aeroporto a prenderlo; scendono tutti e non c’è nessuno. Alla fine vedo uno seduto per terra,  a piedi nudi, con la chitarra,… Era lui. L’ho portato a casa dove Julie, la mia prima moglie aveva preparato un pranzo fantastico. Abbiamo parlato a lungo, l’abbiamo coccolato. A un certo punto mi  ha detto: “Parliamo d’affari. Tu vieni in America con moglie, due figli; hai bisogno della macchina, devi pagare l’affitto della casa. A te servono mille dollari al mese”. Mille dollari!?! Io ne beccavo 100, 150. Benissimo. Per la prima volta in vita mia ero veramente autonomo finanziariamente.



F17 - George P. Rédei (1921 - 2008)
M - Quanti anni avevi?
G -
34, 35 anni
 

M – Erano gli anni settanta?
G -
Sì, anni settanta. Con  Redej mi sono trovato molto bene. Aveva un po’ il complesso di quello che viene da un altro paese e si sente  accettato  solo fino a un certo punto; vedeva nemici dappertutto. Io gli dicevo  “Ma no, dai...”. Era convinto che gli avrebbero dovuto dare mare e monti, invece non riusciva ad averli; pensava addirittura che l’uomo delle pulizie gli bevesse l'alcool del laboratorio.
 

Faceva  ancora una scienza a misura d’uomo. Si costruiva da solo tutti gli strumenti. Non so, bisognava fare il fenolo e purificarlo? Costruiva la macchinetta per purificarlo. E così io dovevo star lì, di notte, a fare queste cose lunghissime. Poi ci teneva a queste sue costruzioni.  Io, che sono un po' maldestro, una volta ho rotto il piaccametro (lo strumento per misurare il ph) che aveva costruito e lui c'era rimasto molto male. Gli ho detto George, lo pago io non preoccuparti…
 

Era molto generoso, mi insegnava tutte le sue tecniche, ed era geniale, un uomo geniale. Quando è morto era ancora lì che lavorava, in cantina, perché l’avevano cacciato via dall’Università (era vicino ai novanta). Schiavizzava sua moglie. Per me è stato un bell’ esempio.
 

Un altro ricercatore, non proprio un maestro, ma al quale mi sento molto legato è stato Steve Della Porta, dell'Università di  Yale. Più giovane di me, di almeno 15 anni, l'avevo incontrato a un congresso negli Stati Uniti e abbiamo simpatizzato subito. È lo scienziato più geniale che ho conosciuto. Sono andato due o tre volte a Yale, all’Università, a imparare la biologia molecolare. A lui sono molto grato, un bel rapporto. Poi purtroppo l’ho perso di vista.


F18 - Giuseppe Gavazzi (a sinistra) con Chiara Tonelli e Steve della Porta

M – Sei stato “allievo”, ma anche “maestro”. Come ti vedi in questo ruolo?
G -
Come maestro sono un po’ controverso. Ci sono persone con cui ho avuto un buon rapporto. Chiara Tonelli,  a Milano, che è stata mia allieva,  adesso è vice rettore dell’Università; un'altra mia allieva  è professore di genetica a Firenze. C’è qualcun' altro  di cui sono soddisfatto, che dopo la laurea ho aiutato ad andare  a lavorare all’estero  da Steve Della Porta, e che mi è riconoscente,  e che sta facendo molto bene a Milano o altrove.
Uno o due, invece,  se ne sono  andati via sbattendo la porta. Vuol dire che con loro ho sbagliato qualcosa.
Poi c’è Gabriella (4), che ha iniziato con me e con cui ho sempre avuto un rapporto ottimo. Forse il rapporto molto stretto con lei ha creato qualche gelosia con qualcun altro.
Quindi se faccio la somma dei più e dei meno, il risultato non so quale sia...
 

M - Ma non è per  tutti così?
G -
Probabilmente sì. C’è chi apprezza certe cose e ti vede come un maestro e chi, invece, vede altri aspetti tuoi, perché nessuno è perfetto, io sicuramente non lo sono.
Io, per esempio, non sono capace di comandare e ho difficoltà a dare i “voti”. Chiara Tonelli e Milvia Ratti, due brave ricercatrici, hanno lavorato con me tanti anni, io dirigevo la ricerca. Quando dovevano andare avanti, essere promosse, diventare professori, il direttore mi chiamava e mi diceva“Insomma tu per chi fai il tifo? Spingi di più una o l’altra?” Io non sapevo, non riuscivo a esprimere una posizione netta.… Ho sempre avuto questa difficoltà.




F19 - Gabriella Consonni

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LA SCIENZA E LA RICERCA SCIENTIFICA.  I LORO LIMITI OGGETTIVI E SE SIA OPPORTUNO O NO CHE GLI SCIENZIATI SI DIANO DEI LIMITI.




M –Perché hai dedicato gran parte della tua ricerca al mais?
G –
Ha contato molto il caso. Ho cominciato con la drosofila, il moscerino del mosto, e poi ho fatto il mais; ho avuto delle parentesi con l’Arabidopsis, quando ero in America, e con il pomodoro, quando una ditta ha chiesto una consulenza di due o tre anni. Ma di base però ho avuto  questo rapporto continuativo con il mais.
 

M - Perché?
G - 
Quando ero ancora con Barigozzi, un professore tornato dall’America, che lavorava con il mais, un certo Bianchi, aveva messo in piedi una bella squadra di ricercatori tra le due Università in cui insegnava, il Sacro Cuore di Piacenza e la Statale di Milano. Barigozzi mi ha indirizzato a lui perché pensava che, avendo fatto Agraria, fossi più adatto al mais.
Dopo un anno i, sono andato in America dove anche Brink faceva studi molto belli ed avanzati con il mais, così ho continuato.
 




È vantaggioso, per chi fa ricerca scientifica, lavorare su una specie modello, come il mais, su cui un’ampia comunità scientifica ha sviluppato metodologie  e prodotto ceppi particolari. Puoi permetterti di fare studi più avanzati e di essere, o di avere la sensazione di essere, più vicino alle frontiere della scienza, anziché alle retrovie.
Se invece prendi un organismo che non è stato studiato, devi cominciare con l’A,B,C, e, invece di uno, devi impiegare magari quattro o cinque anni per la preparazione.
 

Posso farti un esempio. Il mais ha venti cromosomi, 10+10, che possono rompersi e riarrangiarsi con altri cromosomi.  C’era un tizio che si era messo a studiare questa traslocazione e a cercare di capire se interessava il cromosoma 1, o 2, o 3, o 4,… Utilizzava mais di Hiroshima e Nagasaki. Ha dedicato la vita a individuare queste traslocazioni e ne ha tirate fuori 100, 200, 300... Tu, con queste traslocazioni che lui ha trovato, puoi fare certi lavori che altrimenti non potresti fare.
Se vuoi studiare dei mutanti che hanno a che fare con la sintesi di un certo aminoacido puoi chiedere, a uno dei centri che li conserva, una collezione di mutanti da cui pescare quello che tu vuoi. Lo puoi fare perché qualcuno l’ha già fatto prima di te.


M – Adesso andiamo più sul generale. Cos’è la scienza e cosa significa fare ricerca scientifica?
G -
Che domanda impegnativa! Fare scienza vuol dire operare attraverso il metodo sperimentale per acquisire conoscenze che non ci sono. Ti piace come definizione?
 

M – Sì.
G -
Questa è la scienza. Fare ricerca scientifica vuol dire studiare per capire a che livello è arrivata la scienza nel settore in cui operi e farti venire qualche idea su dove indirizzare gli sforzi per acquisire le  conoscenze che mancano. La capacità del ricercatore consiste nel saper fare le domande giuste all’oggetto del suo lavoro, nel caso mio all’organismo su cui studio, formulare delle ipotesi, saggiarle sperimentalmente, elaborare i dati che si sono ottenuti e discuterli alla luce delle conoscenze che la scienza ha sviluppato in quel settore. Sono stato un po’ troppo vago?



M – No, no, va bene. Nella ricerca l’ipotesi formulata può essere confermata o smentita dall’esperimento: capita che ci sia anche una terza possibilità?
G -
Che tu abbia posto  male la domanda e quindi la risposta che ottieni non è né sì né no.  Se la poni bene una risposta riesci ad averla.
 

Ti faccio un esempio. Quando ero da Rédei  si discuteva molto sul perché negli organismi superiori - piante, animali -  non fossero stati individuati, come nei batteri, mutanti (cioè cambiamenti di geni) che causassero ad esempio un blocco nella sintesi di aminoacidi, di vitamine.
L’ipotesi poteva essere che non riuscivi a tirar fuori il mutante che si è bloccato, a trovarlo (mentre nei batteri sì) perché in un organismo superiore un gene è presente più di una volta, è presente in due, tre copie.
Se con i raggi x creo la mutazione di un solo gene, gli altri due geni presenti mantengono  ancora  l’informazione giusta. Ciò non permetteva di vedere il mutante, perché mascherato dalla presenza degli altri due geni con ancora le informazioni giuste. Per vedere la comparsa del mutante, dovevi provocare la mutazione di tutti e tre i geni
Statisticamente, la probabilità di far mutare tre geni anziché uno è bassissima, dovresti avere una popolazione di milioni di individui.
 

La cosa mi appassionava e quindi avevo elaborato un’ipotesi. Avevo pensato che, siccome certi amminoacidi sono essenziali per la pianta, che deve averli se no muore, potevo cercare di raccogliere in giro per il mondo, o indurre, mutanti che sapevo che morivano molto presto, allo stato di embrione o di piantina, e poi dargli questo amminoacido che io cercavo e vedere se sopravvivevano.
Ho passato quell’ anno nel Missouri a scrivere in giro per il mondo per farmi mandare dei mutanti cosiddetti letali, cioè che muoiono molto presto. Avevo prodotto, utilizzando sostanze chimiche, anche una mia collezione.
Tornato a Milano, insieme a una borsista che mi aiutava, ho provato a far crescere questi embrioni del mutante o su un terreno di crescita minimo, cioè solo minerale, o su uno arricchito con amminoacidi. Finché ho trovato un caso in cui sul terreno arricchito con gli amminoacidi il mutante cresceva, sul terreno minimo moriva. Era una differenza netta, bella, pulita.
 

 
F20 - Sezione di foglia di mais


Dopo abbiamo cominciato a fare le prove utilizzando, con metodo, i vari amminoacidi e abbiamo capito che un mutante, che tra l’altro era stato prodotto a Verderio, cresceva solo se nel terreno aggiungevi prolina, se no crepava.
Da lì abbiamo cominciato con gli studi di biochimica, con la collaborazione con istituiti scientifici, anche all’estero, e infine il lavoro è stato pubblicato. Ero anche andato subito in America a raccontare questa cosa a un Congresso, perché ero molto gasato. Lì uno stronzo americano, pace all’anima sua perché è morto, che era una specie di papà della genetica mi fa:“Gavazzi, mandami i semi che faccio la verifica”, perché nella scienza funziona così, se uno fa una cosa gli altri verificano che sia vera. L’anno dopo lo trovo ancora e mi dice: “Gavazzi è vero quello che hai scritto”. Come è vero? Se l’ho pubblicato, vuoi che racconti delle palle? M’ha fatto girare i coglioni.
 

Questo come esempio. Non è che fosse una scoperta sconvolgente, però nel mio piccolo, avevo questa ipotesi, ho raccolto il materiale – evidentemente mi è andata anche bene –, ho avuto la collaborazione di questa ragazza che era brava, è stata lei a fare l’osservazione iniziale, che quando c’erano gli aminoacidi il mutante faceva molte più radici. Aumentando la dose crescevano ancora di più.
Questi risultati sono stati importanti perché mi hanno dato visibilità negli altri laboratori del mondo. Una soddisfazione insomma, un po’ di benzina per lavorare ancora.
Grazie a questi lavori sono riuscito a vincere il concorso per diventare docente.



M – Altri risultati interessanti del tuo lavoro?
G - Dopo sono passato ad altri tipi di ricerche. Mi sono occupato, ad esempio, dei pigmenti delle piante. Ho individuato il gene del colore, che in letteratura non c’era, attraverso una collezione di varietà di mais raccolte a Chochabamba (Bolivia).
Ne ho parlato in un congresso e con Steve della Porta, che stava studiando un gene vicino, che mi ha detto “Oh, che bello, dai facciamo qui, facciamo là …”, lui è uno che trasmette entusiasmo. Ed eravamo così entusiasti che un giorno, in un aeroporto, forse a Amsterdam, stavamo discutendo quando, a un certo punto “cazzo, l’aereo, l’aereo”. Corriamo al terminal: già chiuso. Ci fanno entrare di corsa. Entriamo, ci sediamo e sentiamo l’annuncio: “Benvenuti al volo tal dei tali per Sidney”.  A Siidneyii!? "No, aiuto, ferma, ferma". Rimettono giù la scaletta. I passeggeri chiedevano cosa succedesse, io ho spiegato e allora tutti ci hanno applaudito.
Basta adesso, ormai sai tutto di me.
 

M –No, no, ancora qualche domanda, più generale.  Si può parlare di  limiti oggettivi della scienza, di fenomeni di cui “si sa” che non si potrà mai dare una spiegazione, domande a cui “si sa” che non si potrà mai dare risposta: o è solo una questione di tempo?
G -
Bella domanda, qui siamo nella filosofia della scienza. Ti posso dare una risposta molto personale.
Chi è dentro nella scienza può pensare che la conoscenza scientifica non abbia limiti. Personalmente penso invece che ne abbia. Forse è solo una sensazione, la sensazione che il metodo strumentale avrà ancora tantissime possibilità però incontrerà dei limiti, e che certi fenomeni probabilmente non possono essere esplorati con gli strumenti.
 

M - Anche nel tuo campo di studio?
G -
Anche nel mio campo? Mah, questo è difficile da dire.
 

M - Da profano, ho la sensazione che nello studio dell’universo, oltre un certo limite sia difficile spingersi. Però nel piccolo…
G -
Non so, onestamente non saprei dirti. Mi è congeniale pensare che ci siano dei limiti all’approccio scientifico, alla conoscenza. Immagino che per certe forme di energia non siamo in grado di sperimentare. Però quali ambiti della scienza abbiano maggiori limiti degli altri, non lo so. 


Quello che so dirti è che non è giusto, anche se possiamo farlo, indagare su tutto. Questo sì.

M – Questa era proprio la domanda successiva. Pensi invece che uno scienziato, o la comunità scientifica, possa (o debba) fermarsi davanti a un traguardo raggiungibile, se fosse evidente che l’applicazione di quella scoperta scientifica danneggerebbe l’umanità, la terra?
G -
Secondo me sì. E penso anche che su questi temi non dovrebbero decidere solo gli scienziati, perché siamo tutti responsabili e bisognerebbe coinvolgere l’opinione di tante persone. Anche perché chi opera nella scienza è un uomo come tutti gli altri, con i suoi limiti, le sue passioni e una formazione personale che lo può portare a sottostimare i rischi di quello che sta facendo.
 

Per questo e per una serie di altri motivi, considerando l’enorme potere che la scienza ha di modificare la natura, è importante esprimersi sull’opportunità o meno di andare avanti in un certo tipo di ricerche.
 

Mi riferisco, ad esempio, agli studi fatti per cambiare il codice genetico, creando nuovi codici con la pretesa di controllare, di imporre noi l’evoluzione della specie umana, sostituendoci a quella che è stata la selezione che ha operato per 4 miliardi di anni: una follia.
 

Prendiamo la terapia genica, che pretende di sostituire un carattere sostituendo un gene (concetto sbagliato, lo vediamo dopo): ammesso anche che tu riesca a creare un nuovo carattere, prima di tutto non sai le conseguenze, perché non le sapremo mai,  ma poi, perché lo fai? Un giorno ci potrà essere un benestante che ti chiederà di fargli avere un figlio con gli occhi azzurri, alto tot, e allora tu cosa fai? Accontenti quel tizio che può pagare e il povero cristo invece … Come si chiama quel libro di Orwell, di quella società umana in cui tutti sono come delle larve, degli schiavi e sono pochissimi quelli che decidono. Il protagonista è uno che si ribella … il rischio è un pochettino questo.
 




M – Accennavi ai tuoi dubbi sulla terapia  genica …
G –
Sì. L’idea che ci sia un rapporto lineare fra un gene e un carattere, presentata dai biologi molecolari negli ultimi 40, 50 anni, è un concetto sbagliato. Salvo rarissimi casi, un carattere è dovuto a una rete di geni, a una rete metabolica, a un insieme di fattori ambientali che agiscono su di lui.
Ma, anche se fosse possibile, come ho detto prima, le mie perplessità sarebbero forti.
 

M - Quindi non pensi che la scienza debba comunque perseguire la conoscenza e poi spetti ad altri organismi, politici in senso lato, decidere cosa utilizzare e cosa no?
G -
Siamo arrivati a un punto in cui i metodi di indagine sono così potenti e le conoscenze così avanzate, che si potrebbe fare una ricerca con implicazioni e ricadute sull’umanità molto gravi, molto pesanti (penso ad esempio alla clonazione umana).
 

Se tornassimo indietro alla scienza di uno o due secoli fa, non avrei difficoltà a dire che la conoscenza è buona in sé e bisogna sempre e comunque lasciarla andare avanti.
Al punto in cui siamo non basta dire “io scienziato faccio la ricerca e tu, che controlli elargendo i soldi e facendo politica, decidi se e come applicarla” .
Oggi, per le gravi implicazioni che potrebbero derivare dalla sua attività, lo scienziato deve assumere in prima persona la responsabilità e fare scelte che forse prima non gli competevano.
 

Certo non deve restare da solo a scegliere, anche perché  molti sono così influenzati dal profitto, dal fatto che la grande industria paga, che non sono capaci di dire di no.


RITORNIAMO A VERDERIO
 

M - Torniamo a Verderio, e poi abbiamo finito. Abbiamo parlato dell’infanzia, ma da Verderio non ti sei mai distaccato del tutto…
G –
No, perché ho sempre avuto una forte attrazione per certe cose della vita : gli insetti, le donne,  -[ M- Ah,ah,ah: all’accostamento non sono riuscito a non ridere] - la natura. Cose che mi hanno sempre attirato, fin da bambino. Sono poco urbano, sento il bisogno della terra, del contatto con la terra e mi sono sempre dato da fare per mantenere questo rapporto.
 

Da giovane, non avendo soldi, sfruttavo le case di famiglia, ad esempio a Ponte di Legno. Però c’era mia moglie e mia madre che si scontravano e io, che non sono capace di prendere una posizione netta, ero sempre a disagio.
Quando sono riuscito ad avere qualche soldino ho preso delle case in affitto in zona, a Cernusco Lombardone   piuttosto che a Odiago.
 

Arrivato a 50 anni, dopo una movimentata vita sentimentale, ho pensato che se ancora non fossi riuscito a farmi una casa in campagna, non l’avrei più fatta. Allora ho parlato con mio padre e gli ho detto:“Senti dammi un aiuto, se puoi. Facciamo sistemare la casa di Paderno, e ne prendo una parte per me”. Risposta: “Assolutamente no, i tuoi amici, che sono un po’ balordi, te li tieni per te. Io voglio stare tranquillo”. Poi gli è spiaciuto, forse dopo aver parlato con la mamma, mi ha telefonato e mi ha detto di averci ripensato e di volermi fare una proposta: “Ti anticipo i soldi che ti spettano per farti una casa a Verderio, il progetto lo fa Alberto (mio fratello, che è architetto) stai dentro in questa cifra”.
Lo stipendio di professore è abbastanza buono, ma non ti permette di farti una casa in più; io non facevo consulenze (a parte quei tre anni che ho lavorato sul pomodoro), perché la mia è sostanzialmente una ricerca di base. La sua proposta quindi mi andava bene e mi sono costruito questa casa.



F21 - Bianca Alberti, moglie di Giuseppe

 

Qui, o con Bianca (5), mia moglie, o da solo, passo due o tre giorni alla settimana e ci sto benissimo, mi piace. Qualche volta d’inverno mi sento un po’ solo, ma appena il tempo comincia ad essere più decente, in primavera, e puoi cominciare a uscire a lavorare la terra o a fare dei giri in bici, qui ti ricarichi per tutta la settimana.
 

M - Sai che molti a Verderio ti conoscono come “l’uomo con lo zaino”?
G -
A sì? Non lo sapevo … Sì, però è vero, in paese sono spesso in giro con lo zaino. Adesso basta, no?
 

M - Basta, basta. Grazie…


NOTE
(1) Giuseppe Gavazzi, LES PETITES CHOSES DE LA VIE, 2013. Un brano del libro è stato pubblicato su questo blog l'8 dicembre 2013.

(2) Di Vanna Gnecchi Ruscone (1914 - 2010) su questo blog potete trovare due brani di un diario da lei scritto negli anni della guerra. Il primo, pubblicato venerdì 17 aprile 2009, si intitola "28 APRILE 1945 (28 APRILE 1799 BATTAGLIA DI VERDERIO)" e riguarda l'episodio dell'arresto della colonna tedesca, di cui parla anche Giuseppe Gavazzi in questa intervista.
L'altro brano, domenica 12 luglio 2009, si intitola "14 FEBBRAIO 1945 - BOMBE SUL MULINO DI PADERNO D'ADDA". 

(3) I fatti narrati da Giuseppe si sono svolti il 28 aprile 1945. Su quegli avvenimenti puoi trovare notizie in questo blog, sotto l'etichetta "Regime fascista e Liberazione", in data 17 aprile 2009. Una testimonianza sulla giornata è contenuta anche nell'intervista all'ex sindaco di Verderio Inferiore, Enrico Zoia, pubblicata il 4 giugno 2011. Vedi inoltre la nota (2), precedente a questa.

(4) Gabriella Consonni, Professore di Genetica Agraria all'Università degli Studi di Milano.

(5) Bianca Alberti, restauratrice. Cerca su questo blog una sua intervista (4 maggio 2012) e le immagini dei restauri che, insieme alla collega Anna Soragna, ha effettuato  a Robbiate, presso la chiesa parrocchiale  e il santuario della Madonna del Pianto.

FOTOGRAFIE
Le fotografie n.2 -3 -4 -10 -12 sono ricavate dal libro: GLI ANTENATI DEI 6 FRATELLI FUMAGALLI ROMARIO. STORIA DI UNA GENEALOGIA LOMBARDA, Giulio Fumagalli Romario, Monza, 2013.

Le fotografie n. 7 -15 -16 - 17 - 18 - 19 - 20 sono tratte dal libro di Giuseppe Gavazzi (vedi nota 1).

La n. 6 è stata scattata da Giorgio Oggioni.

Le n. 1 - 9 - 13 - 14 sono scattate da me. Le cartoline corrispondenti alle foto 8 e 11 appartengono alla mia collezione di cartoline di Verderio, collezione che langue perché non ne trovo più. Se qualcuno me ne volesse regalare o, alla peggio, vendere non si faccia scrupoli.

C'ERO ANCH'IO AL CONCERTO DI TOSCANINI PER LA RIAPERTURA DEL TEATRO ALLA SCALA di Francesco Gnecchi Ruscone

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Nell'ultimo aggiornamento del blog, Carla Deambrogi Carta ricordava la ricostruzione del Teatro alla Scala, dopo le distruzioni subite dalla guerra, e la riapertura del teatro stesso, avvenuta l'11 maggio 1946, con un concerto diretto da Arturo Toscanini.
Dopo la lettura dell'articolo della signora Carla, Francesco Gnecchi Ruscone mi ha scritto:

“Al concerto di Toscanini per la riapertura della Scala c'ero anch'io. Per la commozione ho pianto come un vitello per tutta l'ouverture della Gazza Ladra di Rossini che lo ha aperto”.
 

L'emozione che  traspare dal racconto della signora Carla, allora diciottenne, e le lacrime di un “ragazzo” di 22 anni, quanti ne aveva Gnecchi quel giorno,  sono elementi che arricchiscono  di molto la nuda cronaca dell'avvenimento,testimoniando della partecipazione e delle emozioni suscitate dai traguardi raggiunti dalla ricostruzione del paese dopo i disastri della guerra.
Per questo ho chiesto a Francesco Gnecchi di raccontarci come visse quella serata. M.B.



Arturo Toscanini


C'ERO ANCH'IO AL CONCERTO DI TOSCANINI PER LA RIAPERTURA DEL TEATRO ALLA SCALA di Francesco Gnecchi Ruscone

Non so quanto possa interessare altri il mio ricordo del concerto di riapertura della Scala. È in qualche modo un ricordo intimo, personale ma che ha assunto per me un valore simbolico.
Ho sempre sentito la Scala vicina a me, quasi con un senso di reciproca appartenenza, sia per quello che rappresenta nell'immagine della mia città che, più  personalmente, perchè casa Gnecchi a Milano dove siamo nati mio nonno, mio padre e io era adiacente, la prima casa di via Filodrammatici, tanto che l'incendio del teatro nel 1943 ne ha coinvolta un'ala, e perchè ci avevamo un palco fisso (numero 11, seconda fila, a sinistra), dove ho imparato da bambino ad apprezzare la musica e il grande spettacolo della cultura italiana.
La sua distruzione era stata una mia ferita: la sua riapertura è stata la conferma che la rinascita era possibile, anzi doverosa attraverso l'impegno di tutti noi nella ricostruzione.
Per questo il concerto di riapertura ha significato per me la fine positiva, civile della seconda guerra mondiale, come l'episodio della resa nel 1945 degli SS ai Bersaglieri, che ho raccontato in "Missione Nemo"(1), pur essendo certamente un fatto minore, ne ha rappresentato per me la fine militare.
Non saprei dire ora se quella sera avrei potuto esprimermi in questi stessi termini: la commozione avrebbe comunque prevalso su qualunque tentativo di razionalizzare. E forse è meglio così: ricordare quelle mie lacrime mi è più caro che il possibile ricordo di qualche pensata.

Francesco Gnecchi


NOTA 
(1) Francesco Gnecchi Ruscone, MISSIONE "NEMO" - UN'OPERAZIONE SEGRETA DELLA RESISTENZA MILITARE ITALIANA 1944 - 1945, Milano, 2011.
Su questo blog puoi leggere due brani del libro, pubblicati  il 19 aprile 2011 e il 20 aprile 2014.
Ricordo che "Missione Nemo"è disponibile al prestito presso la Biblioteca Comunale di Verderio. 

UN BACIO... È UN BACIO di Marco Bartesaghi

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QUESTO?
È UN BACIO
NÉ PIÙ NÉ MENO
DI QUALSIASI ALTRO BACIO.
PERCHÉ UN BACIO...
  È UN BACIO.

gay pride 2014

16 AGOSTO, SAN ROCCO di Marta Cattazzo

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PROTETTORE: la popolarità di san Rocco nel nostro territorio è dovuta al ruolo che aveva un tempo di intercessore speciale nella guarigione delle malattie epidemiche , in particolare peste e colera. Il suo culto si diffuse ben presto e dovunque rapidamente, specialmente a partire dal XV secolo, a motivo delle continue pestilenze che infestavano la nostra penisola, tanto da oscurare la fama di san Sebastiano, che era invocato per la stessa protezione. Agiva anche nei confronti delle malattie del bestiame e in generale contro le calamità naturali; era pure patrono dei pellegrini, garantiva ai viandanti in difficoltà una speciale protezione. All’inizio del Seicento il suo ruolo di protezione fu oscurato dalla figura di san Carlo, il cardinale della peste per eccellenza. Comunque la popolarità di san Rocco non scomparve m,ai dl tutto.
 


 
San Rocco a Bresciadega, Val Codera


Al santuario della Madonna dei Morti dell’Avello di Bulciago, vi è una grande tela che orna l’altare: la Madonna e il Bambino donano lo scapolare ai santi Rocco e Giobbe,, inginocchiati ai piedi della Vergine, rappresentati come protettori degli appestati (anche Giobbe a volte, sebbene raramente, appariva in queste vesti) e delle anime del purgatorio, le quali, con l’intercessione di Maria, otterranno il paradiso.
ATTRIBUTO PRINCIPALE: piaga sulla gamba
ATTRIBUTO SECONDARIO: cane – col pane in bocca - , vestito da pellegrino, conchiglia, bastone.




 
Statua di san Rocco a Brienno, Como


NOTA BIOGRAFICA: nato da nobile famiglia a Montpellier, in Francia, negli ultimi anni del XIII secolo, si narra che appena venuto al mondo avesse sul petto una croce rossa. Con gesto francescano, appena giovane, diede i suoi beni ai poveri e si avviò in pellegrinaggio a Roma. Infieriva in Europa una terribile pestilenza e Rocco, dove sostava, curava gli appestati, avviando la sua fama di taumaturgo. Contagiato del morbo si era ritirato per morire in solitudine, ma un cane inviatogli da un nobile gli avrebbe recato cibo e leccato la piaga fino a guarigione. Tornato al suo paese, non fu riconosciuto, perché la peste lo aveva trasfigurato, e fu catturato come spia e imprigionato poco prima di morire.
Una scritta, apparsa prodigiosamente sulla parete del carcere, rese noto a tutti che Rocco, finalmente riconosciuto dalla gente grazie alla croce sul petto, veniva designato da Cristo patrono degli appestati.

Brano tratto dalla tesi di laurea di Marta Cattazzo, intitolata: LINGUAGGIO DELLE IMMAGINI VOTIVE - Analisi di pitture murali nella devozione popolare della Brianza.

ALCUNI MONUMENTI RELIGIOSI IN MEMORIA DELLE VITTIME DELLA PESTE di Marco Bartesaghi

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Molti segni -steli, croci, piccole cappelle – sorsero, quasi in ognuno dei paesi del nostro territorio, in ricordo delle vittime delle epidemie di peste che avevano colpito le popolazioni locali nel XVI e XVII secolo. I luoghi prescelti corrispondevano spesso a quelli che, durante le pestilenze, avevano ospitato i malati, i cosiddetti Lazzaretti, o accolto le spoglie dei defunti. 

Vi presento alcuni di questi luoghi, quelli che sono riuscito a rintracciare nei paesi più vicini a Verderio. Non è certamente un panorama completo, ma conto sul vostro aiuto per arricchirlo. Vi invito quindi a segnalarmi i monumenti che ho trascurato e di cui siete a conoscenza o, meglio ancora, ad inviarmi qualche loro immagine e qualche riga sulla loro ubicazione e la loro storia.


VERDERIO




A Verderio, è sicuramente legata alle epidemie di peste la cappella di San Rocco, situata in via Sernovella, angolo via San Rocco. Lo attesta la dedicazione al santo che fu colpito dal morbo mentre assisteva gli ammalati, ebbe la fortuna di sopravvivere e, fin dal Medioevo, è invocato dai fedeli come protettore da questo flagello.
 








La cappella, di cui non si conosce l’origine, ma presente in una stampa di fine settecento, è un piccolo edificio di forme neoclassiche, chiuso da un cancello in ferro. All’interno, sopra un piccolo altare sporgente dal muro, l’immagine del santo composta da piastrelle di ceramica.



Per saperne di più su questo edificio, puoi cercare nel blog l’articolo “SAN ROCCO”, tratto dalla tesi di laurea di Marta Cattazzo, pubblicato il 4 aprile 2010.




Restando in territorio di Verderio, pare che fosse in origine dedicata ai morti di peste anche la cappella dell’Immacolata (o della Madonna degli Angeli), in via per Cornate. Sembra infatti che nell’ottocento fosse conosciuta come Cappella dei Morti, che, al posto dell’immagine di Maria, contenesse un dipinto con le anime del purgatorio e che nelle sue vicinanze fossero stati trovati molti resti umani.
 

Per saperne di più cercate nel blog i seguenti articoli, pubblicati il 20 novembre 2009:
 

- IMMACOLATA o MADONNA DEGLI ANGELI IN VIA PER CORNATE, di Marta Cattazzo;
 

- LA NUOVA CAPPELLETTA DI VERDERIO (CRONACA DOMESTICA), di Ercole Gnecchi Ruscone, articolo scritto nel 1882 per il Giornale di Famiglia;
 

- DICEMBRE 1987:INTERVISTA A DELIA ZAMBELLI di Maurizio Oggioni e Marco Bartesaghi. Delia Zambelli, di Verderio, è l’autrice dell’attuale immagine della Madonna.


ROBBIATE

Nel suo libro “Robbiate: viaggio tra fede e umane vicende”, Maria Fresoli racconta che, dopo l’epidemia di peste del 1524, Robbiate avrebbe potuto avere una cappella dedicata a san Rocco, se la sua costruzione non fosse stata impedita dalle beghe intercorse fra i famigliari della nobildonna, Margherita Ajroldi, che aveva lasciato una somma di 50 lire allo scopo di costruire la cappella e un lazzaretto. 




Se quella voluta da Margherita non si poté fare, un’altra edicola sacra, in territorio di Robbiate la sostituisce nel compito di ricordare i morti per la peste. Si trova in via Monterobbio, sulla sinistra salendo, ed è conosciuta come "Madonnina del Cavetto", dal nome del terreno su cui sorge e che fu cimitero per le vittime del morbo. La cappellina, che conserva una statua in gesso rappresentante la Pietà, è relativamente moderna, essendo stata costruita un centinaio d'anni fa.




PADERNO D'ADDA





Oggi è, per tutti, la “chiesetta degli Alpini”, il piccolo edificio sacro a destra del ponte di Paderno d’Adda, all’imbocco della ripida discesa che porta al fiume. In origine però era “l’Oratorio di san Rocco” ed era sorto lì perché, probabilmente, luogo di sepoltura dei morti per la peste. Del resto la l’edificio era comunemente chiamato anche “Chiesina dei Morti”, tanto che con questa denominazione la indicava nel 1912 il parroco di Paderno, raccontando nel Liber Cronicus del suo nuovo altare, proveniente dalla vecchia parrocchiale di Verderio Superiore (1).


Fin dalla seconda metà del XVIII secolo la chiesa è dedicata a Maria e a Santa Elisabetta e il suo nome ufficiale è “Chiesa della Visitazione”.


CALUSCO D'ADDA

 





Una piccola chiesa sulla riva della’Adda, fu fatta costruire nel 1836 dagli abitanti di Calusco, in memoria di coloro che, rifugiatisi in questo luogo per proteggersi dalla peste del 1630, vi trovarono la morte.
 






I ruderi fra i quali gli abitanti avevano cercato riparo dalla malattia, erano quelli dell’antico convento benedettino, dedicato a san Michele, fatto costruire nel 1099 dai signori di Calusco in un loro terreno detto “dei Verghi”: il convento di Vergo.







Sopra l’altare una crocifissione con Maria che, rivolgendo lo sguardo ai fedeli, indica con la mano destra il figlio morente. Ai suoi piedi le anime del purgatorio fra le fiamme.





Il paliotto dell’altare è un quadro ad olio raffigurante una processione che si reca alla chiesetta per commemorare i morti di Vergo.




Sulla sinistra dell’altare, in un affresco, san Rocco, nel consueto abito da pellegrino e in compagnia del cane che, secondo la tradizione, gli avrebbe portato quotidianamente il cibo, durante la malattia.



In questa, come in altre immagini, ad esempio quella di Verderio di cui sopra si è parlato, il volto di san Rocco appare florido e rubicondo come certo non ci si aspetta da chi è stato vicino alla morte perché colpito dalla peste.




AICURZIO



Una cappella, meta di devozione degli abitanti del paese, sorgeva nel luogo di sepoltura dei morti per le epidemie del 1576 e del 1630.
Le loro anime, secondo la tradizione, ebbero il potere, nel 1705, di mettere in fuga le armate austro – piemontese e franco – spagnola, che si fronteggiavano in una delle battaglie per la successione al trono di Spagna.
Questo “miracolo”, il “Miracolo dei Morti”, accrebbe la devozione alla cappella, tanto che, nel 1725, al suo posto venne costruita la Chiesa dei Morti, oggi conosciuta come Santuario di Campegorino. Nel 1787 alla chiesa fu affiancato il cimitero e, nel 1905, il campanile
.





Su quest’ultimo una statua di san Rocco e una di San Sebastiano,entrambi considerati protettori dalle epidemie, ricordano forse l’antica origine dell’edificio sacro. Le immagini dei due santi sono anche dipinte ai lati dell’altare maggiore.





SULBIATE 












Una lapide ricorda a Sulbiate i morti della peste del 1630. 










È posta in una rientranza a sinistra della facciata della chiesa di S. Pietro Apostolo. 
La lapide recita: "QUI RIPOSANO I MORTI DI PESTE DI SULBIATE SUPERIORE -L'ANNO 1660"




Essa è ciò che rimane dell’antica chiesa, in luogo della quale, nel 1931, è stato costruito l’attuale edificio sacro.


BERNAREGGIO








Una colonna in pietra, sormontata da una croce, del 1630, posta su un basamento del 1819, si innalza dalla rotonda all’incrocio fra la provinciale che da Bernareggio porta a Vimercate e la strada per Villanova.
Per la sua posizione in prossimità di un incrocio, è detta “colonna compitale”, dalla parola latina compitum ( trivio o quadrivio in italiano).












È conosciuta come “colonna del Ciavel”, dal nome di chi la fece costruire, Paolo Chiavelli, per ricordare i morti nella peste del 1630.





RONCO BRIANTINO












A Ronco Briantino un piccolo tempietto ottagonale è dedicato “ai morti della Brughiera”. È stato costruito nel 1914 dove già esisteva un monumento in ricordo delle vittime dell’epidemia di peste del 1576.








All’interno un bell’affresco: la “Madonna del Carmine e le anime del Purgatorio”. Tempietto e affresco, restaurati da pochi anni, sono in perfetto stato di conservazione.




L’edificio, in una zona ancora isolata rispetto al resto del paese, è situata  in un prato ed è leggermente più in alto rispetto alla strada che conduce a Carnate. Nel prato, parallelamente alla scalinata d’accesso alla chiesa, una Via Matris Dolorosæ invita i fedeli a meditare sui dolori sofferti da Maria durante la sua vita.








NOTA
(1) Cerca in questo blog: A PADERNO D'ADDA TRE ALTARI DELLA VECCHIA CHIESA DI SAN FLORIANO DI VERDERIO SUPERIORE , giovedì 10 ottobre 2013


DOVE HO TROVATO LE NOTIZIE CONTENUTE IN QUESTO ARTICOLO


Per quanto riguarda Verderio e Ronco Briantino, ho fatto riferimento alla Tesi di Marta Cattazzo, IL LINGUAGGIO DELLE IMMAGINI VOTIVE - Analisi di pitture murali nella devozione popolare della Brianza., 2002. L’intera tesi, che analizza le immagini votive di Lomagna, Ronco Briantino, Bernareggio e Verderio, è consultabile presso la biblioteca di Verderio. Ampi stralci sono stati pubblicati nella rivista I Quaderni della Brianza, n.146, gennaio – febbraio 2003. Molte parti della tesi, riguardanti le edicola sacre di Verderio, sono pubblicate su questo blog. Le trovate sotto le etichette “Marta Cattazzo” e “Immagini sacre”.
 

Per Robbiate ringrazio Maria Fresoli e il suo libro ROBBIATE: viaggio tra fede e umane vicende.
 

Ho trovato le notizie riguardanti Paderno d’Adda  in PADERNO D’ADDA . Storie di acqua e di uomini, Autori vari, 1988, Cornate d’Adda.
 

Ho consultato inoltre i seguenti siti internet:
 

http://www.parrocchie.it/calusco/sanfedele/Calusco/Storia_Calusco.htm
 

http://rete.comuni-italiani.it/wiki/Aicurzio/Santuario_di_Campegorino
 

http://it.wikipedia.org/wiki/Sulbiate
 

http://www.archiviostoricobernareggese.it/SITE/territorio/la-colonna-compitale.html

LA PESTE MANZONIANA (1630) NEI REGISTRI PARROCCHIALI DI ROBBIATE a cura di Maria Fresoli

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Nei primi anni del seicento divenne parroco di Robbiate don Giorgio Spada. Egli succedeva nella guida della parrocchia a don Giacomo Spada, di cui era nipote.
Don Giorgio, oltre al ministero sacerdotale, svolgeva la funzione di “Notaio Apostolico”.
Molti sono gli scritti che egli ci ha lasciato, ed è grazie ai suoi appunti che si sono potute ricostruire, seppur sommariamente, le vicende iniziali della parrocchia di Robbiate.
Don Giorgio fu parroco per 46anni. Il suo ministero si svolse nella prima metà del seicento, nel pieno della dominazione spagnola, uno dei più travagliati e difficili periodi della storia della nostra parrocchia.
Infatti, oltre al prorompere della malvivenza e al dilagare della gran miseria tra la popolazione, sappiamo - grazie alle sue annotazioni - che il 18 settembre del 1629, il passaggio da Robbiate dei Lanzichenecchi e le conseguenti razzie delle case e delle campagne, lasciarono tra la gente una gran desolazione.
A dar manforte a queste disgrazie, nel luglio del 1630 da Milano arrivò la peste, che fece undici vittime, col conseguente panico tra gli abitanti. In quelle circostanze dolorose, il buon parroco, come possiamo leggere nel registro dei morti di quegli anni, somministrò con animo pietoso e caritatevole, i religiosi conforti ai poveri contagiati, che erano isolati in un capanno sul Monterobbio e che dopo la morte venivano sepolti nel cimitero del “Cavetto”, probabilmente una piccola cava di calce, materiale assai adatto per deporre i morti del contagio. La calce è un materiale che si trova in abbondanza sul Monterobbio, tant'è che, fino a pochi decenni fa, era in attività la cementeria Mazzoleni, proprio sopra la chiesa parrocchiale.
Il pietoso impegno di don Giorgio nei confronti dei malati non fu ben visto dai parrocchiani, i quali, sospettando che pure lui avesse contratto il morbo, lo evitarono disertando per parecchi mesi la chiesa.
La cronaca che don Giorgio Spada fece di quegli avvenimenti luttuosi è, dal punto di vista storico un'importante fonte di notizie dettagliate ed interessanti.
Evidenti sono le assonanze fra quanto lui scrive – gli untori, le crocette, ecc. - e le descrizioni di quegli eventi contenute nei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni.

Maria Fresoli
 
LA PESTE MANZONIANA (1630) NEI REGISTRI PARROCCHIALI DI ROBBIATE

 Dal LIBER MISSARUM

18 settembre 1629.
Hoggi sono calate le genti dell’Iperatore da Val Chiavena, et aloggiati in Robià 1500 cavalli, in Paderno 600, in Merà 3500 fanti: Robbiate 84
una ruina incredibile delle uve alla campagna, nelle case robbarie, capparramento de grani ai cavalli, formento. Segale, avena, orzo, fieno et paglia senza fine, et altre ruine che persona capace può immaginare.

21 settembre 1629 – giorno di S. Matteo.
Sono passati di qua 4500 fanti con più de 200 donne et figlioli. Li passaggi di questo esercito imperiale per Mantova et per Casale sono molti e molti, et ruine et danni più che più, et hanno durato per tutto il mese di ottobre.

11 novembre 1629.
A S. Martino cominciò a seguire la peste in Merate.
Gennaio e febbraio 1630.
Segue la peste in Merate, Paderno, Novate et Arlate et Imbersago.

Marzo 1630.
Segue la peste nei medesimi luoghi, fuorchè Arlate che è purgato.
 

Aprile 1630.
La peste anche a Brivio.

16 maggio 1630.
Furono unte la notte seguente, la prima volta, tutte le porte di Milano con quell’onto di peste, veleno et maleficio.


Traspare da quest’annotazione che anche nel nostro buon parroco don Giorgio Spada, s’insinuava la superstiziosa credenza del malefico veleno della peste sparso dagli “untori”:

"...s’era visto di nuovo, o questa volta era parso di vedere, unte muraglie, porte d’edifizi pubblici, usci di case, martelli.
Le nuove e tali scoperte volavano di bocca in bocca; e, come accadde più che mai, quando gli animi son preoccupati, il sentire faceva l’effetto del vedere.
Gli animi, sempre più amareggiati dalla presenza de’ mali, irritati dall’insistenza del pericolo, abbracciavano più volentieri quella credenza: ché la collera aspira a punire..." Promessi Sposi, cap. XXXII


30 maggio 1630.
Nel giorno solenne del Corpus Domini, si è fatto la solenne processione, ha cantato la messa il curato di Verde’, ha predicato su la piazza del sig. Conte il prevosto di S. Bartholomeo; hanno accompagnata questa attione altri sacerdoti et vi sono accorsi molti dalle terre libere dalla peste.


11 giugno 1630.
E’ stato portato in processione il sacro corpo del glorioso S. Carlo, per tutte le crocette delle porte di Milano, con appurati solennissimi, poi riposto sull’altare maggiore del Duomo per otto giorni. Acciò sia questo supplicato che con i suoi meriti ottenga dalla Divina Maestà la liberatione dalla peste, per tutto il popolo.


Ed ecco ancora precisa e sintetica la descrizione di don Spada che ritroviamo più ampia in un passo dei “Promessi Sposi” :
 

“Federigo resistette ancor qualche tempo, cercò di convincerli... Al replicar dell’istanze, cedette egli dunque, acconsentì che si facesse la processione, acconsentì di più al desiderio, alla premura generale, che la cassa dov’eran rinchiuse le reliquie di san Carlo, rimanesse dopo esposta, per otto giorni, sull’altar maggiore del duomo... Tre giorni furono spesi in preparativi: l’undici di giugno, ch’era il giorno stabilito, la processione uscì, sull’alba, dal duomo..." Promessi Sposi, cap. XXXII


San Gerolamo soccorre gli appestati. Statue in una cappella della Via di san Gerolamo, Vercurago


Dal LIBER MORTUORUM

Luglio 1630.
Mentre godeva questa povera terra di Robiate, il favor Celeste della preservatione della peste, contagio, che serpendo havea infetto quasi tutto il Stato et la città di Milano, oltre la diaboloca inventione dell’unto composto di peste, veleno et maleficio, venne da Milano Jacomo Ajroldo, figlio del sig. Gio. Battista, che esserciva l’arte del barbiero, il quale portandovi la peste, interruppe la quiete della terra e cagionò alla sua propria casa la mortalità.
Seben da principio fece fronte d’esser sano, essendo sospetto, avenga invece che avesse duoi giorni prima rasato un suo compagno che la mattina seguente morì di peste. Tenne il fatto secreto, sinchè il malo si scoprì in lui.

Adì 2 luglio 1630.
Venne da Milano Jacomo, figlio di Gio. Battista Ajroldo del fu Antonio; giovedì alle 4 fu assalito da febbre, venerdì andò alla capanna fatta nel suo Monterobbio, et lunedì, adi 8 a hore 6 di notte, passò all’altra vita. Fu sepolto sul Cavetto, benedetto dal Rev. Maveri Cur. Di Merate Vic. For.
Era de età de anni 25, quali compiuti questo mese medesimo.

Adì 23 luglio 1630.
La sig. Claudia, figliola del sig. Giov. Battista Ajroldo, d’età de anni 18 in circa, è morta di peste, alla capanna del suo Monterobbio a hore 12 in circa, essendo stata assalita dalla febbre et doglia di capo. Sabato 20, fu confessata, nel tempo che stette alla capanna, dal M. R. Mauri Cur. Di Merà Vic. For. E puoi comunicata da me al rastello (cancello) della terra accompagnato da una guardia.
E’ stata sepolta al Cavetto, cimiterio benedetto per li appestati: posta in una cassa.

Adì 26 luglio 1630.
La sig. Camilla, moglie di Giov. Battista Ajroldo, d’età de anni 58 in circa, è morta di peste a hore 10, Fu confessata, comunicata et sepolta come sopra.

Adì 28 luglio 1630.
La sig. Cattarina, figlia del sig. Gio. Battista Ajroldo, d’età de anni 16, è morta di peste, fu confessata, comunicata et sepolta come sopra.

Adì 7 agosto 1630.
La sig. Eva Nogara Origoni, suocera del sig. Gerolamo Francesco Ajroldo, d’età de anni 75, è morta di peste. Fu confessata da me prete Girogio Spada Cur. Di Robiate, chiamato nel principio della sua agonia. Fu sepolta nel cimiterio della Cura, sotto terra sei brazza, ben chiusa in una cassa. Essendo già dodeci giorni venuta da Milano con il soddetto Gerolamo Francesco et con la peste, benchè havessero le lor bollette (lasciapassare).

Adi 11 agosto 1630.
Margarita, serva del sig. Gio. Battista Ajroldo, è morta di peste essendo stata a Milano dieci giorni fa. Fu confessata da me prete Giorgio Spada, cur. Di Robiate e sepolta al cimiterio degli appestati.

22 agosto 1630.
Joseffo, servitore de Gerolamo Francesco Ajroldo, de anni 20 è morto di peste e sepolto al Cavetto.

Adì 23 agosto 1630.
Joconda Nogara de anni 58 è morta di peste e sepellita al Cavetto.

Adì 26 agosto 1630.
Morta di peste Lucia, moglie di Battista Valtollina, detto il Guercio, d’età de anni 58.
Il sig. Gerolamo Francesco e suo figlio hebbero la peste anch’essi,
prima il figlio e poi il padre, ma guarirono.

18 dic. 1630.
Francesca e Anastasia, figlie di Battistino Ajroldo, molinaro, de
anni 3 e 6, sono morte di peste e sepolte al Cavetto.


Maria Fresoli

TRE DONNE E UN CASSETTONE SCRIGNO DI RICORDI di Marco Bartesaghi

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Un cassettone in legno,  sormontato da uno specchio originariamente non suo. Quattro cassetti, il più in basso dei quali copre lo spazio dei segreti, il “secrèt”, dove si conservavano le cose un po’ più di valore.“Ce l’avevano tutti”, mi dicono. E allora, mi domando, che segreto era e che sicurezza poteva dare? “Per metterci mano bisognava comunque togliere il cassetto” è la risposta, semplice, ai miei dubbi.
Di mobili simili a questo ce ne sono senz’altro altri in paese, io  stesso ne ho uno in camera matrimoniale, e anche altri, come questo, saranno stati, o sono ancora, in parte adibiti a conservare “ricordi”: oggetti, carte, immagini, che una fetta di umanità ritiene importante e doveroso conservare, per non disperdere le informazioni che contengono, mentre la restante  fetta (di umanità) li considera cianfrusaglie polverose, che occupano spazio: “E anche lo spazio ha un valore!!!”.






Della prima fetta , alla quale mi sento più vicino (direi “moderatamente più vicino”, se non immaginassi già le risate in famiglia), facevano parte anche Maria Sala (1898/1979), moglie di Enrico Comi (1892/1953), e Giuseppina Comi (1925/2013), sua figlia, che abitavano nella casa detta “Salén” (da Sala), la prima che si incontrava sulla sinistra andando da Verderio Superiore a Verderio Inferiore, quando c'era ancora la divisione in due comuni, ora in via dei Municipi al numero  19 (1)

Maria Sala ed Enrico Comi
Giuseppina Comi
Nel “cassettone” Maria e, in seguito, Giuseppina conservavano le carte “ufficiali” della famiglia: atti notarili, contratti di compravendita eccetera. Insieme ad esse riponevano ritagli di giornale, contenenti notizie relative a Verderio e, in particolare, alle vicende dei suoi sacerdoti. Conservavano anche cartoline, lettere, immaginette, fotografie, e qualche oggetto.

In questo scrigno di ricordi ho già avuto modo di pescare, trovando preziosi documenti riguardanti i delitti commessi a Verderio la sera del 26 marzo 1913, quando vennero assassinate Luigia Sottocornola e la sua domestica Francesca Pochintesta.

Giornali del 1913, con gli articoli sul delitto di Verderio

Maria Sala ebbe l'accortezza, in quell’ occasione, di tenere da parte i quotidiani che avevano parlato dell'avvenimento e, più tardi, quelli riguardanti le indagini e il processo. Rarissimo, se non unico, anche un foglio con i versi della ballata intitolata “Orribile delitto di Verderio”, scritta nel 1913 dal cantastorie Domenico Scotuzza” (2)

Ora vi voglio presentare altre due “cose” provenienti dal “cassettone”. Eccole.



16 LUGLIO 1922: LETTERA A TOGNINA SALA, CUCITRICE DI BIANCHERIA

La prima è una lettera, contenuta in una busta di cm 11.5 x cm 9,5, affrancata con un francobollo da 25 cent e tre da 5, incollati sul retro, spedita il 18 luglio del 1922 da Torno, paese in riva al lago, che si incontra sulla strada che da Como porta a Bellagio.





Destinataria la “Signora Tognina Sala/ cucitrice in biancheria/casa vicino alla chiesa di Verderio Superiore/ (prov. Como)”.



La signora “Tognina”, terza delle donne di cui si parla in questo articolo, era Antonia Ripamonti (1865/1835), sposata con Angelo Sala, mamma di Maria.
 

Antonia Ripamonti con la figlia, Maria


Le scriveva Maria Monzini, una cliente, per darle istruzioni su come avrebbe dovuto confezionare gli accappatoi e le camice che le aveva ordinato.

La lettera, datata 16 luglio 1922, è composta da quattro pagine di cm 10,30 x cm 18,00, sulla prima delle quali sono incollati due campioncini di ricamo di circa cm 2,5 x cm 4,00.
Questo il testo, che occupa le prime tre pagine:


Prima pagina
“16 luglio 1922
Cara Tognina Sala,
questo ricamo a fiori e foglie lo adopera per le camicie da notte [si riferisce al primo campione di stoffa]

questo per  gli accappatoi e le camicie da giorno [secondo campione]
Le camicie da notte devono essere scalfate
(3) precise come il campione; le maniche siccome il ricamo e l’orlatura (come al collo) alta cm [manca la cifra] circ, va in allungatura bisognerà accorciarlo di un pezzetto.

Seconda pagina
Nelle camicie da giorno sul davanti bisognerà anche tagliarne via una lista altrimenti il bordo e l’orlatura vengono più alti del dietro.
Le orlature sul davanti e alle spalline vanno fatte con la stoffa di pelle d’ovo
(4) che le manderà la mamma invece dietro volta giù l’orlo senz’altro. Dietro per le pieghe come nel campione. Le cuciture le faccia pure col suo solito sistema che infatti resteranno meno grosse.
L’attaccatura delle spalline alle camicie giorno va fatta sulla stoffa grossa dietro al ricamo e non in lato all’orlatura perché si strappa.


Terza pagina
Gli accappatoi vanno orlati come il campione mi raccomando di fare un bel punto piccolo e col cotone fino. Essendo il pizzo più alto di quello del campione in giro al collo andrà scalfato un po’ di più.
La ringrazio e saluto
Maria Monzini”



Nell’ultima pagina, la quarta, i disegni su come realizzare il davanti e il dietro delle camicie giorno.

Quarta ed ultima pagina


Oltre alla lettera, la busta contiene un campione di stoffa di cm 10,50 x 15,00 circa con due cuciture e due frasi di spiegazione:

“Altezza delle orlature delle camicie”;


“Come vanno attaccati i bordi”.



Il campione in stoffa


15 -16 AGOSTO 1940: BOMBE SU MERATE

Il secondo oggetto che vi voglio presentare,  contenuto in una scatoletta di cartone senza coperchio (cm 10x6,5x4,5),






avvolto in carta bianca e accompagnato da un foglietto di spiegazione, è un frammento di ferro arrugginito.





La sua presentazione è nel foglio che lo accompagna, scritto a mano da Giuseppina Comi, su entrambe le facciate.


"Memoria"
"È una scheggia in ricordo dell’incursioni aerea fatta dagli Inglesi, su Merate la notte del 15 – 16 agosto 1940. Ci sono stati 4 morti e vari feriti, e case distrutte.
Ne hanno scaricate 12 bombe, varie incendiarie e varie esplosive”.




“Questa tremenda notte la passai separata dai miei cari essendo a Merate per fare i S. Esercizi. La passai in cantina nel collegio delle Dame Inglesi in compagnia delle suore, del Padre Predicatore, delle compagne. Fummo salve per mezzo della preghiera… Giuseppina”


Per questa, come per le precedenti “incursioni” nel cassettone, devo ringraziare il signori Alessandro Comi, sua moglie, Andreina Colombo e la loro figlia Carla.

NOTE
(1) Leggi in questo blog l’articolo “SALIN”, pubblicato il 18 luglio 2010.
 
(2) Puoi leggere su questo blog l’articolo “26 MARZO 2013. DUPLICE OMICIDIO A VERDERIO”, pubblicato il 7 marzo 2014 e ascoltare la ballata cantata da Fabio Oggioni, cercandola in data 8 marzo 2014.
 
(3) Scalfare: “Nel linguaggio di sartoria, tagliare o conformare la spalla di una giacca, di un soprabito, di un maglione e sim. così da ottenere lo scavo per l’attaccatura delle maniche” http://www.treccani.it/vocabolario/tag/scalfare/
 
(4) Pelle d’uovo: La mussola (o pelle d'uovo) è un tessuto molto leggero in armatura tela e a trama molto rada (simile alla garza da medicazione). Fu introdotta in Europa dall'Asia nel XVII secolo, Il suo nome deriva dalla città di Mossul sulle rive del Tigri dove gli europei la incontrarono la prima volta ma ha la sua origine nella città di Dacca in Bangladesh. Originariamente era prodotto con cotone, poi con la lana e il lino. Viene utilizzato per l'arredamento nei tendaggi, nella biancheria da letto, nella biancheria intima e per l'abbigliamento femminile come le camicette.La mussolina è la versione più leggera di un tessuto di mussola, quella finissima viene chiamata pelle d'uovo. http://domanderisposte.tuttogratis.it/professione-casalinga/8526/che-cos-e-la-pelle-d-uovo/1464311/
 

IL CIARLATANO racconto di Erminia e Carolina Gnecchi Ruscone

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Un viaggiatore vestito elegantemente entrò una domenica di sera in una bettola del villaggio, ove si fece dare un pollo arrostito e una bottiglia di buon vino. Appena ebbe messo in bocca il primo boccone, si mise a gemere in una maniera compassionevole, dicendosi tormentato da quindici giorni d'un gran mal di denti. Tutti i contadini che si trovavano nell’ [osteria] (1) gli testimoniarono una grande compassione.
Qualche istante dopo sopraggiunse un ciarlatano, che essendosi seduto in un angolo, domandò un bicchiere di acqua-vita (sic)
Quando egli fu informato dell’indisposizione dello straniero, assicurò che gli darebbe (sic) un buon rimedio. Levò dalla sua cassetta un pezzetto di carta dorato, artisticamente piegato, lo aprì e disse: Signore voi non avete che a intingere la punta del dito in questa polvere bianca e [applicarvela](1)sul dente.





Lo straniero avendo fatto quello che gli era prescritto gridò subito: Dio che ben essere subitaneo ho provato! Tutti i dolori sono all’istante dissipati. Allora avendo fatto dono di uno scudo al ciarlatano, l’invitò a cenare con lui.
Tutta la gente che si trovavano (sic) all’osteria e tutti gli abitanti del villaggio si affrettarono per comperare di questa prodigiosa polvere, e il ciarlatano ne vendé ben cento piccoli pacchetti a dodici soldi ciascuno.
Quando qualche paesano si lamentava del mal di denti, si correva al rimedio prodigioso che, con gran meraviglia di tutti, non alleviava nessuno.
Finalmente venne in chiaro la frode. Capirono che i due viaggiatori si erano intesi per ingannarli. La polvere bianca non era che un po’ di creta in polvere. I due ladri furono arrestati e espiarono in una casa di correzione questo tiro e molti altri che avevano fatto.
 
Erminia e Carolina Gnecchi




Carolina Gnecchi Ruscone
Questo breve racconto è stato scritto dalle sue autrici per “Il Giornale di Famiglia”, periodico settimanale, scritto a mano, che i componenti della famiglia Gnecchi Ruscone tennero in vita dal 1867 al 1900 circa. Il testo che qui viene pubblicato è tratto da una minuta conservata nel Fondo Gnecchi Ruscone dell’Archivio Storico (1.3.15.1) di Verderio, è pertanto probabile che alcune imprecisioni di linguaggio contenute siano poi state corrette nella versione in “bella copia”.
Erminia e Carolina erano figlie di Giuseppe Gnecchi Ruscone (1817 – 1893) e di Giuseppina Turati (1826 – 1899).
Erminia, la più giovane, nata il 13 giugno 1859, moglie del Cav. Giuseppe Rossi di Schio, morì l’11 agosto 1918.
La sorella Carolina, nata il 12 aprile 1855, morì all’età di 31 anni, l’11 gennaio 1886. Aveva sposato il Cav. Francesco Dubini, con il quale aveva avuto quattro figli.
Erminia Gnecchi Ruscone
NOTA
(1) Parola incerta

SPECIALE VACANZA di Teresina Bonalume Biella

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Signore Dio, perché non Ti prendi una giornata di vacanza… ridimensiono… perché non Ti concedi mezza giornata di svago e vieni con me questa mattina a camminare sui sentieri di questi splendidi monti? Ti mostrerò quello che già tu conosci ma Te lo descriverò come solo una persona umana sa farlo.
Ammira con me la bellezza di queste cime innevate, ora contornate da splendide nuvole bianche in un cielo azzurro, che si stagliano imponenti e maestose fino a toccare il tuo cielo. Respira con me quest’aria rarefatta e fresca e dimentica per qualche istante il motivo per cui Tu oggi non sei altrove.
Siedi accanto a me su questo masso il cui segno indica il percorso da seguire  e riposaTi. Guarda quanti fiori ci attorniano. Che colori! Che profumi! Che intensità di vita essi racchiudono. Il sole ne fa risplendere le sfumature e ne esalta armoniosamente le tonalità.
Ecco, ora apro lo zaino e ne estraggo frutti, biscotti e acqua, dividi con me il tutto, e assapora ciò che Ti offro, come fosse l’unica cosa che possiedo.
E finalmente mi guardi e sorridi. E adesso il Tuo riprendere il sentiero con me, creatura umana, Ti si fa più lieve, leggero.
Ti sbircio e non vedo i tuoi piedi toccare terra, solo allora mi accorgo che sei scalzo, non  porti scarponi, sei proprio il Signore e stai facendo ciò che io non potrò mai fare! Immagino sia il sentiero stesso che Ti dà una mano facendosi soffice sotto di Te come un tappeto, , così che Tu possa camminare senza fatica o dolore alcuno!
Di nuovo sostiamo e questa volta in contemplazione del tutto e così Ti parlo come faccio sovente, solo che ora è un tantino diverso perché Tu non sei lassù ma qui accanto a me, allora il mio esitare la si fa strada e mi par di balbettare parole inutili perché suppongo che già Tu le conosci, ma ti chiedo pazienza e Ti prego di ascoltarmi.
 

“Non vi è, lo sento, niente di più splendido di un cuore che mette al bando ogni preoccupazione umana per elevare lo sguardo in alto ove dimora ciò a cui tutti noi agogniamo: la felicità eterna.
E mi rendo conto che sto solo ora comprendendo di come essa, la felicità eterna, sia già iniziata su questo suolo, su questi monti. Sento l’abbraccio insistente e poderoso di Te che mi ha permesso di godere anzitempo di tutto questo splendore. Odoro di te ovunque mi giro, Ti seno e Ti percepisco come il solo avamposto della mia piccola ed insignificante esistenza. E la gioia mi rapisce nell’attimo stesso in cui presagisco la Tua reale presenza: è qui che ogni dubbio scompare e si dissolve per sempre nella dimora del non tempo. È qui che l’enfasi del rimirare mi ramanda una sola risposta alle mie mille e più domande.
Ora mi volgo verso Te e ti guardo confusamente, non posso osare di toccarTi per darti una semplice carezza, ma esce dalla mia bocca,ora fattasi arsa per il troppo discorrere, un semplice grazie non so dire altro.
E questo è sufficiente a farti di nuovo sorridere!”

 

È mezzogiorno, il tempo trascorso con Te questa mattina si è completamente dissolto in quel lasso di tempo in cu ho pronunziato quel semplice grazie!
Ora Te ne andrai accanto a qualcun altro che sicuramente ha più bisogno del tuo aiuto e del tuo amore. Ti lascio tormnare al tuo abituale lavoro certa di averti dato un poco di ristoro, di averti “creato” un intervallo prezioso al tuo faticoso lavoro.
Sono estremamente convinta che quel tempo che io ho passato con Te e Tu con me nessuno potrà mai, su questa terra, togliercelo.
E di nuovo riaffiora dalle mie labbra come un petalo soffice ed odoroso un: grazie Signore per questa mia esperienza di vita.
 

Val Rendena, luglio 2012
Tere Bonalume Biella in Tamiazzo


SPECIALE VACANZE è uno dei quasi sessanta racconti che compongono un piccolo libro, intitolato “ILTEMPO VESTITO”, scritto ed edito in proprio, nel 2013,  da “Tere” (Teresina ) Bonalume Biella in Tamiazzo, un’abitante di Verderio, per molti anni insegnante presso la scuola materna pubblica di Paderno d’Adda.

IL LUPO E LA VOLPE di Luca Codara

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Questa è una breve storiella che mio nonno Guido mi raccontava quando ero piccolo. Mi piaceva molto perché era ambientata proprio a Robbiate, tra i boschi della Duraga e del Monte Robbio, dove lui era nato e vissuto e dove spesso mi portava. È un racconto di cui ignoro le origini, ma sicuramente è molto vecchio; ha delle forti analogie, nella prima parte, con la favola del lupo e della volpe dei fratelli Grimm e più in generale con altre favole popolari diffuse in tutto il nord e centro Italia e adattate al territorio in cui venivano raccontate. I due protagonisti, il lupo e la volpe, non sono nuovi nelle favole popolari: rappresentano infatti le personificazioni dell’avarizia e dell’astuzia che, già con gli autori latini e poi per tutto il Medioevo, venivano somministrate al popolo come monito mediante racconti semplificati e accessibili a tutti. Luca Codara

IL LUPO E LA VOLPE
C’erano una volta un lupo e una volpe che vivevano nei boschi intorno alla Duraga; un giorno, affamati, passarono davanti alla vecchia cascina e il lupo, vedendo i secchi colmi di latte che il nonno (Ambrogio, mio trisavolo) aveva appena munto, disse alla volpe:“Guarda là cosa c’è! Andiamo a mangiare, forza…!” e decisero di fermarsi e bere di nascosto. I due, passati tra le sbarre del cancello ed entrati nel cortile, iniziarono a bere dai secchi: la volpe, furba, aspettava che il lupo bevesse per primo così da leccare tutto lo strato di panna superficiale, più grasso che galleggiava al di sopra del latte. “Cosa fai, non mangi?” ,disse il lupo e la volpe: “Non ho molta fame, tu intanto mangia pure!” Il lupo, preso dalla fame e dalla foga di mangiare il più possibile saltava da un secchio all’altro, mentre la volpe, tra un’occhiata alla porta e una alla finestra, beveva dai secchi dopo che il lupo li aveva quasi svuotati. Quel giorno però il nonno, aprendo la porta, li vide e subito corse in camera a prendere il fucile. La volpe, fiutato il pericolo, scappò subito via mentre il povero lupo era ancora intento a mangiare. Si accorse troppo tardi e cercò di scappare dal cancello; la volpe, furba, che aveva bevuto solo il latte scappò via in un battibaleno, invece il lupo, ingrassato dalla panna, non riusciva più a passare tra le sbarre del cancello. Il nonno incominciò a bastonarlo col fucile finché, tutto sporco di sangue, riuscì a scappare nei boschi del Monsereno. 

Nel frattempo nel bosco la volpe, che aveva assistito alla scena, si era rotolata nei ribes sporcandosi tutto il pelo di rosso e poco dopo incontrò il lupo.“Cosa ti è successo?” disse il lupo. La volpe: “Non sai, il nonno ha bastonato anche me e adesso mi fa male dappertutto e perdo sangue…se non ci credi, guarda qua!” I due decisero così di andare a Calusco, al di là dell’Adda e il più possibile lontani dalla Duraga per paura di essere nuovamente sorpresi a rubare il latte e per non rischiare stavolta qualche colpo di fucile. Scesero fino a Imbersago e arrivati sulla sponda dell’Adda la volpe disse al lupo: “Ti prego, prendimi in spalla. Non sono in grado di nuotare in queste condizioni, perdo sangue, non vedi?” Il lupo, tutto sofferente per le botte ricevute accettò, pensando che la volpe fosse ridotta peggio di lui. Mentre si trovavano in acqua, una sopra l’altro, la volpe mormorava “…ul malaà porta ‘l san, ul malaà porta ‘l san…” “Ma cosa stai dicendo?”, chiese il lupo. La volpe “…è una preghiera per non cadere in acqua!”
Arrivati più salvi che sani sulla sponda bergamasca sentirono un profumino di polenta e nuovamente affamati per lo sforzo fatto arrivarono al mulino dove un signore stava cuocendo polenta gialla in un grande paiolo di rame. Attirati sotto una finestra dal profumo che ne usciva, il lupo stava aiutando la volpe a salire, ma i due inciamparono e caddero nella polenta bollente bruciandosi la coda e scapparono via a gambe levate. Da quel giorno né in Duraga, né nei boschi del Monte Robbio e del Monsereno e nemmeno a Calusco nessuno li vide più…


Luca Codara







Luca Codara è uno studente di archeologia di Merate, la cui famiglia è originaria della Cascina Duraga, di Robbiate.






Questa cascina si trova in una località incredibilemente bella, tra il Monsereno e il Monte Robbio. La si raggiunge da piazza Airoldi di Robbiate (dove c'è la gelateria Spini), imboccando la via Cantone e poi la strada consorziale della Duraga. 


I prati della Duraga ai piedi del Monte Robbio

IL CONVOGLIO DI CAMION di Alberto Di Naso

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IO E CLAUDIO ANDIAMO ALLA NOLAN PER AGGANCIARE IL RIMORCHIO AL CAMION. LO AVEVO PORTATO DAVANTI AL CIMITERO DOVE RIPOSA IL NONNO, MA POI AVEVO DECISO DI PORTARLO ALLA NOLAN. UN SIGNORE GENTILISSIMO,  CHE ACCOMPAGNAVA IL SUO CAGNOLINO, MI HA AIUTATO A SALIRE SUL CAMION PERCHÉ LA MIA GAMBA SI ERA BLOCCATA.
CLAUDIO, INTANTO, HA CARICATO IN GABINA LA MIA CARROZZA ED È SALITO MENTRE IO CHIACCHIERAVO CON QUESTO SIGNORE. DOPO SIAMO ANDATI A CARICARE I COMPUTER E ALTRE COSE ALLA APPLE.
PRIMA DI PARTIRE HO DORMITO DALLA NONNA: NON IN CAMERA MA SUL CAMION; PERCHÉ NON VOLEVO DISTURBARLA.
AL MATTINO SIAMO PARTITI MA UNA GOMMA ERA BUCATA. ABBIAMO RIMANDATO LA PARTENZA PERCHÉ TUTTI I GOMMISTI ERANO IN FERIE. DOPO UN MESE E MEZZO FINALMENTE SIAMO PARTITI. DURANTE IL VIAGGIO ABBIAMO INCONTRATO IN UN AUTOGRILL PER CAMIONISTI SANDRO E VALENTINO: ANCHE LORO ERANO DIRETTI IN SICILIA.
VALENTINO PERÒ PIANGEVA COME UNA FONTANA PERCHÉ VOLEVA IL SUO PAPÀ (VOLEVA ANCHE ANDARE IN PISCINA MA OVVIAMENTE NON POTEVA FARE TUTTO). IO HO DECISO DI PORTARE VALENTINO AL MARE E DI FARGLI COMPAGNIA: COSÌ AVREBBE SMESSO DI PIANGERE COME UN DISPERATO. VOLEVO CONSOLARLO: ANDIAMO IN SICILIA. SAREBBE STATO CON ME E AVREBBE VISTO IL MARE, CHE È PIÚ GRANDE DI UNA PISCINA.
QUINDI ABBIAMO CARICATO SUL MIO CAMION TUTTO QUELLO CHE SANDRO E VALENTINO STAVANO PORTANDO IN SICILIA: SEDIE E TAVOLI, POLTRONE DI LUSSO E MENSOLE, TELEV ISIONI E BANCHI. TUTTE COSE CHE SERVIVANO PER LA SCUOLA SANDRO, COSÌ È TORNATO INDIETRO DA SOLO. AVEVA DA SBRIGARE DELLE COSE A SCUOLA: UN CONSIGLIO DI CLASSE. PER QUESTO HA SCHIACCIATO  A TAL PUNTO L’ACCELERATORE CHE QUASI LO ROMPEVA. VALENTINO, INVECE, È VENUTO CON ME. ARRIVATI IN SICILIA ABBIAMO FATTO TUTTE LE CONSEGNE E VALENTINO MI HA AIUTATO A SCARICARE (CON I GUANTI, ANCHE SE NON VOLEVA, MA IO L’HO OBBLIGATO). PER FARSI CAPIRE HA USATO IL VOCAL CON LA CUSTODIA CHE GLI AVEVO REGALATO. QUESTO  VOCAL PUÒ FARE ANCHE I VIDEO: L’AVEVO PRESO DA INTERNET, ME L’HA PORTATO UN CORRIERE  ED È COSTATO UM OCCHIO!
QUANDO VALENTINO HA VISTO IL MARE, SI È BUTTAO DAL CAMION PER TUFFARSI IN ACQUA E IO HO FATTO UN’ICHIODATA COSÌ FORTE CHE SI SENTIVA ODORE DI BRUCIATO.
QUANDO MI SONO ACCORTO HO CHIAMATO IL CARRO ATREZZI CHE HA CAMBIATO LE GOMME SUL POSTO.
DURANTE LA NOTTE IO HO DORMITO NEL CAMION E VALENTINO HA DORMITO SOTTO LE STELLE, CON IL VOCAL E VICINO AL MARE: QUESTO ERA IL SUO REGALO. UN REGALO ECCEZIONALE!


Alberto Di Naso


Alberto Di Naso

Questo brano è tratto dal libro IL CONVOGLIO DI CAMION, di Alberto Di Naso, un abitante di Verderio che così si presenta:

Ciao! Mi chiamo Alberto e ho 20 anni; per colpa del gene ATP1A3 un po’ farlocco, mi sono beccato una malattia neurologica molto rara e molto bastarda che si chiama Emiplegia Alternante.
Questa malattia mi provoca vari problemi, di movimento, di vista, di apprendimento, e soprattutto delle crisi davvero brutte che mi arrivano all’improvviso, anche due o tre volte alla settimana, mi fanno molto male e mi durano tutto il giorno. Queste crisi io le chiamo bloccamenti, perché non riesco più a muovere le gambe e le braccia, a volte solo quelle di un lato, destro o sinistro, a volte tutto il corpo. I bloccamenti totali sono quelli che odio di più, perché, oltre a non potermi proprio più muovere, faccio anche fatica a respirare e non riesco a parlare, mannaggia!!
Sono figlio unico ma ho uno zio e tre zie giovani che sono un po’ come fratello e sorelle per me, soprattutto lo zio Ales che fa il falegname  come mio nonno Marino, e la zia Sere che insegna inglese alle medie. Questa mia zia è un’appassionata della cucina, degli usi e dei costumi della Gran Bretagna e degli Stati Uniti, mi ha insegnato tante parole di inglese e mi parla sempre di Londra e dei suoi viaggi per tutta l’Inghilterra, la Scozai e l’Irlanda. Una volta è arrivata fino in Cornovaglia con il camper!
Io invece sono un appassionato sfegatato di camion, più sono grossi e meglio è, soprattutto i truk americani. Il mio film preferito è “CONVOY”, che parla di un convoglio di camion che attraversa tutti gli Stati Uniti per sfuggire alla polizia, guidato da un camionista che si fa chiamare “Anatra di Gomma”.
Mi sarebbe piaciuto moltissimo fare il camionista di mestiere, ma per colpa dei miei problemi non è proprio possibile; allora mi diverto ad inventare delle storie in cui faccio dei lunghi viaggi con il camion, in compagnia dei miei zii, della mia cugina Alessia e dei miei amici, per fare delle consegne per conto della ditta del mio amico Claudio.
Mi è piaciuto molto mettere in forma scritta una di queste storie di un viaggio in Sicilia, con l’aiuto del mio proff. Sandro, che è stato il mio insegnante di sostegno durante l’ultimo anno di scuola superiore  all’istituto Betty Ambiveri di Presezzo in provincia di Bergamo.
Adesso lavoro in una Cooperativa di giardinaggio che si chiama Chopin, e mi occupo della coltivazione e vendita di fiori e piante; anche se non è il mestiere che sognavo, mi paice abbastanza come lavoro e mi trovo molto bene con i miei colleghi, gli educatori e i volontari.
Spero che questo libro vi piaccia e spero di riuscire a scriverne un altro che parlerà di camper.
Un saluto a tutti voi e buona lettura!!
Alberto Di Naso
PS. Se volete saperne di più riguardo all’Emiplegia Alternante, visitate il sito dell’Associazione A.I.S.E.A Onlus:
www.aisea.org

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