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TRAKKING IN INDIA di Denise Motta

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Denise
 
TREKKING NELLA "VALLE DELLO SPITI"
anno 2005

La valle dello Spiti (dal tibetano Spiti: “paese di mezzo”) è situata nello stato indiano dell’Himachal Pradesh, confinante con il Tibet. Chiusa al turismo dal 1953 a causa della guerra e delle tensioni indo-cinesi dell’epoca, è stata riaperta al turismo solo nel 1993.







La valle, lunga oltre 100 km, a volte ricorda un mini Grand Canyon con l’onnipresente fiume Spiti che si srotola tra le pareti scoscese; altre volte i apre di più, diventando una sorta di deserto d’altura dai colori cangianti. 




Attraverso questa valle il buddismo dal Pakistan è arrivato in Tibet; qui si sono rifugiati i Tibetani, perseguitati dalla Cina.




 




Il mio primo trekking e, soprattutto, la mia prima volta a dormire in una tenda!!! (1) I miei compagni di viaggio sono Ercole, Rosy, Fabio, Danilo e Fabrizio.

 
Da sinistra: Ercole, Denise, Danilo, Fabrizio, Rosy, Fabio


La sorprendente Manali, cittadina meta di Hippy negli anni ‘70/’80, circondata da montagne che ricordano la Svizzera è il punto di partenza del nostro cammino. Il paesaggio con villaggi isolati, antichissimi monasteri buddisti (Key, Kibber, Lhalung, Dhankar, Tabo ecc.) riconoscibili dai chorten e dalle bandiere di preghiera che sventolano al sole, 







il desertico paesaggio d’alta quota sovrastato dalle nevi eterne dell’Himalaya hanno ripagato splendidamente le fatiche del trekking in alta quota (in genere superiore ai 4000 mt.).
 





Lo Spiti è ancora una terra di frontiera. Le strutture di ricezione dei pochi turisti sono praticamente inesistenti ma il sorriso o il saluto “julè julè” degli abitanti,





sempre molto cordiali, era quello che più contava durante le varie tappe che la nostra guida/cuoco, Som Sing, ci faceva scoprire.






 I muli, guidati da “Four Seasons” e “Vitasnella”, così abbiamo soprannominato i nostri sherpa, trasportavano gli zaini, le tende, i viveri e tutto l’equipaggiamento che ci sarebbe servito. Per fortuna, perché il sole ci ha accompagnato durante tutto il trekking cuocendo la nostra pelle.
 





Alla fine del trekking, il nostro viaggio è continuato visitando Dharamsala, la città nota per essere la residenza del Dalai Lama e Amristar, nello stato del Punjab, dove il tempio d’oro, considerato dai Sikh il tempio più sacro della loro religione, ci ha emozionato con tutto il suo misticismo.








NOTA

(1)Pazzesco!!!(n.d.r.)



GARWAL. ALLA SORGENTE DEL GANGE
anno 2008

Viaggio nell’India settentrionale, in una regione, il Garwal, non frequentata da turisti occidentali, ma da pellegrini indiani. 




Un’India antica, popolata da gente gentile, onesta, assolutamente vegetariana e che non ti vuol vendere nulla. 








Culturalmente il Garwal  immerso nella storia e nella mitologia di fede indu, viene tra l’altro ritenuto la dimora di molte divinità indu’ incluso Shiva, il dio che trasforma e distrugge. In questo viaggio il nostro autista è Jeet già conosciuto nel 2001 quando abbiamo fatto il giro classico (New Delhi, Agra, Jaipur, Varanasi ecc.). 




Partendo da Delhi ci dirigiamo verso Haridwar e Rishikesh la città santa con un importante Ashram ancora salvo dalle ingerenze occidentali. 



Il punto di arrivo di questo trekking è verso il ghiacciaio di Gangotri (3000 mt) alla riscoperta delle sorgenti del Gange. Peccato che a causa delle ininterrotte piogge monsoniche che hanno creato lungo il percorso frane dietro e davanti a noi, abbiamo optato per un percorso alternativo in mezzo a valli sperdute, boschi, attraversamento di torrenti anche a volte 










pericolosi e non da ultimo le sanguisughe che si addentravano nei nostri scarponi e vestiti pieni di fango. Paesaggi comunque interessanti anche se la pioggia è stata la protagonista del nostro viaggio che si è concluso con l’arrivo a Calcutta dove qualche lacrima ci è scappata davanti alla tomba di Madre Teresa.




Denise Motta
LE ALTRE IMMAGINI DI DENISE


A questo indirizzo di You Tube puoi trovare un video con le immagini
di Denise sul Trekking nella Valle dello Spiti:


https://www.youtube.com/watch?v=eSk0J-QIwkU


A questo indirizzo invece puoi trovare le immagini  della regione del Garwal:


http://youtu.be/Yvx0Dfu8KrE






1977. IL PRIMO VIAGGIO IN INDIA DI GERMANO LISIGNOLI di Marco Bartesaghi

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Chi ha letto l'articolo precedente ha lasciato Germano Lisignoli a Delhi, dove, partito da Verderio,  era arrivato via terra, con il suo compagno di viaggio "Peppino" Ponzoni. A Delhi i due si erano  separati e Germano .... 


Germano Lisignoli oggi



Comincio la chiacchierata con Germano Lisignoli, chiedendogli se si ritrova nel racconto che del loro viaggio in India, nel 1977, mi ha fatto Peppino (Giuseppe Ponzoni).
“Sì, - mi risponde - in generale” Pensa però che il suo compagno di viaggio non abbia un ricordo reale di quello che successe dopo l'incidente in cui rimasero coinvolti entrando in Afghanistan, che per Peppino ebbe gravi conseguenze.

Questi, infatti, mi aveva detto che, dopo l'incidente, si erano fermati a Herat, in Afghanistan, per una quindicina di giorni. Germano ricorda invece un periodo molto più breve.
Quando gli chiedo se le condizioni di Peppino fossero molto gravi, mi dice che il giorno dopo l'incidente, quando andò a trovarlo, aveva un testone "così"– e con le due braccia forma un uovo intorno alla propria testa -, con un'enorme bolla di sangue ed era tutto blu.
In quell'ospedale, dove gli avevano fatto le prime cure, si fermarono però non più di due o tre giorni. Poi lui decise di caricare il compagno ferito  su un pullman e portarlo a Kandahar, la seconda città del paese, e solo in seguito all'ospedale militare americano di Kabul.





Germano Lisignoli ... ieri

A Kabul, in una stanza d'albergo, svegliandosi una mattina (alla sera erano soli) sentirono parlare italiano. Erano tre ragazzi e una ragazza brianzoli. Con loro proseguirono il viaggio fino a Peshawar, in Pakistan, con un pulmino Westfalia, e poi fino a Delhi, ma con i mezzi pubblici, poiché in India non si poteva entrare con un proprio automezzo.

A questo punto devo chiedere a Germano come mai, quando Peppino sale a Verderio dalla Sicilia e dice agli amici: “Vado in India a seguire la mia morosa”, lui si fa avanti e dice: “Vengo anch'io”.
Mi risponde che da tempo aveva in mente di andare in India; due amici di Mezzago, prima uno poi l'altro, erano già partiti. Avendo un lavoro da tipografo, non li aveva potuti seguire. Ma quando la decisione è più matura, decide di licenziarsi, e aspettare l'occasione opportuna. Peppino gliela fornisce. 

Il viaggio con Peppino dura fino a Dheli. Qui i due amici decidono di seguire ognuno una propria strada ideale, che qualche volta, però, passa per gli stessi luoghi. Non si vedranno più fino al ritorno a Verderio.




Questo e i seguenti disegni sono stati eseguiti da Germano durante il viaggio in India e tinteggiati dopo il ritorno in Italia

Germano prosegue il viaggio con il gruppo di italiani e raggiunge Goa, dove si ferma per tre settimane.

Goa era la metà dei freak provenienti da tutto il mondo e i party, di cui parla anche Peppino, erano  feste, che si facevano una volta al mese, nelle notti di luna piena, durante le quali un gruppo musicale occidentale suonava: “Goa era una zona dell'India piuttosto libera. Arrivavi, affittavi una casa sul mare e poi stavi lì quanto volevi. Si fumava, si beveva, si faceva quello che si voleva”.

 




Da Goa torna a Delhi e poi va, per una decina di giorni, in Rajasthan.
In seguito si sposta a nord di Delhi dove conosce dei Sadu, persone definibili come monaci, appartenenti a varie scuole, a varie sette. Molti di loro vivono nelle foreste, in posti isolati, qualcuno da eremita; altri invece vivono in asrham. Germano ne incontra diversi, si avvicina a loro, ma capisce che quella non è la storia che sta cercando.




Tornato a Dheli, trova un ragazzo di Torino, che gli dice di aver incontrato il suo amico di Mezzago a Benares. Vorrebbe raggiungerlo ma … ahimè, sono finiti i soldi, la liquidazione di 500 mila lire che aveva preso licenziandosi.
Deve tornare a casa. All'ambasciata di Delhi gli pagano il viaggio in treno fino in Pakistan. In questo modo, con il biglietto pagato da un paese all'altro, da ambasciata a ambasciata, insieme a un ragazzo di Verona, ritorna a casa. Il percorso non può però essere lo stesso dell'andata: dall'Afghanistan non si può più passare, perché  è scoppiata la guerra con l'Unione Sovietica. Dal Pakistan, in treno, con un itinerario più a sud, devono entrare direttamente in Iran.


 

Fine del primo viaggio.
Non ho ben capito ancora cosa l'avesse spinto verso l'India. Gli chiedo di raccontarmelo.
Mi parla di un opuscolo, capitatogli fra le mani qualche tempo prima della partenza, in cui si parlava di un guru. Germano, che non sapeva niente di queste cose, di India, di induismo e via dicendo, rimane colpito da quanto legge e vuole approfondire (con l'argilla, lui che si diletta di pittura e scultura, modella anche una statuetta di una divinità riprodotta nel fascicolo).




Nel primo viaggio, ha trovato lo spirito che andava cercando, ma non un maestro a cui affidarsi. Pensa però di aver chiuso definitivamente con questa esperienza.
Invece, dopo quattro anni, riparte (in aereo) e questa volta con un obiettivo preciso.
Ma qui comincia un'altra storia che spero Germano voglia raccontarci in un'altra puntata.




Marco Bartesaghi



1977: DA VERDERIO ALL'INDIA. IL VIAGGIO DI "PEPPINO" PONZONI E GERMANO LISIGNOLI di Marco Bartesaghi

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L’India è stata  meta, negli anni sessanta e settanta del secolo scorso, di migliaia di occidentali, alla ricerca di stimoli e significati per la propria vita, che ritenevano di non poter più ricevere nelle società capitaliste e consumiste in cui erano nati e vissuti e che, magari, in precedenza si erano illusi di poterle cambiare radicalmente con l’azione di movimenti politici poi ripiegatisi su se stessi.
 

A qualcuno, che aveva intrapreso il viaggio per scopi più prosaici, poteva capitare lo stesso di trovare il “maestro” in grado di dare una svolta alla sua vita. È successo a Peppino, Giuseppe Ponzoni, che per motivi “romantici”, nel novembre del 1977, è partito da Verderio con Germano Lisignoli, e, una volta arrivato in India …
 

 
"Peppino" con Fabrizio Oggioni (Fritz)


Ma è meglio sentirlo narrare da lui.
 

Questo racconto sarebbe dovuto essere un’intervista “a tre”, con  Peppino e Germano a rispondere e io a fare domande. Non è stato possibile trovarci, perché il primo non abita più a Verderio e quindi ho sentito lui con Skype e, in seguito, Germano di persona.
Il racconto di Peppino scorre così bene, che le domande che mi ero preparato mi sono rimaste in tasca e solo saltuariamente l’ho interrotto per qualche chiarimento.
Sentiamolo:


Peppino (P) - Io non avevo mai pensato di andare in India. Ne avevo sentito parlare, sapevo di ragazzi, di giovani che ci andavano, ma non era nelle mie mete.
In quel periodo vivevo, già da due o tre anni, in Sicilia dove, con degli amici, avevo acquistato una casa e un po’ di  terra e messo in piedi una “comune".
Improvvisamente però la situazione era cambiata: la ragazza con la quale stavo, che mi aveva semi-lasciato, per non dire lasciato, era partita per l'India, dove c’era già suo fratello.
Siccome non avevo ancora abbandonato le speranze di tornare con lei, decisi di partire anch'io e di cercare di ricucire il  rapporto.
A Verderio, anche dopo la partenza per la Sicilia,  avevo mantenuto i contatti con una “compagnia”, con la quale si andava a ballare, si scendeva all’Adda, si facevano altre cose. Un gruppo abbastanza unito, che comprendeva anche Germano.
Quando io tornai  dalla Sicilia dicendo: “Vado in India” Germano disse:“Vengo anch'io”.

Marco (M) - È stato l'unico ad offrirsi?

P - Sì, è stato l'unico che ha osato, diciamo così …

 
La "compagnia di Verderio" all'Adda. Peppino è quello in prima fila con occhiali e fascia (foto Maurizio Besana)



M - Quanti anni avevate?
P - Lui non lo so, penso sia della mia età o più giovane di qualche anno … Era il '77, io sono del '52, quindi avevo 25 anni [anche Germano è del 1952 N. d. R.] .

M – Parliamo un attimo della “comune”. Cosa facevate?

P - Coltivavamo la terra, ma in realtà non ne avevamo a sufficienza per vivere. Oltre a quello, perciò, facevo il forestale (i famigerati forestali del sud, ma io mi impegnavo): ero assunto a chiamata, su un anno lavoravo tre o quattro mesi. Nella zona in cui vivevo c'erano tanti boschi, contrariamente a quello che si pensa della Sicilia, per cui eravamo in giro a fare manutenzione, a fare tagliafuochi, pulire, eccetera. Vicino alla nostra casa c'era un amico, che aveva acquistato un'altra proprietà, che lavorava la pelle : ci aveva insegnato a lavorarla, per cui, nei periodi morti, facevamo dell'artigianato che poi andavamo a vendere a Palermo .

M - In che paese abitavate?
P - A Piazza Armerina, dove c'è la “Villa del Casale”, sei stato?

M - Sì.

P - All'epoca era proprio un paese tipico siciliano molto particolare, isolato. Ci sono stato un paio di anni fa, è completamente trasformato, mi ha un po' deluso: va bé … 

M - Nostalgia …

P - Sì, difatti. Io allora facevo quello: facevo l'hippy.

M -E Germano?

P - Forse lavorava già all'ospedale, sinceramente non mi ricordo, non te lo so dire …

Insomma abbiamo raccolto armi e bagagli e siamo partiti.
In India, allora, si andava via terra, era il periodo del “magic bus”. Siamo partiti da Verderio e siamo arrivati a Brindisi in autostop, dove abbiamo preso il traghetto fino a a Igoumenitsa, in Grecia. Da qui, in autobus, siamo arrivati ad Atene, la prima vera tappa. Il viaggio via terra era un viaggio a tappe, un po' come le carovane, solo che al posto di fermarti nelle oasi ti fermavi nelle città di interscambio.

M – Avevate qualche compagno di viaggio?

P - Abbiamo trovato qualcuno ad Atene. Fin dall'inizio abbiamo scoperto - e strada facendo, è diventato una costante - che c'era un flusso molto grande di persone che viaggiava. Negli alberghi o nei ristoranti trovavi ragazzi occidentali -  alcuni italiani, tanti stranieri - con i quali t’intendevi parlando l'inglese ma con cui riuscivi a farti capire anche aldilà delle parole. Si faceva amicizia, ci si scambiava notizie sugli itinerari di viaggio, le cose pratiche: che autobus prendere, quale treno, eccetera 

M - Erano tutti diretti in India?

P - Sì, sì ...in quel periodo sì. Poi, nel corso del viaggio alcuni decidevano di fermarsi prima,  oppure qualcuno si fermava in Turchia, o in Afghanistan, per un mese.
In Iran in quel tempo c'era lo Scià e quindi non era proprio il caso di fermarsi perché ti blindavano. Era un periodo molto trasgressivo e la polizia dello Scià era molto rigida verso le persone dirette in India

M - Non è che dopo siano migliorati tanto ...

P - Sì, però erano pesanti, molto pesanti ...

M - Ad Atene quanto vi siete fermati?

P - Due o tre giorni. Da lì bisognava andare ad Istanbul in treno, e non è che ci fossero i trasporti giornalieri o ad orari molto precisi, era tutto molto orientale. Alla frontiera Greco turca succedeva come nei film di guerra: staccavano i vagoni e ti lasciavano lì, in una terra di nessuno, di notte al freddo al buio, per delle ore, senza sapere cosa succedesse. Alla mattina, quando gli girava arrivavano i gendarmi e le guardie di frontiera, e cominciavano le perquisizioni in cerca di droga, di armi di tutto. Poi si ripartiva. Era il  primo battesimo di frontiera.

Istanbul, era una città bellissima – lo è ancora oggi, ma nel ‘77 lo era di più -  e cominciavamo a sentire l’oriente, a respirarne l’aria .Ci siamo fermati qualche giorno in più del solito.
Alloggiavamo in alberghetti, ostelli. Eravamo abbastanza economici nel viaggio, non scialavamo. Non dormivamo in strada con il sacco a pelo, però non andavamo nei cinque stelle, per capirci.

A Istanbul dovevamo fare il visto per l’Iran. Ogni paese lo richiedeva. Quando arrivavi in un paese, dovevi cercare l’ambasciata o il consolato di quello successivo e richiedere visto, e poi aspettare il che ti arrivasse. Nel frattempo organizzavi la tappa successiva.
A Istanbul avevamo scoperto che per andare a Teheran, in Iran, c’era un treno alla settimana. Mi sarebbe piaciuto tantissimo prenderlo, perché a un certo punto lo staccavano e lo mettevano su un traghetto, tipo Villa San Giovanni- Messina, e per quasi un giorno si navigava su un lago immenso. Purtroppo l'avevamo perso: partiva il mercoledì, me lo ricordo ancora, e le nostre pratiche erano state pronte solo il giovedì.
Abbiamo dovuto prendere un autobus , e che autobus!
Dopo un giorno, un giorno e mezzo o due, non mi ricordo, siamo arrivati a Erzurum, ai piedi del monte Ararat, il luogo  dove sarebbe approdata l’Arca di Noè. Un freddo barbino – cazzo - faceva un freddo …. Tra l’altro lì nelle bettole, negli alberghi e nei ristoranti del posto c’era tutta un’aria strana, un buio, tutti i narghilè; era inverno, saremo stati a novembre. La cosa buffa di questi alberghi è che, se volevi scaldarti, dovevi comprarti la legna, come extra, e accendere la stufa che avevi in camera, insomma ti dovevi dare da fare.
Cominciavamo a scoprire anche i cibi. Ad esempio il “ciapà”, delle specie di piadine, un pane arabo, che trovi dappertutto, dalla Turchia in poi. Cambia nome ma è sempre quello: acqua e farina e poi lo mettono in forno, ognuno il suo tipo di forno.


 
Peppino, il terzo da destra, quando lavorava come tecnico per il complesso Equipe 84

 

M – Riuscivate a entrare in relazione con la gente dei luoghi dove arrivavate?
P – Dipende. Sul percorso trovavi personaggi che avevano a che fare con gli occidentali e con loro si riusciva a parlare, a dialogare. Però non era il popolo locale, erano … i ruffiani, passami il termine, quelli che vivevano sul turismo e quindi  … non c’era questo grande incontro. Percepivi i costumi, la cultura, i modi di fare, ma era tutto mediato dal denaro, capisci?
Quando andavi in giro vedevi le persone del popolo ma non parlavi, non dialogavi.  Andavi dal fruttivendolo compravi la frutta, a gesti capivi, cercavi di entrare in sintonia per quel poco che potevi.
Da Erzurum, con un  altro autobus siamo arrivati alla frontiera con l'Iran, e poi, di notte, a Teheran, una città caotica molto occidentalizzata, perché lo Scià era partner degli Stati Uniti e quindi spingeva molto sull'occidentalizzazione della nazione. Si percepiva un'aria meno morbida, più spigolosa, un po' più mirata al dollaro, non so come dire, c'era un'altra atmosfera rispetto alle città precedenti. E poi la polizia dello Scià vedeva di malocchio questo flusso di persone come noi.

M - Avete avuto qualche brutta esperienza?
P - No, non abbiamo avuto alcuna brutta esperienza, però percepivi di non essere il benvenuto. Quando avevi a che fare con la polizia (ad esempio per il visto) eri trattato malissimo. Non ti sentivi accolto. Per questa atmosfera, che non ci piaceva, e per l'albergo molto brutto, ci siamo fermati solo un paio di giorni.
Siamo partiti in treno. Erano organizzatissimi:ti davano il biglietto, il posto. Un po', come la Freccia Rossa adesso, per capirci. Erano all'avanguardia.
Siamo arrivati a nord dell'Iran, a Mashad, che è una città santa per l'Islamismo, non come La Mecca, però è anch'essa molto importante. C'erano degli Ayatollah, delle scuole coraniche. Anche lì ci siamo fermati poco, abbiamo fatto il visto per l'Afghanistan e siamo partiti.
Alla frontiera, prima di uscire dall'Iran, ti facevano passare per un percorso obbligato, dei corridoi come nei supermarket, dove, in alcune vetrine, erano esposti tutti i nascondigli possibili e immaginabili  usati per nascondere hascisc.


M - A sì? Te li facevano vedere per farti capire che non c'era scampo?
P - Sì, esatto. Della serie: “Sappiamo tutto!”. C’era il tubetto del dentifricio vuoto, il sapone tagliato, scavato e riempito, i libri con la copertina in pelle, i tacchi delle scarpe, i doppifondi delle valigie. Di tutto, veramente.



 
Peppino a sinistra in una foto scattata da Maurizio Besana



M - E se ne inventavi  uno nuovo ti davano un premio?
P – Eh eh, forse … Finito il  percorso uscivi e c'era la terra di nessuno, quasi un chilometro di deserto che dovevi percorrere a piedi, con i tuoi bagagli, fino ad arrivare in Afghanistan.
Percorrendo l’ultimo metro di questo chilometro, mi era  sembrato di passare una barriera invisibile, che però c'era ed era molto percepibile, e la mia sensazione, quasi a pelle, era stata: “Questo è il confine fra occidente e oriente”. 


M - Quindi l'Iran era ancora occidente?
P - Per la mia percezione sì. L'Iran, come anche la Turchia, la Grecia, erano già paesi orientali, però il vero confine, per me, è stato lì: il passaggio in Afghanistan.


M - Il mondo diverso cominciava lì ..
P - Sì, un altro mondo iniziava da lì. Che poi è stata la mia esperienza perché lì, per me, era iniziato veramente un altro mondo.
A questo posto di frontiera abbiamo pasteggiato fumacchiato, bevuto, insomma, ci siamo riposati. Poi abbiamo preso un pulmino, tipo i Ducato grandi, quelli che trasportano i passeggeri, da una quindicina di posti. Solo che quello era pieno all'inverosimile, c'erano  tutti gli afgani sul tetto. Saremo stati cinquanta persone.


M - Su un furgone da quindici?
P - Da venti, esagera


M - Più i bagagli?
P - Più i bagagli. Dovevamo arrivare a Herat, dove c'era, o c'è, il contingente italiano, 170 chilometri di strada dritta nel deserto.
Su questa strada dritta ho avuto un incidente molto grave.
Un camion che ci stava superando, rientrando dal sorpasso - dato che il nostro autista, non so perché, non ha rallentato per facilitarlo - ci ha buttato fuori strada. C'era un sorta di scarpatina, perché la strada era rialzata, e l'autobus si è rotolato su se stesso e io mi sono trovato praticamente tutti i pesi addosso … non so cosa mi sia successo. So che mi sono venuti tutti addosso. Per di più  ero vicino al finestrino: nel rotolare ho picchiato la testa contro il vetro, ho perso conoscenza e mi sono svegliato un tot di tempo dopo in un bagno di sangue. Fortunatamente non mi sono rotto la testa però ero quasi “scalpato”.


M - Quando ti sei svegliato eravate ancora sul posto dell'incidente?
P - Sì, mi sono svegliato lì e la fortuna è stata che Germano fosse con me…

M - Lui non si era fatto niente?
P - Mi ero fatto male solo io e un afgano, che era sul tetto e si era rotto il bacino. Comunque mi sono svegliato, con un male della miseria. È stata un'esperienza molto forte perché, in quel frangente, ho vissuto la morte. Sai quando leggi di gente che muore che vede, che sente, che bla, bla, bla.  A modo mio ho vissuto un'esperienza del genere poi però sono tornato indietro. 


M - Quanto tempo sei rimasto incosciente?
P - Penso per tanto tempo, però non lo so.
Dopo è arrivato un altro autobus; l'hanno obbligato a fermarsi, mi hanno caricato e dopo più di un'ora siamo arrivati all'ospedale di Herat. Mi hanno dato la morfina, mi hanno cucito e mi hanno tenuto lì per un po' di giorni. Germano veniva a trovarmi, mi aiutava, comprava le medicine, perché lì non è che ti ricoverano, come in Italia, e poi sei coperto. Eri in balia di te stesso.
Sono stato ricoverato per una settimana o due, non ricordo di preciso. Però il desiderio di tornare a casa non mi è mai venuto, ero deciso a proseguire. Era stato un incidente grave però mi dicevo: “No, no, non torno. Vado avanti ancora un po' e poi decido”. Non perché pensassi ancora alla mia fidanzata, o ex fidanzata: ci pensavo ancora, ma la decisione di continuare il viaggio era legata a quello che avevo vissuto durante l'incidente: questo mi aveva dato delle dimensioni, delle comprensioni che mi avevano colpito e che mi inducevano ad andare avanti. Quindi ho continuato, Germano mi ha aiutato e siamo arrivati  a Kabul.


M - Quindi l'obiettivo della fidanzata da riconquistare rimaneva, ma era subentrato  qualcos'altro?
P - Sì, dopo l'incidente,senza un motivo logico, avvertivo l'esigenza, l'impulso di continuare. Non era logico, perché la logica suggeriva: “Tornatene a casa e ringrazia che sei ancora vivo”.

M – La tua famiglia sapeva dell'incidente?
P – No. Anche perché all'epoca c'erano pochi telefoni (ovviamente non c'erano i cellulari). Ogni tanto, in albergo, ne trovavi uno che funzionava e allora telefonavi. Ma era complicato perché non si prendeva la linea facilmente, bisognava passare dall'operatore e costava una fucilata.
Allora mandavi notizie a casa scrivendo di tanto in tanto. E potevi anche riceverne utilizzando le caselle postali, il fermo posta. Quando arrivavi nelle città, andavi con il passaporto alla posta centrale e chiedevi: “C'è posta per me?” Loro controllavano e ti davano quello che ti era arrivato. Era il modo per comunicare, all'antica …

M - Siamo arrivati in Afghanistan, tre settimane di sosta forzata …e poi? Quando sei ripartito eri  guarito?
P - Stavo meglio, però a Herat mi avevano solo cucito.
A Kabul, sono andato all'ospedale militare americano, l'unico esistente, dove mi hanno tolto una sacca di sangue che si era formata tra il cranio e lo scalpo: mi sembrava di avere una boule dell'acqua calda in testa, che faceva blub, blub  … blub, blub. Mi hanno dato anche gli antibiotici che non c'erano a Herat.
Però non avevano la macchina dei raggi X, per cui sono dovuto arrivare in Pakistan, a Peshawar, per fare la prima radiografia e avere la conferma che non c'erano fratture. Avevo anche perso gli occhiali, che ho dovuto rifare. A Delhi mi hanno tolto i punti, dopo circa un mese dall'incidente.
Dopo Kabul, siamo passanti in Pakistan, prima a Peshawar e poi a Lahore, all’altra estremità del paese. Lì abbiamo fatto il visto e finalmente siamo arrivati in India, in Punjab, ad Amritsar, dove c’è il tempio d’oro dei Sikh. Ci siamo fermati un paio di giorni e poi siamo andati a Delhi.
Abbiamo lasciato il bagaglio all’ambasciata. Erano gentili, all’epoca. Praticamente facevano un po’ da deposito dei bagagli per gli italiani che erano in giro. Viaggiavi con un sacco di roba, perché lungo il tragitto faceva molto freddo. Quando arrivavi, per non buttarla via, la lasciavi all’ambasciata e la riprendevi quando ritornavi in Italia.
A Delhi io e Germano ci siamo divisi: mi pare che lui sia andato a Varanasi (Banares), nord est dell’India. Io invece avevo trovato una lettera di Allison, la mia morosa, che era in Sri Lanka, che allora si chiamava Ceylon.
Ci siamo separati, perché ci andava bene così, non per rancore o chissà che cosa.


M - Ognuno aveva una sua strada da fare …
P - Sì, Germano aveva in mente delle cose, io delle altre, ci andava bene così. Ci siamo rivisti a Verderio.
Da Delhi sono andato prima a Bombay e poi a Goa, dove sono arrivato per le feste di Natale e del primo dell'anno, circa due mesi dopo la partenza da Verderio.
A Goa era il periodo Hippy e c’erano party su party, per le feste di Natale, per il primo dell’anno, ... bastava trovare una festa come scusa per fare un party.
Da lì, con altre tappe, passando per un posto che si chiama Appi, a sud est di Goa, ho raggiunto il fratello della mia fidanzata a Pondicherry, che era stata una colonia francese – come Goa era stata una colonia portoghese – e che si trova a sud di Madras



 
Peppino con il papà, dopo il ritorno dall'India


 

M - Tutti posti che fanno parte dell’India?
P - Sì, che fanno  parte dell’India, ma dove si respira “un’aria” particolare. Come in Italia, se vai in Alto Adige non respiri l’aria italiana, a Goa si respira ancora l’aria portoghese, anche se ci sono gli indiani ed è India. Lo stesso a Pondicherry, che è India ma si respira  l’aria della Francia: i poliziotti con le divise alla francese, le case fatte in un certo modo, i cibi, eccetera … E lì abitava il fratello di Allison, George, che frequentava l’asrham di Aurobindo

M - Cos'è di preciso un’asrham?
P - È un luogo dove si presume che ci sia una persona che abbia degli insegnamenti da darti, un maestro, un guru. La cosa che più gli si avvicina, qui in occidente, è il convento, o il monastero. Ma in un monastero l’abate, per quanto ne so io, fa sì un po’ da padre spirituale, ma, più che altro, mantiene la disciplina, fa rispettare la regola.
In un asrham invece lo scopo non è tanto di vivere lì e concedersi il tempo per riflettere e contemplare, ma è quello seguire gli insegnamenti  di un maestro vero e proprio che ti istruisce e ti dà le indicazioni per la tua vita.

M – Chiunque poteva accedere a questi asrham?
P - Ad alcuni sì, ad altri no. In questo sì. Anche perché Aurobindo, il maestro, aveva avuto come prima discepola una francese ed aveva quindi un’apertura maggiore verso gli occidentali.
A Pondicherry sono stato ospite di George, che aveva una casa, e ho frequentato anch'io l'asrham. Poi è arrivata da Ceylon una lettera di Allison, che diceva di aver preso l’epatite. L'abbiamo raggiunta per curarla e, quando è migliorata, siamo tornati tutti e tre a Pondicherry.
La loro madre  voleva che la figlia tornasse in Italia e aveva mandato due biglietti aerei Madras – Bombay. George non voleva tornare a casa e quindi, fino a Bombay, l'ho accompagnata io ed è tornata in Italia.
Eravamo a marzo ed avevo finito i soldi.

M - Quanti ne avevi alla partenza?
P - Ero partito con 360 dollari. Non erano tanti neanche allora. Un dollaro valeva forse 600 e qualcosa lire.

M - Comunque eri rimasto senza.
P– Sì, però non ti ho detto che prima di partire avevo incontrato un amico della compagnia, un amico anche di Germano, che era stato in India ed era stato a Pune.

M - Uno di Verderio?
P - Di Trezzo. Giorgio, che chiamavamo “Underground”, perché parlava sempre di underground, perché quello era il momento dell’underground: Carlo Silvestro, Angelo Quattrocchi, Allen Ginsberg, Jerry Rubin, quella tendenza lì. E lui ci aveva detto sono stato in India, un posto bellissimo, un maestro, un asrham qua, là, su e giù. Io ero un po’ restio: da un lato mi attirava dall’altro avevo fatto degli incontri con dei discepoli occidentali di questo maestro e mi avevano un po’ irritato, per cui ero prevenuto.
Però, avevo finito i soldi e “Underground”, in una lettera, mi diceva  di essere a Goa e che se fossi passato me li avrebbe prestato lui. Così vado a Goa, lo incontro, e mi dice: “Sì, i soldi ce li ho, ma a Pune”.
Va bene, andiamo a Pune. Qui incontro tanti amici che avevo in Italia, che non sapevo fossero lì. Gente che avevo conosciuto in Sicilia, e in altre parti. Una sorpresa. per me.
Dopo qualche giorno ho conosciuto il maestro che guidava questo asrham. All’epoca si chiamava Bhagwan Shree Rajneesh. In Italia i suoi seguaci erano noti come la setta degli arancioni. Sono rimasto affascinato e sono diventato un arancione.

M – Quando sei tornato in Italia?
P – Mi sono fermato a Pune per  un mese, un mese e mezzo. Verso maggio, sempre via terra, facendo il viaggio all’incontrario, sono ritornato in Italia. Questa volta però, in Grecia non ho preso il traghetto: ho fatto l’autostop, sono passato da Tarvisio. Faceva un freddo becco, mamma mia, io ero vestito leggerissimo da India. A casa i miei mi hanno accolto  a braccia aperte ed è finito il primo viaggio in India.


M – Come sono stati i tuoi rapporti successivi con questo paese?
P - Di amore e di odio. Odio perché è un paese che non ha mezze misure, o lo ami o lo odi. A momenti era odioso, a momenti amorevole.
Sono stato molto attratto da questo posto, aldilà dall’essere un discepolo di un maestro, tanto da aver trasferito il mio luogo di vita dall’Italia all’India. Stavo in India sei, sette mesi poi tornavo in Italia, lavoravo due o tre mesi e poi tornavo là.

M - Per quanti anni?
P - È andata avanti così almeno fino al novanta, novantacinque. In varie modalità, non  sempre nello stesso modo e per lassi di tempo a volte più lunghi, a volte più corti. Però c’è sempre stato un filo diretto.

M – Parlami degli insegnamenti del tuo maestro.
P – No, adesso finiamola qui. Sono piuttosto stanco. Facciamo un'altra puntata.

M– D'accordo. Ma la fidanzata che fine ha fatto? È rimasta ex?
P - Sì’, dopo che ci siamo visti a Ceylon era chiaro che non … anch’io ero … non rassegnato  ma dicevo va bé, senti … anche perché erano quattro mesi che giravo l’India, ne avevo fatte di esperienze, mi erano successe tante di quelle cose ...  t’é capì?

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A TUTTI

BUON NATALE E FELICE ANNO NUOVO

* La madre che allatta il bimbo, è un particolare di una scultura situata al Cimitero Monumentale di Milano

FAR RINASCERE L'AIA: "UN'IMPRESA AFFASCINANTE". Intervista ad Angelo Verderio di Marco Bartesaghi

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Un'“aia”, secondo il dizionario Zingarelli, è “un'area di terreno sodo o pavimentato, contigua ai fabbricati rurali, destinata ad accogliere i prodotti da essicare, trebbiare, cernere, …”.


Quella fatta costruire dal conte Luigi Confalonieri Strattmann a Verderio, nel 1857, e progettata dall'architetto Besia, è un quadrato di lastre di granito, rialzato di un paio di metri rispetto al terreno. Le piastre poggiano infatti su pilastri di mattoni pieni, poggianti a loro volta su muri in pietra.

Le lastre di granito di Montorfano dell'Aia di Verderio



Il sotterraneo, è sottoposto al passaggio dell'aria, poiché è aperto verso l'esterno per tutta la lunghezza di tre dei suoi lati. La circolazione dell'aria aveva il compito di contribuire, con i raggi del sole, all'essicazione delle granaglie esposte sul piano di granito, accorciando i tempi e aumentando così l'efficienza dell'impianto rispetto alle aie tradizionali poste a livello del terreno.

Pilastri di mattoni, su muri di sasso, su cui poggia l'aia




La scala di accesso al sotterraneo dell'aia, di recente costruzione, e le aperture originali



Adiacente al lato nord dell'aia, un elegante edificio a portico fungeva da luogo passaggio per le messi da esporre al sole.

Tutta l'area era cinta da un muro, aperto, in un angolo del lato est, da un cancello.

Nel 1888 l'aia, insieme alla gran parte della proprietà Confalonieri in territorio di Verderio, fu acquistata dalla famiglia Gnecchi Ruscone. Con la nuova proprietà continuò per decenni a svolgere il suo compito al servizio dell'agricoltura, per poi essere trasformata in abitazione ed infine abbandonata..

Nel 1980 è stata venduta alla famiglia Sala di Monza.

Nel 1996, grazie a (“o per colpa di”: ci sono due scuole di pensiero) una segnalazione all'Ufficio Beni Ambientali,  fatta da Sinistra per Verderio, gruppo di minoranza nel Consiglio Comunale di Verderio Superiore, l'edificio è stato sottoposto a vincolo insieme al resto del territorio comunale.

Acquistata, nei primi anni del nuovo secolo, dalla ditta COVERD dei signori Angelo Verderio e Ornella Carravieri, dopo importanti e attenti lavori di restauro è tornata a nuova vita.

Sul sito di COVERD ( http://www.coverd.it/index.php ), cliccando prima su "pubblicazioni", e poi sulla voce "Aia: la storia", trovate un libretto in PDF intitolato: "Aia. L'antico e il nuovo in bioedilizia", sulla storia passata e recente dell'aia.





Angelo Verderio

 


Quello che segue è invece il frutto di una lunga chiacchierata con Angelo Verderio, fondatore di COVERD e artefice, insieme al resto della sua famiglia, della rinascita dello storico edificio.

 



Lo incontro in uno degli uffici del nuovo fabbricato, quello che ha sostituito il muro di cinta del lato ovest, e per prima cosa gli chiedo cosa lo abbia spinto a comprare l'aia e a investirci tante energie.


 Angelo Verderio (A)- Avevamo bisogno di più spazio per gli uffici, perché ormai eravamo in tanti, 12, e la palazzina all’interno del capannone non era più sufficiente. D’altronde non potevamo più ampliarci perché in precedenza avevamo occupato tutto lo spazio disponibile.

Marco (M)
– Di che anno si parla?
A – 2004. Il secondo motivo è che ormai prevalevano, nel lavoro della ditta, le consulenze e le realizzazioni ad alto livello e l’ambiente non era più adatto ad accogliere le persone che dovevamo ricevere.

M – Avete puntato subito sull’aia?
A – No, in un primo tempo abbiamo cercato un capannone più grande, con annessi degli uffici, ma quelli che si trovavano erano tutti fuori Verderio e le mie donne, mia moglie e mia figlia, non volevano uscire dal paese.
Dal tecnico comunale ho poi casualmente saputo che l'aia era in vendita.

M – Un colpo di fulmine …
A – Sì e no, perché 10 anni prima, nel 1993  avevamo già pensato di comprarla per farci la casa, ma ci era stata rifiutata perché il proprietario, il signor Sala, aveva altri progetti.




L'aia fotografata nel 1993


M – Quindi la conoscevate già …
A - Non avevamo mai visto l'interno: ci aveva affascinato vista da fuori. La prima volta che sono entrato, insieme al Sala, qui dentro c'era la foresta. Ho guardato mia moglie e mia figlia: a loro piaceva e allora  gli ho detto “Senta, a me interessa: mi dica una cifra e io finché non concludiamo di qui non esco”. Ha fissato una cifra, ci siamo stretti la mano e via. Più una cosa istintiva che di riflessione. Si è fatto tutto in due giorni: martedì l'ho chiamato, giovedì mi ha fatto entrare e si è concluso.

M – Come mai alla fine si era deciso a vendere?
A – Per motivi suoi, personali, famigliari. Mi diceva che si potevano ricavare 250 mq di uffici, fra sopra e sotto …

M- Sotto …?
A - Sotto il cortile dove c'è il museo … che si poteva aprire la cinta e venir fuori con la macchina e costruire delle villette a schiera, sul lato ovest;.. Mi aveva fatto vedere anche dei disegni fatti bene.

M – Era proprio così?
A – Non direi. Quando ho telefonato in soprintendenza, l'architetto De Stefani mi ha detto “Lì non si tocca niente. Comunque faccia un progetto e poi ce lo faccia vedere”. Gli ho risposto che, prima di fare un progetto, volevo parlare con lui per avere delle linee guida e che, in caso contrario, con o senza di lui, qualcosa avrei fatto perché mi piaceva, punto e basta.

M – Un po’ di tensione?
A – Sì, ma dopo che ci siamo chiariti gli obiettivi da perseguire tutto è cambiato. Una volta che si è convinto che non avevo intenzione di fare speculazioni, mi ha fissato dei limiti e poi tutto è andato benissimo..
Il problema che rimaneva era quello delle distanze minime dalla cascina qui di fianco. La mia fortuna
è stata che, quando sono venuto a vedere l’aia con De Stefani, dalla cascina è uscito Cornelio Cassago, il vecchio proprietario, che conoscevo perché macellava i maiali e preparava gli insaccati e qualche volta lo aveva fatto anche per me. Mi ha detto “Ah, te se te 'l prupretari? So’ cuntent insce vegnen mia chi …”, insomma altri che a lui non andavano. Così gli ho detto che avevo un problema di distanze dalla sua casa. “Che prublema l'è? Te me dumandet...Preocupes mia, parli cui mè fiou …”. Mantenne la parola e tutto fu più semplice.


M - Vi siete capiti insomma...
A – Sì. Lui, uomo di parola, mi ha detto “preocupes mia” e così è stato nel convincere i figli all'operazione, concordando con loro il tracciato e le opere necessarie.
Con Cornelio ho risolto anche il problema delle macerie che c'erano sotto l'aia, 800 metri cubi di materiale. Io dovevo smaltirle, a lui servivano come riempimento per le due case che dovevano costruire i figli. È andata bene a tutti.






 

M - Quando si è accorto dell'importanza storica dell'edificio che ha comprato?
A - Quasi subito, anche se all'inizio ha prevalso l'istinto di risolvere il problema di spazio della ditta.
Ho cominciato a rendermi conto quando sono andato nel sotterraneo, anche se con tutte quelle macerie si capiva poco, e quando ho visto i graffiti della facciata. Man mano che si andava avanti nella pulizia ci si rendeva conto dell'importanza: ci sono dettagli tecnici da cui oggi ci sarebbe molto da imparare.
Il caso ha voluto che abbiamo fatto la sede della nostra ditta, che si dedica alla bioedilizia, in un edificio storico modello di bioedilizia, perché questo è un essicatoio solare, un monumento che ha 150 anni. All'inizio eravamo presi più dalla soluzione del problema uffici che dall'edificio, invece poi ci siamo impegnati a fare in modo che venisse fuori bene, perché piace a noi come famiglia.

M – Parliamo del restauro. Cosa vi ha “concesso” la soprintendenza?
A – Eravamo in contatto diretto con l'architetto De Stefani. Ci ha chiesto che l'altezza della nuova ala fosse più bassa rispetto a quella dell'edificio originale






L'edificio originale e la nuova ala, in un disegno dell'arch. Bruna Galbusera e in una foto recente

e che l'entrata assumesse un aspetto meno importante rispetto all'aia.


Disegno dell'entrata degli uffici COVERD



De Stefani chiedeva anche che il corpo nuovo fosse in stile moderno, squadrato, per staccare meglio rispetto all'antico. A me e a mia moglie però questo stile moderno non piaceva, così il nostro progettista, l'architetto Bruna Galbusera, ha presentato un disegno con le finestre ad arco, stile “orangerie”, che alla fine è stato accettato. Sono state invece eliminate le passerelle che avrebbero permesso il passaggio diretto dalle porte finestra dell'edificio nuovo all'aia. 






L'ala nuova in stile "orangerie"



La soprintendenza ha chiesto anche che il tunnel di passaggio dal nuovo al vecchio non desse fastidio, che fosse il più leggero possibile, magari in vetro.




 

Il tunnel di passaggio fra il vecchio e il nuovo edificio



Inoltre abbiamo ottenuto di fare due scale d'accesso al sotterraneo, che sono servite durante i lavori, ma che soprattutto ora sono essenziali per permettere ai visitatori di accedere al sotterraneo.


M – Prima come ci si entrava?
A - Saltando dentro: non c'era nessuna entrata, perché lì sotto non era prevista alcuna attività, doveva solo scorrere aria.

M – Posso scrivere che i rapporti con la soprintendenza sono stati buoni?
A – Eccezionali ...

M – Hanno apprezzato il risultato finale?
A - Sì, tanto è vero che mi hanno fatto avere un contributo, nonostante io non avessi fatto alcuna richiesta, perché non sapevo di poterla fare. Hanno posto come condizione, e c'è un atto notarile che lo attesta, che l'aia sia aperta alle visite almeno una volta al mese per 10 anni. Sono già venute molte associazioni, scolaresche, gruppi di pensionati, oltre ai partecipanti ai convegni organizzati da COVERD (circa 4000 persone).
Mi stupisco del fatto che il Comune di Verderio non approfitti culturalmente di più dell'opportunità di avere un edificio come questo, che comprende anche un museo della vita contadina (sul sito del comune, ad esempio, non se ne fa alcun cenno).

M - Avete ospitato anche degli spettacoli, vero?
A – Sì: un concerto di “firlinfeu”, in occasione del 150° anniversario della nascita del gruppo che suonava, e uno di musica classica.
Il primo, promosso in collaborazione con il gruppo pensionati, è stato un mio regalo a Giulio Oggioni, che aveva fatto tante cose per me, sempre “gratis”. Sapevo che aveva questo desiderio e l'ho accontentato.
Il concerto di musica classica invece rientrava nelle iniziative del Festival di Bellagio, noi abbiamo messo solo a disposizione lo spazio.
In tutte e due le occasioni ho avuto modo di ammirare l'impegno dei volontari della protezione civile.
Mi piacerebbe che l'aia accogliesse altri eventi del genere e sto cercando di trovare i contatti perché ciò avvenga periodicamente. Vorrei contribuire a risvegliare l'attenzione verso la cultura, che i cittadini di Verderio hanno già dimostrato di apprezzare.


M – Mi parli un po' dei lavori.
A - Il progetto era stato affidato all'architetto Bruna Galbusera, a cui avevamo dato l'incarico di “tirar fuori” i volumi che rispondessero all'esigenza nostra di ricavare più spazio possibile, però con l'impegno di salvaguardare anche l'aspetto estetico dello stabile.
Per il restauro non ci siamo rivolti a un'impresa vera e propria, ma ad alcuni esperti artigiani che anni prima avevano costruito la nostra casa.
La nostra ditta si occupa di edilizia, e quindi noi stessi abbiamo seguito i lavori.


 
Il gruppo artigiani. Fra loro Gigliola, in piedi, e Beatrice, le decoratrici


M – Quando e come avete iniziato?
A – Nel novembre del 2004 abbiamo iniziato i lavori di messa in sicurezza: liberato dalle macerie il sotterraneo, disboscato il cortile e sistemato le tegole del muro di cinta.

M – Il piano di granito del cortile ha avuto bisogno di interventi?
A - No,No. E nemmeno i pilastri di mattoni: la legatura del cotto era meglio del cemento armato. Quando erano stati costruiti non si usava il cemento, che non c'era, bensì la calce, che ha la proprietà di diventare dura con il passare tempo, perché è soggetta al fenomeno della carbonatazione.
 


Particolare dell'aia


La nostra fortuna è stata quella.
Il problema erano i muri di sasso che erano legati con della malta esausta. In quel caso la fortuna sono state le macerie. Man mano che le toglievamo intervenivamo sui muri, dall'alto verso il basso, intanto che le restanti macerie tenevano in compressione i muri non ancora recuperati. Andavamo avanti per gradi.
 



Le macerie le asportavamo con un trattorino e, come ho già detto prima, le scaricavamo nel terreno del signor Cassago, senza doverle portar via. Cassago ci aveva anche permesso di entrare con il camion nel suo terreno. Per fortuna, perché il comune sembrava  facesse apposta a crearci difficoltà. 

M - La parte decorativa, esterna ed interna dell'edificio, è stata fatta da due decoratrici di Verderio, Beatrice Fumagalli e Gigliola Negri. Come le avete incontrate?
A - Mentre facevamo i lavori c'era qui una squadra di giovani, neolaureati, tutti accreditati presso la soprintendenza, che facevano dei disegni, delle prove: ma io vedevo che “non c'erano”. 




Un bozzetto presentato dalle decoratrici Beatrice Fumagalli e Gigliola Negri

 


Un giorno è passata la Bea e mi ha lasciato un loro biglietto. All'inizio le ho prese sottogamba, non le ho dato importanza. Poi, invece, ho detto: proviamo a sentirle. e le ho fatta fare un campione. L’ho visto, poi ho visto i disegni, le prove di colore eccetera. Hanno fatto anche una bozza per i disegni all'interno, secondo i desideri di mia moglie. Il rapporto con loro è nato così.

 

Decorazione geometrica delle pareti esterne e elemento tondo di pietra molera


M - Non le conosceva?
A - Le conoscevo di vista, ma non avevamo mai parlato. C'era il problema che non erano iscritte ai beni ambientali per il restauro: ho parlato con De Stefani gli ho chiesto se l'iscrizione fosse indispensabile. Lui mi ha detto di no, che dovevo dare  priorità alle capacità tecniche. e che se mi ritenevo soddisfatto del loro operato, a lui andava bene. Così è stato.


Particolare della decorazione del soffitto del tunnel fra vecchi e nuovo. Foglie di platano in "onore" del bellissimo platano esistente nelle vicinanze dell'edificio



M – Avete acquistato l’aia nel 2004: quando è stata  pronta?
A - Il rogito risale al giugno del 2004; a settembre era già abbozzato il progetto; a novembre sono iniziati i lavori di messa in sicurezza. A febbraio del 2005 l'aia era finalmente pulita e libera.
Alla vigilia di Natale del 2004 mi telefona De Stefani per dirmi che mi ha fatto un regalo, ha approvato la pratica: “Il tempo di spedirla in comune, fissare i costi di urbanizzazione e potete partire”.
A febbraio 2005 il sotterraneo era finito, compresi gli impianti che collegano i due edifici.
Sono andato avanti con i lavori di conservazione e messa in sicurezza approvato dal ministero anche se.
il comune  non mi aveva ancora dato la concessione. A fine gennaio 2004 la pratica era arrivata in comune; a metà febbraio era verbalizzata. Si dovevano solo fissare i costi di urbanizzazione (interesse del comune) e poi avrei potuto partire con la nuova ala. A giugno, nonostante i continui solleciti, non avevo ancora ricevuto niente. Sono andato in comune e mi sono sentito dire che mi avrebbero comunicato gli oneri a settembre. Mi sono alterato non poco, per la loro superficialità e lentezza, così tre giorni dopo mi hanno comunicato gli oneri: una mazzata, ma comunque potevamo iniziare i lavori della parte nuova. A giugno del 2006 eravamo già operativi con gli uffici. Tempo totale: due anni reali. Abbiamo battuto tutti i record.

M - Quali sono le caratteristiche dell’aia che ritiene più interessanti?
A - La struttura architettonica, i disegni e, sotto il profilo tecnico, la ventilazione perché è l'unico esempio in tutta Europa. Non è un modello copiato, è un “unico”, un vanto per Verderio.
Poi ci sono i particolari






Le finestre scorrevoli, anche quelle interne, con una meccanica d'avanguardia, cose solitamente usate per le case nobili.

 



La cupola, che da 150 anni è sottoposta al vento eppure nessuno ha mai dovuto metterci mano
Ecco, una domanda che ci si pone è come mai ci sia stata tanta attenzione e bellezza per un edificio di lavoro, un edificio destinato all'agricoltura.

Qualche altra riflessione.
Nei muri non abbiamo trovato una crepa, eppure su questa strada ne sono passati e ne passano di camion pesanti, che certo non erano previsti quando l’aia è stata costruita.

 



Una gronda così è tecnica pura, fatta di pietra molera, a trapezio per caricare il peso sulla struttura di sassi. Anche qui, neanche una crepa.





 

Il cancello era fatto in modo che, quando lo si chiudeva, dall'interno non lo si poteva più aprire: chi rimaneva dentro non poteva più uscire.

M – Perché?
A – Mistero. Probabilmente era un sistema di sicurezza: quando c'era la merce non la si poteva portar via se non aprendo da fuori il cancello. Probabilmente per lo stesso motivo, per poterla controllare meglio, l'aia era stata costruita vicino alla casa padronale.

Poi c’è uno scarico dell’acqua che fa paura.

M – In che senso?
A – La fogna, 50x50, fatta di muri di sasso coperti con lastre di granito, ha due scarichi, uno alla profondità di 6 metri, l’altro di un metro e mezzo, che scaricano nella campagna.








Particolari dei canali di granito che, nel sotterraneo, raccolgono l'acqua dai pluviali e la scaricano nel canale del cortile.

M - Cosa mi dice dei materiali usati? I più importanti
A – L'aia è fatta di granito estratto dalle cave del Montorfano nell'alto Verbano.
Poi c'è la beola bianca della val d'Ossola, utilizzata per i pavimenti dell'edificio.
Il cornicione e le colonne sono di pietra molera, che veniva  estratta a Oggiono o  anche qui dalle nostre parti.


Colonne, capitelli e archi in pietra molera della facciata sud


Colonne in pietra molera del protiro del lato nord


M – Sotto l'aia avete allestito un museo di oggetti della vita contadina. Come mai?
A – Da diverso tempo, per una passione nostra, raccoglievamo questo tipo di oggetti. Il lavoro di restauro, quasi sempre necessario, lo faceva mio suocero, Mario Carravieri. A lui abbiamo perciò dedicato, qualche giorno dopo la sua morte, avvenuta nel 2007, il piccolo museo che abbiamo realizzato e denominato “Museo vita contadine del novecento.
Come ci è venuta l'idea? Abbiamo pensato di offrire l'opportunità a coloro che hanno l'occasione di visitare l'aia, di poter osservare degli oggetti che, con l'edificio, hanno in comune il legame con il mondo contadino. 





L'ambiente "lavanderia" del museo della vita contadina del novecento


M – È in preparazione un nuovo libro sull'aia ..
A – Sì, lo stanno scrivendo Giulio Oggioni e l'architetto Samuele Villa. È la storia dell'aia, inquadrata nel contesto della storia locale, dalla sua costruzione all'attuale recupero. Sarà distribuito da COVERD, soprattutto ai clienti in visita alla sua sede. Lo abbiamo fatto per festeggiare i trent'anni della nostra ditta e i prossimi 150 anni dell'aia.

M – Iniziative  future?
A – Il museo contadino è stato riconosciuto e proposto dalla Provincia di Lecco nel percorso museale del territorio.
L'edificio è entrato nel programma “Ville aperte”in Brianza, promosso dalla provincia di Monza e Brianza: domenica 28 settembre, ad esempio, l'aia sarà aperta alle visite del pubblico.
Sia l'iniziativa della provincia di Lecco che quella di Monza Brianza sono patrocinate dalla Regione Lombardia e da EXPO 2015.


Marco Bartesaghi











METROPOLITANA di Marco Bartesaghi

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Qualche fotografia e un breve video ripresi nella metropolitana milanese.













OLTRE IL RAZZISMO PER CONOSCERE E PER NON DIMENTICARE, classe V elementare, Verderio S., 1994/95/95

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Quando, l'11 dicembre 1994, fu posta la lapide in ricordo della famiglia Milla, che da Verderio, cinquantun anni prima, era stata deportata ad Auschwitz, gli insegnanti della classe quinta elementare di Verderio Superiore organizzarono un'attività didattica sulla persecuzione nazista degli ebrei e, più in generale, sul tema del razzismo.
Di questa attività è rimasto il fascicolo intitolato: “OLTRE IL RAZZISMO PER CONOSCERE E PER NON DIMENTICARE”. In un suo capitolo sono raccolte le riflessioni degli alunni, oggi trentenni, sulla poesia “Shemà” di Primo Levi.
Ecco la poesia, che qui viene chiamata “Se questo è un uomo”, che in realtà è il titolo del libro che la contiene,e le riflessioni dei bambini. M.B.









SE QUESTO È UN UOMO
Primo Levi

Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il ventre
come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi alzandovi;
ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa
la malattia vi impedisca
e i vostri nati torcano il viso da voi.


STRUTTURA E CONTENUTO DEL TESTO
La poesia ricorda la drammatica situazione dei prigionieri nei campi di concentamento nazisti e invita a non dimenticarla.
La poesia è composta da quattro parti.
1 - il poeta si rivolge a chi vive tranquillo, sereno, senza preoccupazioni, libero (come noi;
2 – invita a considerare le condizioni di vita DISUMANE di uomini e donne nei campi di concentramento;
3 – esorta a riflettere e a non dimenticare […];
4 – minaccia terribili punizioni per chi dimenticherà.
RIELABORATO INSIEME

PENSIERI PERSONALI …

Per me il poeta Levi vuole farmi capire che questo avvenimento non è per niente inventato […], come alcune persone credono. Questa poesia mi dice come in quel tempo gli ebrei venivano massacrati e torturati.
Serena

Io penso che non sia giusto trattare in quel modo così orribile persone, che se anche di religione non uguale sono come noi. Meditando ho pensato: e se i tedeschi erano al loro posto? Avrebbero capito la tortura a cui avevano sottoposto gli ebrei?
Riccardo G.
Io penso che la terribile ingiustizia contro gli ebrei, non deve essere lasciata impunita, perché quello che avevano fatto agli ebrei i soldati, era una forma di razzismo molto grave. Loro li sterminarono solo perché erano di religione differente
Sabrina C.
Il poeta esprime parole giuste e tutti, uomini donne bambini devono ricordarsi di questo avvenimento e persino pubblicarlo perché tutti lo debbono sapere. Per non dimenticare!
Alberto M.

Io penso che questo scrittore, se non fosse stato ebreo, non avrebbe scritto questa poesia, perché lui è stato veramente deportato nei campi di concentramento.
Questa poesia è molto giusta e significativa.
Ho imparato ad amare tutte le persone, perché sono tutte uguali senza distinzione di sesso, di razza, di colore, di religione.
Elena M.

Per me questa poesia è molto significativa, nella seconda parte soprattutto, perché mi fa capire come vivevano la tragedia gli ebrei nei campi di concentramento mentre i […] si godevano tutte le comodità che si possono avere nella vita.
Gli ebrei dovevano essere trattati come uomini e non come cose perché sono ugluali a noi.
Sara B.

Per me tutti gli uomini e le donne di RAZZA e di RELIGIONE diversa dalla mai sono sempre uguali a noi e devono essere trattati bene perché non importa se uno è NERO, BIANCO non importa se è EBREO o ITALIANO, sono tutti fratelli.
Questa poesia è molto triste perché parla della […] delle persone naziste che non sapevano cosa volesse dire la parola AMORE.
Silvia M.

Io penso che era ingiusto catturare e imprigionare gli ebrei perché non sono diversi da noi, e quindi dovevano essere trattati meglio come se fossero i loro migliori amici.
Per me la loro vita doveva essere più libera e pacifica.
Qui a Verderio Superiore è vissuta una famiglia di ebrei, Milla, che è stata trasportata nel terribile campo di concentramento di Auschwitz.
Però due componenti, Serena milla e sua madre Lea, che dopo è morta di vecchiaia, sono riusciti a scappare.
Per fortuna Serena è ancora viva e vive, non troppo felice, perché, impresso in lei sono rimasti molti ricordi brutali e terrificanti.
Michela M.

Per me questa poesia è molto giusta perché esprime parole molto importante. […] dobbiamo voler anche bene, perché siamo tutti figli di Dio, il padre di tutti.
Elisa P.

La poesia mi fa capire che non bisogna […] gli altri per il colore della pelle, per la religione, perché potremmo essere noi nei loro panni.
Ho imparato che bisogna rispettare gli altri e amarli.
Elena S.

Questa poesia mi fa riflettere su quanto io sia fortunata ad avere una casa, l'amore dei miei genitori.
Per fortuna, della famiglia Milla è rimasto un componente, Serena e questo mi rende felice.
Oggi purtroppo ci sono ancora delle forme di razzismo, che non sono così devastanti, però ci sono!
Roberta L.
Noi abbiamo tutto quello che gli ebrei non avevano: amici, cibo, casa.
I tedeschi li trattavano come animali e non è giusto, perché noi dovremmo essere tutti amici.
Queste parole mi hanno fatto rinascere, nella mia mente, quel momento tragico e mi sento triste.
Federico

Secondo la mia opinione non è stato giusto che i nazisti abbiano torturato gli uomini ebrei.
Questa poesia mi fa capire la condizione in cui venivano trattati, perché lo scrittore Primo Levi ha vissuto quella tragedia.
Ad Auschwitz venivano uccisi bambini molto piccoli, persino neonati e questo mi fa riflettere sulle cose che sprechiamo, quando invece gli ebrei non potevano godere del dono più grande “LA VITA”.
Anna S.
Il poeta ci invita a riflettere su questa poesia perché, anche se gli ebrei professavano una religione diversa, sono persone come noi.
Quindi i tedeschi non li dovevano torturare.
Per loro provo uno stato di pena perché, da come racconta il poeta, vivevano in condizioni disumane.
Riccardo R.

Il poeta ci fa riflettere su quei duri momenti che anche lui, perché ebreo, ha vissuto nel campo di concentramento.
Queste parole scritte sono significative e ci fanno pensare com'era la vita prima che noi nascessimo.
Secondo me gli ebrei dovevano essere liberi come gli altri, anche se appartenenti a una religione diversa.
Io mi ritengo fortunato ad avere una famiglia che mi vuole bene e una casa calda dove vivere e poter essere libero.
Davide S.



LE ATTIVITA' DI OSCAR: I CASI DI SALVATAGGIO ATTRIBUITI A DON GHETTI di Vittorio Cagnoni

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Questo testo, come il precedente, è tratto integralmente dal libro di Vittorio Cagnoni: "BADEN, vita e pensiero di Mons. Andrea Ghetti". Di mio ho aggiunto solo alcune note, che trovate prima e dopo il paragrafo intitolato: "Rapimento del figlio della famiglia Balcone". 
L'articolo, soprattutto questo paragrafo, è piuttosto lungo. L'ho perciò interrotto per leggerlo tutto dovete cliccare su CONTINUA A LEGGERE. m.b.



LE ATTIVITA' DI OSCAR: I CASI DI SALVATAGGIO ATTRIBUITI A DON GHETTI di Vittorio Cagnoni


L’attività di OSCAR (Organizzazione Scout Collocamento Assistenza Ricercati) può essere riassunta in oltre 2000 espatri clandestini (il numero esatto non lo si saprà mai), 500 preallarmi, 3000 documenti falsi, 10 milioni di lire di spesa
La particolare natura di don Ghetti, silenzioso su questo periodo di storia non ha permesso di conoscere casi particolari ai quali ha partecipato rischiando la vita. Sappiamo da testimonianze trasversali che gli espatri, particolarmente difficili e rischiosi, erano guidati direttamente dai sacerdoti di OSCAR. Don Ghetti accompagnava le persone presentandosi come Antonio o Andrea Andreotti, travestito da operaio, da contadino, persino da vigile del fuoco, e ritornava vestito da prete. Spesse volte capitava che, giunti al confine, gli espatriandi gli chiedessero l’ammontare dell’onorario e si sentivano rispondere: “Niente, sono un prete”.


Luoghi di espatrio utilizzati da OSCAR


L’ufficiale della RAF (1)
Don Ghetti accompagna un giovane ufficiale della RAF alle ferrovie Nord, attraversando la città pressochén ridotta ad un cumulo di macerie, dopo il bombardamento del 1943. Il soldato, interrompendo il silenzio e voltandosi di scatto, dice con voce commossa al suo accompagnatore: “E voi, dopo tutto questo, ci aiutate ancora?”
 

Due anziane signore e la stola di volpe
Dopo aver accompagnato a pochi metri dal confine due vecchiette ebree, una di loro si accorge di aver peso il collo di pelliccia del suo soprabito, sua unica ricchezza, e cade in una profonda desolazione e sconforto. Di fronte a quel dolore don Ghetti non rimane insensibile e, a costo di gravi pericoli, ritorna sui suoi passi, recupera il capo d’abbigliamento e glielo porge. “Fu una sofferenza in meno per la signora”è il commento.
 

Incontro con la milizia confinaria
Don Ghetti, di ritorno da un’impresa di espatrio alla rete di confine, incontra la ronda fascista. Tutti si fermano di colpo. Con prontezza di spirito continua imperterrito il cammino verso di loro che confabulano e lo guardano minacciosamente. Il momento è di particolare tensione: giunto a pochi passi don Ghetti saluta educatamente e continua diritto per la sua strada mentre i fascisti lo lasciano passare. Il peggio sembra dietro le spalle, quando improvvisamente la ronda fa dietrofront, lo insegue e … lo supera continuando a correre!
 

Il console greco con famiglia
Il console greco si presenta a don Ghetti con moglie, i numerosi figli e pesanti bagagli di cui non vuole assolutamente alleggerirsi. Caricato l’ingombrante fardello su un carretto  due ruote con lunghe stanghe, si procede faticosamente sulla pista del bosco, impegnando però più tempo del necessario. Arrivati finalmente al confine, spunta da lontano la ronda delle guardie ed il panico si diffonde nel gruppo. Conscio del pericolo don Ghetti trascina la famiglia aldilà del confine e, ritornato sui suoi passi, spinge con forza il carretto, che tra i sobbalzi transita oltre il confine, per poi darsi a precipitosa fuga.
 

Il pediatra
Al piano terra di una casa a Varese abita un fascista accanito accusatore di ebrei e don Ghetti gli nasconde sopra la test il ricercatissimo dottor Schwartz. Proprio giocando sull’avversione dell’inquilino invasato, Schwartz è sicuramente protetto poiché il fascistone non può minimamente immaginare che un ebreo abbia la spudoratezza di abitare nella sua stessa palazzina e per di più sopra di lui. Dopo un breve soggiorno Schwartz è accompagnato in Svizzera e diventerà uno dei più quotati primari del mondo della pediatria
 

don Andrea Ghetti con il fazzolettone scout



Rapimento di un bambino ebreo
Nell’autunno del ’44 don Ghetti, accompagnato da due ragazzi delle Aquile Randagie (AR) (2) Anderloni, VCSq. e Silvio Croda CSq. (3), si reca in un ospedale e dà precise indicazioni ai ragazzi posizionandoli sotto a una finestra del piano rialzato, con la consegna di aspettare. I due Scout trascorrono tranquillamente il tempo di attesa, quando improvvisamente la finestra si apre e don Ghetti, in camice bianco sussurra: “È pesante” passando uno strano involucro nel quale rinvengono, esterrefatti, un bambino.
 

Il cosacco in Casa Linati
Il pensionato per ragazzi Casa Linati è spesso utilizzato da don Ghetti e dall’AR Mario Munari per il momentaneo parcheggio di espatriandi, protetto dal frequente andirivieni di giovani e di personale. Una sera don Ghetti accompagna una persona molto alta, che si rifocilla con i famigliari Linati senza proferire parola, ma al termine della cena, con un gran sorriso e un filo di voce, dice : “Spasiba!”. Al mattino la famiglia scopre che lo straniero è sparito. Solo dopo molti anni papà Linati svelerà al figlio paolo che di buon mattino don Ghetti aveva prelevato il cosacco per farlo espatriare e che in russo aveva detto:“Grazie!”.
 

Cimitero provvidenziale
Sul finire della guerra un frate benedettino dell’esercito tedesco rischia di finire in un campo di prigionia. Alcune fucine (4), che lo conoscono bene, sono informate della situazione ed avvisano immediatamente don Ghetti che le rassicura: “Ci penso io!”. Istruite a dovere le fucine accompagnano il padre al convento delle suore tedesche dove a sera, smessi gli abiti militari, indossa quelli civili ed insieme a due lituani è accompagnato alla stazione delle ferrovie Nord diretto a Varese, dove ad aspettarli c’è don Ghetti. Usciti di stazione questi si dirige verso la periferia camminando su un marciapiede mentre gli altri, sul marciapiede opposto, ripetono esattamente quello che fa lui. È ormai notte, quando da un certo punto in lontananza spuntano le luci della ronda fascista. Senza perdersi d’animo don Ghetti fa cenno ai tre fuggiaschi di infilarsi nel vicino cimitero e di nascondersi dietro le tombe e controlla la situazione da un angolo in penombra, fino a quando i militari si allontanano. Scampato il pericolo si riprende la marcia fino alla frontiera, dove i tre espatriandi possono entrare in territorio elvetico.
 

Dal S. Carlo
Giovanni Pesce, Medaglia d’Oro della resistenza, nome di battaglia Sauro, comandante del Terzo gap, partigiano comunista del milanese, è incaricato di contattare OSCAR al Collegio S.Carlo, per organizzare l’espatrio di due ebree austriache , Hilde Sara Hirsch e Helene Sara Schwenk, rispettivamente madre e figlia, e della famiglia Fossati, formata da padre, madre e figlio diciottenne. L’abboccamento avviene su indicazione di un altro partigiano, il prof. Collina, già insegnante al S.Carlo, caduto nell’azione pochi giorni prima.
Sauro incontra OSCAR nella persona di don Ghetti e due Scout suoi collaboratori. Dopo un vivace scambio di opinioni sul tema religioso e politico, Sauro apprezza sia il lavoro sia la statura del prete che, con molto rischio, si incarica di fornire documenti falsi e far espatriare le cinque persone attraverso il percorso Milano – Valle Cannobina e provvede a far travestire la giovane ebrea da monaca di clausura dalle suore Benedettine di via Bellotti. Dopo un rocambolesco peregrinare i cinque raggiungono la Svizzera.


NOTE

(1) Royal Air Force è l’aeronautica del Regno Unito
(2) Aquile Randagie era il nome adottato dagli scout di Milano e Monza che, dopo la soppressione dell’ASCI (Associazione Scout Cattolici Italiani) da parte del regime fascista, continuarono a svolgere attività scout clandestinamente e che diedero vita, nell’autunno del 1943, a OSCAR.
(3) CSq. e VCSq. significano rispettivamente Capo Squadriglia e Vice capo Squadriglia. La squadriglia è un gruppo di 5 -8 “esploratori”, cioè ragazzi dai 12 ai 16 anni. Alcune squadriglie formano un “reparto”scout. Si noti quindi che i due ragazzi che aiutarono don Ghetti nell’azione descritta avevano al massimo 16 anni.
(4) Aderenti alla FUCI, Federazione Universitari Cattolici Italiani




Rapimento del figlio della famiglia Balcone.
Angelo Balcone, sposato con l’ebrea austriaca Caterina Frankfurter, con un figlio di quattro anni, è proprietario, insieme a Giuseppe Perego, di un laboratorio a Milano.
Nella prima settimana del dicembre 1943 viene a sapere  che la moglie è ricercata e decide di scappare con tutta la famiglia. Ha sentito dire che nel luinese ci sono concrete possibilità di espatrio e il 18 mattina parte presto, con la famiglia, per Luino. Ha fretta e, fidando nella sorte, entra in un albergo, e chiede di parlare con il proprietario dicendogli: “Devo espatriare, mi aiuti. Pagherò.”. Per tutta riposta l’albergatore mette alla porta i tre.
Nevica, fa freddo, i piedi gelano nella neve.. Verso mezzogiorno sono nella sala da pranzo di un altro albergo. Balcone ritenta. Questo albergatore è servizievole, sorridente e lo rassicura: “Sì, posso farvi accompagnare alla frontiera, basta pagare la guida”. L’indomani, l’albergatore dà le minime istruzioni e i tre escono. Poco meno di cento metri dopo sono arrestati da quattro SS.
Il padre viene condotto nelle affollatissime carceri di Miogni, in via Morandi a Varese. Madre e figlio sono internati all’Opera Pia Casa S. Giuseppe, di via Griffi5, in attesa di essere trasferiti a Buchenwald. Questa istituzione è retta da don Sonzini, coadiuvato dalle suore Ancelle di S. Giuseppe. La casa funge anche da succursale delle stracolme carceri femminili. Nello stesso edificio trovano alloggio anche le donne e i bambini che OSCAR intende salvare, mentre gli uomini e i ragazzi sono naascosti nello sfollato Collegio S. Carlo. Don Ghetti e don Giussani vi vengono spesso a celebrare la Messa, mantenendo i contatti con gli uomini “particolari” della Casa.
Il 19 dicembre la superiora, suor Lina Manni, informa don Ghetti della nuova situazione Balcone e di un passaggio in Svizzera non riuscito di un ragazzo di circa 12 anni e della sorella Anna di circa 16.
La domenica successiva don Ghetti e una squadra di milanesi, capeggiati da Torregiani di Gallarate, organizzano nella casa una messinscena: tagliano i fili del telefono, danno alcune spintarelle alle suore, sparano in aria alcuni colpi di pistola, mentre i due fratelli, adeguatamente istruiti, raggiungono un ingresso dove li attende un auto. Mezz’ora dopo sono salvi in Svizzera.
Il colpo prevedeva anche l’espatrio di mamma e figlio Balcone, ma la donna si rifiuta categoricamente, perché ricattata dai tedeschi, che l’hanno minacciata di uccidere il marito se avesse tentato la fuga. 

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Questa complicazione non prevista costringe OSCAR a cercare un’altra soluzione. Dopo aver scartato varie ipotesi, si sceglie un piano azzardato. Si tratta di inventare un ricovero ospedaliero per una fasulla operazione urgente di appendicite, per poi prelevare il bambino all’ospedale. Con questo stratagemma si spera di guadagnare tempo, per liberare il padre e ricomporre la famiglia per trafugarla. Il chirurgo Ambrogio Tenconi, dell’Ospedale di Circolo di Varese, acconsente a stendere il certificato di ricovero d’urgenza per Gabriele, che viene accompagnato in ospedale a bordo di un’ambulanza e affidato a suor Giulia, capo reparto della chirurgia, cugina in secondo grado di don Motta.
Nel pomeriggio si presentano alla Casa le SS che, saputo del ricovero, acconsentono di curare il bambono, prima di mandarlo a morire e ordinano di piantonarlo e di riportare immediatamente la madre per essere, il giorni successivo, inviata in Germania.
“Qui parla OSCAR, ho bisogno di vederti subito!”, dice don Ghetti telefonando a Kelly che, dal tono di voce, capisce subito che c’è qualcosa di grave nell’aria. Dopo non molto i due si incontrano: “Bisogna agire subito per sottrarre il bambino ebreo alla deportazione in Germania, con la madre già agli arresti. L’ho fatto uscire, persuadendo il medico ad operarlo di appendicite. Ma ormai la convalescenza è finita. È all’ospedale di circolo: bisogna salvarlo a qualunque costo”. “Va bene Capo”. Così si mette in moto la piccola pattuglia Scout di OSCAR per affrontare una nuova impresa. Il tempo stringe  e l’operazione salvataggio va accelerata. Il 21 dicembre, nel tardo pomeriggio, don Giussani, avvolto in ampio mantello nero e con occhiali neri, ispeziona l’ospedale, studia nei minimi particolari l’itinerario di entrata e di fuga, l’esatta posizione di Gabriele, le abitudini del piantone, i turni delle infermiere e dei medici. Il poliziotto vigila il percorso tra la sala e l’uscita che non è breve: oltre un lungo corridoio bisogna attraversare un cortile, scendere una scalinata e varcare la portineria. La sera stessa si tenta il colpo. Un’auto pubblica attende all’ingresso dell’ospedale: già questa fu un’impresa di non poco conto per trovarla, sondare e persuadere un autista, disposto ad arrischiare. Uno di OSCAR si fermava dal custode per distrarlo, con la scusa di un’informazione, mentre Kelly e Rovera, infilata la porta, si portavano veloci verso il bambino. Nella penombra dei corridoi avanzano: una suora li guarda sospettosa, un’infermiera domanda quale “aggravato” cercano. Dal corridoio i rapitori guardano nella sala: il piantone è seduto sul letto del piccolo. Nulla da fare: pur attaccandolo, il suo allarme bloccherebbe la ritirata prima di raggiungere l’uscita. Sconfitti ripiegano.
Il 22 dicembre Kelly si reca all’ospedale col preciso scopo di farsi conoscere dal bambino, per evitargli un possibile spavento al momento del “colpo”. Il contatto avviene nonostante l’ordine tassativo di “arrestare chiunque si avvicini al letto”. Nel frattempo ad OSCAR arriva la straziante sollecitazione: “Muovetevi il bambino è considerato guarito e sta per essere trasferito”. Il 23 dicembre, fingendosi operai, girano per tutta mattina il giardino dell’ospedale: finalmente una scoperta preziosa! Nella parte posteriore un vecchio cancello rugginoso, da anni lasciato inattivo, dà su una piccola strada che, attraverso un deposito di legnami dell’organizzazione TODT, comunica con la provinciale. “Mani ignote” di Ossola tagliano, non senza difficoltà, il catenaccio di quel cancello. Si studia il nuovo percorso dalla porta posteriore direttamente alla “sala”, evitando qualsiasi corridoio. Don Giussani è improvvisamente chiamato a Milano ed è sostituito da don Ghetti. Verso le 20.00 scatta il piano  per approfittare del cambio del cambio dei turni di medici e infermieri. Don Ghetti, in borghese, consegna il portafogli alla sorella di don Motta, che lo recapiti alla sorella Carla, qualora il colpo andasse male. Il gruppo dei “rapitori” sale in macchina guidata dal fucino varesino Francesco Moneta, insieme a lui il capo dell’impresa dottor Vacchini, altro nome di battaglia di Kelly, Napoleone Rovera, fratello di una novizia della Casa S. Giuseppe e  don Ghetti. Kelly e Rovera indossano, sotto il cappotto, camici bianchi. L’auto scivola nella buia, fredda serata e si ferma vicino al cancello appena accostato, che viene aperto senza un minimo rumore. Dalla casupola del guardiano giungono canti di voci gutturali tedesche, che coprono lo scricchiolio dei passi sulla ghiaia gelata. Il cancello cede e sono nel giardino. L’oscurità è profonda, solo qualche lume vagante: sono le infermiere che si scambiano i turni della notte. Il gruppetto si apposta dietro una siepe, vicino a un finestrone, che dà su una veranda a piano terra. Due indossano solo i camici bianchi: sembrano medici e questo dovrebbe disorientare eventuali testimoni, mentre gli altri due hanno il compito di proteggere i loro movimenti. I due falsi medici sbirciano dalle persiane socchiuse: tutto tranquillo! Entrano e si dirigono spediti al reparto chirurgia. Suor Giulia, “mossa a compassione”, invita il piantone a bere un caffè nella cucina del reparto adiacente, permettendo ai due “medici” maggiore libertà. Il lettino del bimbo è in fondo a una sala con otto letti occupati da donne. I due rapitori entrano nella stanza intimando: “Le signore sono pregate di non muoversi”. La situazione è elettrizzante: Rovera si ferma all’ingresso puntando una pistola contro le presenti, mentre Kelly si avvicina speditamente al letto di Gabriele. Buona parte della riuscita dell’impresa dipende dalla reazione del bambino. Gabriele dorme e si sveglia quando Kelly, con delicatezza, cerca di avvolgerlo in una coperta. Il bambino è imbambolato e non capisce quello che sta accadendo, ma Kelly si fa riconoscere sussurrandogli all’orecchio:“Zitto, zitto, ti porto dalla mamma”. Gabriele lo guarda sorpreso e si afferra al collo di questo misterioso salvatore. Inaspettatamente entra un’infermiera che rimane disorientata dalla presenza di estranei. Rovera la spintona facendole perdere l’equilibrio e tutti e tre fuggono. Riavutasi, l’infermiera si attacca al cordone del campanello d’allarme, che inizia a squillare. Voci, luci accese, grida, comandi concitati: il piantone sembra impazzito: nessuno riesce a immaginare da che parte siano andati. Si cominciano a bloccare le varie uscite, meno quella che interessa. I due “medici” con Gabriele fuggono rapidamente per il corridoio, divorano i quattro gradini e sono nel cortile, dove Ossola e don Ghetti, che stringe la corona del Rosario, sono di guardia in fibrillante attesa. Il gruppo OSCAR, col prezioso carico, raggiunge la stradina dove ad aspettarlo vi sono Moneta e l’auto a carbonella. Il motore della macchina non si avvia … sono secondi che sembrano secoli. Dopo vari tentativi finalmente parte!
Nell’ospedale, passato il primo momento di sorpresa e di sbigottimento, ci si rianima con un accorrere veloce di persone. Si riaccendono le luci, si cerca di capire.
Poco dopo le 21.00 cinque figuri e “mezzo” bussano leggermente alla porta che immette nella sala della canonica dove don Motta, come alibi, sta effettuando le prove di canto con la corale. Solo allora ci si accorge che fuori fa freddo.
OSCAR si scioglie in silenzio, senza alcun compiacimento, tranne quello di aver fatto il proprio dovere. Gabriele, accudito dalle sorelle di don Motta, dormirà per parecchio tempo con la testa contro la parete dove,dall’altra parte, dorme il fascista della caserma Muti, di piazza Battistero, incaricato di ritrovarlo. “Pronto OSCAR: tutto bene!”: a 60 ore dal comando la missione è stata condotta a termine.
Il 24 dicembre, vigilia di Natale, i giornali fascisti di Varese escono con titoli cubitali, indignati contro i rapitori e con le più assurde ipotesi. Come quella di un giornalista che riferisce che tre giorni prima uno strano individuo, travestito da prete, avvolto in un ampio mantello e con occhiali scuri, era stato visto aggirarsi per l’ospedale e sicuramente doveva essere uno dell’organizzazione ebraica che aveva preparato il colpo.
Stessa reazione hanno i tedeschi, che montano su tutte le furie per essere stati beffati così agevolmente e minacciano la suora e arrestano il piantone di guardia. Il comandante Peter, delle SS, è un bavarese gaudente, mentre il Gauleiter (1) Lang è un duro tedesco pallido, dal collo sottile, dalle labbra invisibili, dagli occhi ghiaccianti. Subito si apre un’indagine severissima, cominciano dal dottor Tenconi e dal dottor Ciotti, che era di turno quella sera. Lang, con una cocciutaggine veramente tedesca, affida le ricerche al maresciallo della polizia fascista Orefice, di via Bernardino Luini, dicendogli in “tedeschitaliano”: “Lei ha una moglie e un figlio:  o trova il bambino o la mando in Germania con sua moglie e suo figlio”. Costui, terrorizzato, imposta l’inchiesta partendo da Perego, il socio di Balcone, e cerca di farlo parlare minacciandolo e circuendolo con promesse. Perego in realtà sa tutto ed ha visto il bambino il giorno di Natale, ma nega continuamente e, per ogni rapporto negativo del maresciallo, Lang ripete: “Ha pochi giorni di tempo e ogni giorno che passa è uno di meno, perché se non trova il bambino, l’aspetta il campo di concentramento”  Orefice, esasperato, applica lo stesso metodo con Perego. OSCAR frattanto veglia, intuendo che la cosa sarebbe diventata pericolosa, perché Perego alla fine avrebbe ceduto alla pressione delle minacce. Allora don Motta e don Ghetti incontrano Orefice e ne scaturisce un colloquio piuttosto animato in difesa di Perego ingiustamente minacciato, con Orefice che cerca di giustificarsi:“Non vivo più per colpa di questo bambino e io stesso e la mia famiglia siamo in pericolo”. In seguito la cosa sarà messa a tacere per l’intervento di “autorità superiori” e, nonostante la rabbia di Lang, la pratica sarà archiviata essendo arrivata ad un punto morto.
Dopo l’incontro con OSCAR, Orefice, che è un uomo d’animo buono e comprensivo, si presterà più volte per aiutare chi è in difficoltà. Nel frattempo il comandante Peter e il duro Lang non si oppongono alla richiesta di OSCAR per la scarcerazione di Balcone, perché ariano e senza pendenze a suo carico.
Il piccolo Gabriele, vestito da femminuccia, è nascosto per diciassette giorni nella casa di don Motta. Nel mese di gennaio Rosetta Motta e Kelly,rispettivamente nubile e celibe, fingendosi genitori, lo accompagnano a Erba, in via Tessari 28, da zia Giulia e da Maria, sorella di don Motta, e dopo poco tempo sarà restituito a suo padre.
Gabriele Balcone tornerà parecchi anni dopo da Sidney, dove era espatriato ed aveva aperto uno studio fotografico, a ringraziare i suoi salvatori.


NOTA
(1) Capo di una sezione locale del partito nazista






MONS. ANDREA GHETTI RACCONTA "OSCAR", ORGANIZZAZIONE SCOUT COLLOCAMENTO ASSISTENZA RICERCATI a cura di Vittorio Cagnoni

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Non tutti i gruppi scout ubbidirono, quando il 9 aprile del 1928 il regime fascista sciolse le loro associazioni. In particolare si ribellò a questa decisione il gruppo Milano II della chiesa del San Sepolcro. Guidato dal suo capo, il ventiquattrenne Giulio Cesare Uccellini, il gruppo scout continuò clandestinamente le attività, assumendo il nome di Aquile Randagie. Fra i ragazzi che seguirono Uccellini in questa avventura c’era un sedicenne, Andrea Ghetti, che in seguito, ordinato sacerdote, del gruppo diventerà assistente ecclesiastico. L’attività clandestina induce i giovani a scegliersi uno pseudonimo: Uccellini diventa Kelly, Ghetti  Baden. Svolgono le attività nella periferia di Milano e sulle montagne lombarde. In particolare scoprono la Val Codera, con la quale lo scoutismo italiano da allora mantiene un legame particolare.
Quando nel settembre del 1943 l’Italia è occupata dai tedeschi e nasce la Repubblica Sociale, gli scout, che hanno iniziato la loro ribellione al fascismo già da molti anni, sono pronti al salto di qualità e ad essere attivi nella Resistenza con una loro organizzazione di nome OSCAR che si occupa del salvataggio delle persone perseguitate.
Il racconto che segue, di monsignor Andrea Ghetti, Baden per gli scout, è tratto dal libro di Vittorio Cagnoni: “BADEN Vita e pensiero di mons. Andrea Ghetti”, pubblicato nel 2014 dalla casa editrice TIPI. Ringrazio l’autore, Vittorio Cagnoni, per avermi concesso il privilegio di poter pubblicare sul blog queste pagine, e quelle del post successivo.
Il testo di don Ghetti, che è il risultato di un collage di suoi interventi sull’argomento, è qui introdotto da Cagnoni con alcune notizie su Baden e sull’organizzazione OSCAR.
M.B.


ANDREA GHETTI - BADEN di Vittorio Cagnoni

Andrea Ghetti – Baden nasce a Milano l’11 marzo 1912.
A quindici anni, proprio mentre il regime fascista decretava lo scioglimento dei Riparti ASCI, pronuncia la Promessa scout.
Incerto sulla sua chiamata sacerdotale si iscrive alla facoltà di filosofia, conseguendo la laurea. Maturata la vocazione, frequenta il seminario Lombardo di Roma e l’università Gregoriana, dove conosce e stringe salda amicizia con mons. Montini, futuro Paolo VI.




1962 - Milano, mons. Ghetti tra il cardinale Montini - futuro papa Paolo VI - e Giuseppe Lazzati



Tornato a Milano, sostiene il movimento clandestino scout delle Aquile Randagie ed anima la FUCI milanese.
Durante il periodo bellico fonda la struttura clandestina OSCAR (Organizzazione Scout – termine poi sostituito con “Soccorso” – Collocamento Assistenza Ricercati) per il salvataggio dei perseguitati dai nazifascisti.
Divenuto parroco, trasforma la parrocchia di Santa Maria del Suffragio in una grande famiglia, impegnata in un’intensa attività di carità e di servizio ai più bisognosi.
Numerosissimi e vari sono i campi in cui opera co generosità. Come giornalista dirige fin dalla fondazione “Il Segno”, mensile della diocesi di Milano, e la rivista scout “Servire”,
Muore il 5 agosto 1980 in un incidente stradale in Francia, durante il campo estivo dei suoi Rover. Le sue spoglie riposano a Milano, nella cappellina della sede del Comitato Regionale Lombardo dell’Agesci, in via Burigozzo 11
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Le due lapidi che ricordano don Ghetti in val Codera. Questa si trova sul muro di cinta del cimitero di Codera ...
... questa invece si torva sul muro di un'edicola sacra in località Bresciadega.
***
Gli studiosi e vari testimoni hanno individuato storicamente varie organizzazioni di salvataggio attive a Milano nel periodo della Resistenza, attribuendo ad esse una particolare specificità, anche nel caso di intrecci fra loro. Fra queste OSCAR, che è stata il coagulo di un esteso gruppo di persone, perlopiù appartenenti al territorio della Diocesi milanese, che si sono rese disponibili all’occorrenza per collaborare.
L’acronimo OSCAR è stato interpretato in tantissimi e svariatissimi modi, ma la dicitura esatta don Ghetti l’ha chiarita in un articolo de L’Italia del 13 maggio 1945, e Giulio Uccellini, Kelly, l’ha ripetuta ne Il Popolo del 28 agosto 1945: Organizzazione Scout Collocamento Assistenza  Ricercati.


MONSIGNOR GHETTI RACCONTA "OSCAR"

In ogni momento della vita ognuno di noi è posto di fronte a delle scelte: quella, per esempio, di misurare fatti od avvenimenti sul metro dell’utile o della convenienza, non solo materiale, oppure di valutare la realtà che ci circonda sulla dimensione dei valori fondamentali dell’uomo, quei valori senza i quali il nostro esistere perde il suo senso. Così il cristiano che crede nelle realtà soprannaturali deve continuamente fare riferimento ad esse: non può mai giocare al compromesso che ignora il messaggio evangelico.. Questo è stato il punto di partenza!
Nella situazione politica di inizio secolo l’antifascismo rimase di pochi!Una vasta suggestione travolse il mondo cattolico nella visione costantiniana dell’unione di trono e altare, della spada e della croce. Come non ricordare il primo numero del periodico degli studenti di AC con la testata Credere? Nell’articolo di presentazione l’allora Presidente della GC sottolineava il titolo esaltando la tr5ilogia mussoliniana : credere, obbedire, combattere! Si salarono da questo plagio universale solo quelle persone abituate ad un senso critico, alla capacità di confronto dei fatti correnti con i valori, quelli educati al coraggio di pagare di persona.
Non si deve omettere che la filosofia ufficiale del fascismo era l’idealismo gentiliano, per il quale la religione è solo un momento – empirico – della dialettica dello spirito. E come accettare le aberrazioni di Mistica fascista imperniate su concezioni di potenza e di razza? Come aderire ad un bolso e talora ridicolo culto della personalità che portava all’idolatria del Duce, cui era concessa la grazia di non sbagliare mai?
Le scelte ebbero tutte momenti di prove e di sofferenza, quando da più parti, voci autorevoli indicarono nel plebiscito del 1929 un modo per esprimere l’appoggio alla politica religiosa del Regime conclusasi con il concordato col Vaticano. Plebiscito del resto svoltosi all’ombra della baionetta della Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale.

1935 - Parco delle Groane. Attività delle Aquile Randagie. Andrea è il terzo da destra.
 Il fascismo per la sua conclamata mentalità di aggressione non poteva non sfociare nella guerra. Aggiogato al carro nazista doveva seguirne le sorti. Tra i primi effetti di una più stretta alleanza con la Germania fu il rincrudirsi della lotta razziale. Perché cristiani ci ribellammo a scelte inique e prendemmo le parti dei perseguitati. Fu rifiuto deciso ad ogni discriminazione, fu aiuto prestato a gente senza difesa. Del resto il nostro “NO!” alla guerra, scatenata in nome di una ideologia politica, fu totale. Invano si cercò di creare artificiosamente un odio verso popoli e nazioni vicine: la nostra gente, umile e generosa, intuì la carenza di ogni contenuto ideale a una guerra imposta. Molti partirono sapendo di dover morire in un conflitto senza scopo. Non ci scoprimmo antifascisti, come tanti, il 25 luglio 1943.
Non posso al proposito non accennare al Movimento clandestino Scout, in quanto primo, se non unico, gruppo antifascista di giovani cattolici. Radicato in quei valori che il fascismo derideva – non violenza, apertura internazionale, spirito di Servizio, rispetto delle altrui convinzioni – impegnò un pugno di giovani a rifiutare , appunto perché cristiani un Regime fondamentalmente anticristiano. Negare la libertà individuale è qualcosa di radicalmente opposto alla peculiarità dello scoutismo, secondo cui è il singolo a dover emergere per rendere migliore la comunità, senza rinunciare alle prerogative personali.
Se da un lato l’iniziativa non costituiva in fondo che il collaudo dello Spirito Scout di fronte alla vita – vivere cioè nella dimensione più totale, lo spirito di servizio, le parole della Promessa “aiutare gli altri in ogni circostanza”  e tutti i dieci articoli della Legge Scout – d’altra parte storicamente, essa costituiva un inserimento attivo nelle forze della Resistenza, un allinearsi delle forze cattoliche, modeste, ma validamente operanti, accanto a quanti collaboravano al movimento di liberazione.
È da sottolineare la convinzione con la quale chi scelse di pronunciare una Promessa non si limitò a professare solennemente una formula, ma ne ha vissuto i contenuti fino all’estremo limite di essere disposto a donare in qualsiasi momento la propria vita per l’altro e questo è il frutto di una seria scelta ponderata e condivisa.
L’operatività degli Scout dette prova della sua validità nella coesione che il Capo aveva saputo creare nel gruppo, l’abitudine a una vita rischiosa per gioco, la resistenza fisica, la tecnica Scout del collegamento e della segnalazione.
Per quel che mi riguarda anche i Circoli della FUCI divennero scuola per gli studenti, educandoli ad un giudizio oggettivo, fuori da ogni suggestione, dei contenuti ideologici del fascismo e per il loro atteggiamento spesso furono oggetto alle rappresaglie.
L’8 settembre è una data che ricordo con terrore ed angoscia: governo in fuga, soldati abbandonati dagli ufficiali, ufficiali senza ordini, in modo che pochi tedeschi fecero prigionieri interi reggimenti e i nostri giovani finirono, su vagoni piombati, nei campi di concentramento in Germania. L’esercito italiano si dissolse.

1936 - Il chieerico Andrea Ghetti in un'attività delle Aquile Randagie, con giulio Cesare Uccellini - Kelly

Iniziava il periodo più tragico della storia della nazione, in balia dei tedeschi e dei risorti fascisti, armati di odio e assetati di vendetta. Giovani braccati, ebrei senza casa e difesa, di contro una forza bruta protesa a fare dinnanzi a sé terra bruciata. L’Italia si trovò divisa in due parti: da una parte un Governo legittimo, dall’altra un occupante senza scrupoli, Ancora una volta s’imponeva una scelta: come cristiani ci mettemmo dalla parte dei perseguitati.
La Resistenza fu primariamente un fatto dello spirito, una ricerca di giustizia e di libertà: fu gesto di solidarietà con chi era in pericolo. Immediatamente – quasi per istinto – preti, suore, laici, strutturarono soccorsi, assistenza agli sbandati.
Nel caos della guerra la vita non aveva nessun valore. Si poteva essere uccisi per un rifiuto, per essere trovati in possesso del giornale “il ribelle” ; finire in prigione o nei campi di concentramento o uccisi per un gesto caritativo.
I bandi fascisti e tedeschi fecero salire in montagna giovani sul cui capo pendeva la pena di morte. Non solo: il fantomatico Governo di Salò e le forze di occupazione iniziarono una feroce repressione con deportazioni di massa, condanne a pena capitale, sequestro di beni, requisizioni di impianti industriali perché fossero trasportati in Germania.
Fu una scelta dura allora, ma lucida: in nome della propria vocazione di cristiani, per i quali non ci può essere dignità umana senza verità e giustizia, per la difesa dei valori supremi di un popolo, per opporsi all’aggressore, fu necessario prendere le armi. Qui è utile una precisazione: i cattolici combatterono nelle varie formazioni per realizzare un domani di libertà e giustizia fra i popoli. Fu perciò una lotta ideale. Per questo i nostri fratelli sono morti davanti ai plotoni di esecuzione , perdonando all’uccisore. Così come si sono consumati nei lager di sterminio fissando Colui che è morto per renderci liberi. La Resistenza dei cattolici fu tutta fondata su contenuti spirituali: riflesso di essi è la “Preghiera del Ribelle” di Olivelli. Invece per altri partiti politici la resistenza era prodromo di una rivoluzione per la conquista del potere: con qualsiasi mezzo. Da qui episodi di azioni partigiane – respinte dallo stesso CLN – le cui conseguenze pagarono spesso inermi popolazioni.
Ben si può dire che la coscienza di molti cattolici rifiutò sempre, fin dall’inizio, il fascismo scorgendo in esso i germi di una concezione destinata a portare nel tempo lo sfacelo di una nazione. Fu resistenza attuata in nome dei valori cristiani: per la difesa dell’uomo senza odio, senza vendetta. Così che alla fine della guerra – nel gioco dei rancori incontenibili, nella mescolanza di cieche passioni – furono i cattolici a salvare da morte certa persone accusate di collaborazionismo.
Mi pare che a conclusione ben si possa dire che i cattolici  - pochi o molti – a seconda dei periodi  - hanno avuto un comportamento coerente scegliendo non l’utile immediato, ma la difesa dei valori cristiani. Per questa fedeltà molti sono caduti: furono martiri, cioè testimoni del messaggio di Cristo, che vale per tutti i tempi e per tutti i popoli: messaggio di verità, carità, libertà e giustizia.
La Resistenza Scout prese contorni precisi e aspetti di combattimento e di lotta contro l’invasore, con anzitutto un atteggiamento morale ed ideale, ma anche vita concretamente vissuta, tanto più difficile da conservarsi in quanto col passare degli anni, il regime si andava consolidando: “Tra cinquant’anni tutta l’Europa sarà fascista o fascistizzata”  affermava Mussolini, e da più parti voci autorevoli suggerivano una capitolazione.
Dopo l’8 settembre, nello spirito di Servizio, gli Scout rimasti – molti erano dispersi sui vari fronti di guerra – dettero vita ad OSCAR (Organizzazione Scout Collocamento Assistenza Ricercati) insieme ad altri caritatevoli, mettendosi immediatamente in aiuto degli oppressi: prigionieri di guerra, piloti abbattuti, soldati alleati di ogni nazionalità,; soldati italiani appartenenti ai corpi rimasti privi di comando e di armi ed esposti al pericolo di essere catturati dai tedeschi; renitenti alla leva della Repubblica di Salò; giovani sbandati e uomini rastrellati per essere internati in Germania; politici e antifascisti ricercati; rifornimento di viveri ai senza tessera; fabbricazione di documenti falsi; ebrei che le leggi razziali perseguitavano; sostegno ai partigiani; ospitalità ai ricercati; trafugamento e fornitura di armi ai partigiani; raccolta di fondi per gli espatri; rapimenti di piantonati negli ospedali; soccorsi ai detenuti e alle famiglie; distribuzione della stampa clandestina; espatrio di tedeschi e fascisti; soccorso ad ex internati nei campi di concentramento.

Immagine tratta dal libro "Una Resistenza" di Silvio Puccio


La conseguenza di un modo di vivere e pensare forgiatasi in netta contrapposizione con la mentalità del momento storico fu alla base della nascita di OSCAR. La finalità era chiara e precisa: reagire all’ingiustizia, al sopruso ed aiutare coloro che erano in pericolo indipendentemente da chi fossero.
A muoverci non fu l’ideologia, un odio o una causa politica: si trattava di mettere in salvo donne, uomini, famiglie intere,punto e basta e lo facemmo senza sparare un colpo d’arma da fuoco.
OSCAR, nome proprio di persona, serviva ad eludere vigilanze telefoniche o di corrispondenza.
Per prima cosa s’impiantò una centrale per la produzione di carte d’identità false, di timbri di permessi di circolazione, ecc.: fu un lavoro enorme e nel contempo rischioso. Nel portare colonne di ricercati al confine svizzero si ebbero momenti drammatici per evitare posti di blocco fascisti o pattuglie tedesche in perlustrazione: molto servì in tali frangenti, l’abitudine Scout all’esplorazione.
Si trasportarono e si diffusero copie de “il ribelle” , il giornale clandestino della resistenza: fino a farle giungere nelle caserme fasciste o nelle Prefetture, creando violente reazioni per la beffa subita.
La figura più bella degli appartenenti all’OSCAR è stata quella di Carlo Bianchi, che era membro del CLN ed è stato ammazzato a Fossoli. Ma come non ricordare Giulio Cesare Uccellini – Kelly, don Motta, don Barbareschi, gli amici Pestarini e don Giussani, il comandante Gianni Vignali, che sempre portò sul giaccone partigiano il giglio Scout, presenti nelle formazioni in val di Taro? Furono capi seguiti e ammirati, che seppero trasferire nei loro uomini uno spirito di sacrificio e di dedizione. Così Dino Del Bo, arrestato e massacrato dai fascisti, e Pino Glisenti, coraggiosa staffetta tra la Svizzera e il Comando del CLN di Milano. Nino verri, in fuga con altri compagni durante un pesante rastrellamento, si offrì di fermarsi presso un ferito, ben sapendo quale fine lo attendeva: furono fucilati sul posto.
Ogni giorno era un rischio mortale che accompagnava le imprese di questi giovani. Erano pur essi “ribelli per amore” nella volontà di servire la Patria – secondo la loro Promessa – in ore di angoscia e di devastazione: senza odiare nessuno, senza recriminare. Educati a una scuola di libertà questi giovani giocarono la vita per rimanere uomini liberi. Finita la guerra nulla chiesero, di nulla menarono vanto, nella coscienza di avere semplicemente compiuto il loro dovere.
Contemporanea all’azione di OSCAR vi fu quella dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, caratterizzata dall’opera di un religioso, p. Carlo da Milano (Domenico Varischi). Si trattava di assistere gli ebrei, sistemarli, trovar loro un rifugio o di avviarli subito, nei casi più urgenti e gravi alla frontiera. Giungevano da tutte le parti, ogni giorno in più gruppi. Per un’attività di questo tipo occorreva una vasta rete di collaboratori: case ospitali in cui nascondere i “fuorilegge”, luoghi sicuri di passaggio in Svizzera; mezzi finanziari.
La situazione degli ebrei a Milano era quella generale in Italia dopo le leggi razziali, quando avevano perso i posti pubblici, la possibilità di una certa sopravvivenza in rapporto all’attività commerciale e professionale. Dopo l’8 settembre la situazione divenne drammatica perché fu la caccia all’ebreo, soprattutto sotto la direzione delle SS, a cui le stesse autorità fasciste erano sottoposte. Perciò per gli ebrei non rimaneva altra soluzione di nascondersi pur avendo poi il rischio della mancanza di tessera annonaria e qui la preoccupazione del clero fu di creare immediatamente un centro per la fabbricazione di documenti falsi: tessere, permessi di circolazione carte d’identità, ecc. che venivano intestati a nomi fittizi con la residenza in territori occupati già dalle truppe alleate, in modo da rendere più difficile l’identificazione.
La maggior parte di questi ebrei poté trovare  alloggio presso conventi o case ecclesiastiche. Qualcheduno continuò coraggiosamente la sua attività professionale pur correndo il rischio di essere arrestati. La massa preferì rifugiarsi nella vicina Svizzera.
Perciò l’organizzazione clandestina di assistenza agli ebrei nacque così: questi al solito si rivolgevano ad ecclesiastici, una centrale di questo smistamento fu il collegio San Carlo ed anche il convento di San Francesco a Porta Manforte, in viale , in viale Piave dove c’erano p. Giannantonio e p. Genesio.

1970 - Don Andrea con papa Paolo VI

L’ebreo  veniva poi affidato a degli accompagnatori sconosciuti, perché c’era sempre il rischio che la spedizione andasse male e gli espatriandi catturati non dovevano essere in grado di fare nomi o dare informazioni compromettenti, che li portavano nella zona di confine del varesotto o del comasco e affidati a contadini e contrabbandieri locali. In principio si ebbe anche l’appoggio abbastanza efficace della Guardia di Finanza che si prestava ad aprire varchi nelle reti di confine.
Queste partenze dall’8 settembre proseguirono con una certa velocità e con poco pericolo fino a circa i primi di novembre. L’organizzazione in luogo era di collegamento senza però possibilità di conoscenza reciproca, in modo che se qualcuno veniva a cadere questi non poteva riferire di altri.
A Milano queste persone venivano accompagnate alla stazione delle ferrovie dove degli incaricati li raccoglievano e li accompagnavano a Varese e da qui ci si portava con mezzi pubblici di solito nella zona della Marmorea per poter raggiungere poi Cantello.
La popolazione locale si prestò, dietro ricompensa, pagata dagli espatriandi dove possibile, mentre nei casi di necessità direttamente da OSCAR. Le somme variavano a seconda del tragitto, delle ore di cammino e del rischio delle guide. Si partiva da 3000 lire, già somma ingente a quel tempo. Ci fu qualche approfittatore che fece, di questa attività di accompagnamento degli ebrei, un’attività di lucro ed addirittura qualche losco che incassò la cifra pattuita e vendette poi le persone ai nazifascismi, riscuotendone la taglia.. Altri che ingannarono gli ebrei portandoli a fintedestinazioni e abbandonandoli prima di raggiungere il confine. In generale però le imprese di OSCAR risultarono quasi tutte positive.
Per precauzione, gli espatriandi non dovevano assolutamente né parlare, soprattutto se stranieri, né compiere gesti sospetti in pubblico. Una sola parola, un solo atteggiamento non controllato, una esclamazione magari in lingua non italiana erano un ripetersi di probabilità di arresti e di fucilazioni o campo di concentramento. A volte bisognava convincerli a lasciare oggetti, valigie sospette, alleggerirli, togliendo loro di dosso un vero e proprio guardaroba, nascosto sotto l’ultimo cappotto. Molte volte si dovette farli passare nei boschi, perché vi erano pattuglie tedesche che perlustravano ed occorreva talora procedere strisciando con le tecniche apprese nei giochi Scout!
Come ripeto la situazione fu fluida finché non ci fu la collaborazione fascista, la quale peggiorò la situazione in quanto che, conoscendo la zona, potevano bloccare con più facilità.
In seguito i nazifascismi istituirono la zona di confine  in modo che chiunque era preso in quella fascia era sottoposto immediatamente alle armi. La cosa diventò perciò ancora più complicata. Ma la difficoltà più grave venne quando le autorità elvetiche strinsero i freni di una certa accettazione e ci rivolgemmo al vescovo di Lugano, mons. Jelmini, che intervenne per raccogliere coloro che rischiavano l’espulsione.
Altri pericoli gravi vennero dagli stessi esuli politici e razziali che, liberi ormai dal continuo stato di tensione e paura in cui avevano vissuto per anni, raccontavano liberamente la loro avventura, facendo nomi, indicando luoghi che venivano carpiti da apposite spie, infiltrate nei campi di raccolta, e trasmesse immediatamente in Italia.



Un’altra forma di assistenza era quella di sottrarre gli ebrei dalle prigioni. Questo si tentò qualche volta nel trapasso dal carcere di S. Vittore ai treni convoglio verso la Germania, corrompendo gli ufficiali tedeschi. La cosa però non riuscì e fu l’occasione in cui fu arrestato don Barbareschi.
Ci furono anche le imprese di OSCAR direttamente di attacco agli ospedali, di modo da poter liberare anche  prigionieri ricoverati, o aggredendo la custodia o, con forme di astuzia, farli scomparire dagli ospedali medesimi.
Di solito gli ebrei andavano presso amici o presso famiglie o presso conventi di monache, che li nascondevano nei tempi di preparazione dell’espatrio, poiché occorrevano sempre 5-6 giorni per poter strutturare la fuga, in quanto bisognava fare tutta la linea in modo che partendo da Milano si sapeva che nel giro di poco tempo erano già nella Svizzera senza soste.
Altre volte li nascondevamo a Varese presso il collegio S. Carlo o la casa di don Motta o presso le suore o presso qualche parroco mentre si preparava la linea di fuga.
Quando la situazione degli ebrei peggiorò, rendendo impossibile vivere in Italia, alcuni si sono salvati, ripeto, con documenti falsi, ma la maggior parte si portò verso la svizzera e allora tutta l’organizzazione consisteva nella velocità con cui si poteva farli espatriare.
Devo ricordare che avevamo anche degli informatori della polizia fascista i quali ci avvisavano in tempo quando veniva spiccato  una dato mandato di cattura, per cui noi potevamo anticipare i tempi e farli scomparire prima che arrivassero i nazifascisti ad arrestarli.
Tutti usavamo nomi di battaglia, in modo che non potevamo essere scoperti.
La maggior parte degli ebrei sono caduti per denuncia; alcuni non  siamo riusciti ad individuarli, la maggior parte  perché aveva cambiato residenza.
Oltre a salvare vite umane OSCAR attirava l’attenzione dei tedeschi e dei fascisti, distraendoli, innervosendoli, impegnandoli.
Le autorità fasciste denunziavano a noi sacerdoti l’azione di distribuzione di stampa contro di loro e tutta l’azione per gli ebrei, promettendo morte per chi si attivava per queste opere, ignorando che spesso le persone con le quali interloquivano erano i principali responsabili.
Altra nostra attività è stata quella di sviare i poliziotti nella ricerca di persone, in modo da indirizzarli su piste sbagliate e facendo perdere loro gran tempo nella ricerca di persone inesistenti.
Abbiamo combinato anche delle beffe, come quando abbiamo sottratto all’ospedale di Varese il bambino della famiglia Balcone, che fu ospitato in casa di don Motta e dormì con la testa contro il muro della camera dove dormiva la guardia fascista che lo stava ricercando.
Fu certo una tensione psicologica e fisica fra le più terribili, che durò fino ai primi di aprile del 1945, quando si ebbe il crollo della sorveglianza.


*Tutte le immagini di questo e del prossimo articolo , tranne le due lapidi della val Codera (mie) e la testata de Il Ribelle (Silvio Puccio), sono tratte dal libro di Vittorio Cagnoni dedicato a Baden. M.B.



Article 1

27 GENNAIO - GIORNO DELLA MEMORIA

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Sulla famiglia Milla puoi leggere su questo blog l'articolo:

L'ARRESTO E LA DEPORTAZIONE DI UNA FAMIGLIA DI EBREI A VERDERIO SUPERIORE (1943)
pubblicato il 22 marzo 2009

DALLA FRUTTA AI DOLCI. I PONZONI, UNA FAMIGLIA DI AMBULANTI di Marco Bartesaghi

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"Peppino" Ponzoni
Giuseppe Ponzoni, detto Peppino, classe 1936, è stato, fino all’età di settant’anni, titolare della“Dolciaria Pucci”, una ditta per la produzione e la vendita di dolci. Vendita ambulante: Peppino, infatti,  ha rappresentato la sesta generazione di Ponzoni impegnata nell’ambulantato. Soprattutto a Verderio Inferiore, mi dice, era conosciuto, come“el cuntén di caramei” – il conte delle caramelle.




Tarcisio Sala


A questa chiacchierata partecipa anche Tarcisio Sala, suo amico da una vita, poiché sono nati e vissuti a lungo nella stessa corte, in via Principale n. 17: la “curt di mesté”.







La produzione e vendita di dolciumi è il punto di arrivo di una storia iniziata dai suoi avi con la vendita di frutta e verdura, continuata con le granaglie, il gelato, il ghiaccio e tanto altro.


Banchetto della "Dolciaria Pucci"


Ma andiamo con ordine - per quanto possibile, dato che i due miei interlocutori sono vulcani di parole e di memorie.

LA RISCOSSIONE DEGLI AFFITTI E LA VENDITA DELLE GRANAGLIE


Mario Ponzoni, classe 1900, padre di Peppino, oltre alla vendita ambulante di frutta e verdura, aveva l'incarico dalla famiglia Gnecchi Ruscone, di riscuotere ogni anno, l’11 novembre, nel giorno di San Martino, gli affitti dai contadini. Il pagamento avveniva tramite la consegna di determinate quantità di prodotti del lavoro dei campi – granoturco, segale, frumento - che  Mario rivendeva ai Consorzi Agrari, in particolare a quello di Cernusco Lombardone.



Oltre a quanto dovuto per il pagamento dell’affitto, i contadini gli affidavano, affinché la vendesse, anche una parte del prodotto restante, in modo di poter avere a disposizione del denaro contante per la vita quotidiana.

Peppino, fin dalla terza o  quarta elementare, aveva cominciato ad aiutare il padre. Fra i suoi incarichi,  ricorda quello di spingere la cariola carica di granaglie fino al consorzio a Cernusco.


Il consorzio Agrario di cernusco Lombardone (1)


E IL SABATO E LA DOMENICA: GELATO!

“Con l'evoluzione” - racconta Peppino, senza spiegarmi cosa intenda dire con questa espressione-“gli ortolani cominciarono a fare i gelati”.
 

Anche questa attività fu iniziata dal padre, Mario, ma Peppino, per perfezionarla, girava per i mercati, fingendo di bighellonare, spiando quello facevano gli altri e carpendone i segreti: “Non c’era nessuno che ti diceva il procedimento, erano tutti gelosi, tutti arraffati. Allora si imparava a fare questo, questo e quest’altro con la parola di uno, la parola “schinchignata di un altro e via”. Un metodo usato per il gelato come per tutti gli altri prodotti via, via commercializzati dalla “ditta”.

La loro prima macchina per il gelato  era azionata a mano. Consisteva in un mastello di legno che doveva contenere una “pentola” di rame, più piccola abbastanza da lasciare lo spazio per mettere acqua, ghiaccio e sale, cioè il refrigerante.
Nella macchina acquistata successivamente, la “pentola” interna girava grazie a un motore elettrico, ma la sostanza del processo non cambiava.




Elisa Ponzoni (2)
Mi permetto un ricordo personale. Anche la mia famiglia, tra il 1956 e il 1972  produceva e vendeva gelati, al bar Colonne e Commercio in piazza XX Settembre a Lecco (mio papà aveva cominciato ancor prima, sempre a Lecco, al bar Colonne, in via Roma): le macchine per produrlo, almeno quelle che ricordo io, erano più evolute di quelle di cui mi parla Peppino, ma il principio era sempre lo stesso: un recipiente cilindrico ruotava in un recipiente più grande con il refrigerante. In quello interno si versava il preparato per il gelato, che una spatola in movimento mescolava in continuazione finché era raggiunta la giusta consistenza.

Questa storia che abbiamo in comune, mi consente di condividere con lui una delle sensazione più belle che ricordo: per verificare se il gelato era pronto, si metteva un dito nella “pentola” in movimento, lo si ritraeva pieno e lo si succhiava: non ricordo di aver provato gelato più buono.

I Ponzoni vendevano il loro gelato a Verderio, con il tipico triciclo, il sabato pomeriggio e la domenica. I gusti erano tre: “panna” (crema), cioccolato e limone. I coni avevano tre prezzi. Quelli che ricorda Peppino (ma non specifica il periodo) erano cinque, dieci e venti lire (“Quello da venti” - dice - “lo compravano solo il lattaio e il Villa “Barbuta”).
Molti clienti venivano anche dai paesi vicini, Calusco, Carvico, Pontida. Venivano con l'asino, e facevano la coda fuori dal portone del cortile.





LA DISTRIBUZIONE DEL GHIACCIO

Prima della diffusione dei frigoriferi, chiunque  avesse bisogno di mantenere al freddo i propri prodotti, si doveva rivolgere ai “ghiacciaroli”, che avevano le macchine per produrre il ghiaccio, e a coloro che lo distribuivano.
I Ponzoni erano fra questi ultimi, e facevano le consegne a 44 paesi dei dintorni.

Il mercoledì di ogni settimana raccoglievano le ordinazioni e il giovedì trasmettevano l'ordine ai produttori. Peppino ricorda che in un primo tempo si rivolgevano a una ditta di Monza e in seguito a una di  Vimercate: la ditta Gaspari, situata in via Pinamonte, nei pressi dell’attuale bar Brianza. Questa ditta aveva a disposizione, presso una cascina di Lomagna, una cantina molto profonda e fredda dove il ghiaccio, immagazzinato appena “sfornato”, durava anche dieci, quindici giorni.

Qualche volta, quando il quantitativo acquistato dai fornitori principali non era sufficiente a soddisfare tutte le richieste, i Ponzoni, per la parte mancante, si rivolgevano alla ditta Mattavelli di Verderio Inferiore, che produceva il ghiaccio non tanto per venderlo, quanto per conservare i propri formaggi.

Il sabato e la domenica, con carri trainati da cavalli, avveniva la distribuzione ai clienti: bar, negozi, alberghi che si erano muniti del “giasciró”, contenitore sul cui fondo veniva adagiato il ghiaccio.

L’albergo di Paderno, ricorda Peppino, ne aveva uno grande, dove ci potevano stare otto  stecche da 25 chili l’una: “Loro per tutta la settimana erano a posto e avevano la roba fresca”.

Un carro partiva da Verderio, e andava a Porto, Cornate, Colnago, Busnago, Trezzo, Capriate, Medolago, Suisio, Calusco e, infine, Paderno. Un altro faceva il giro di Vimercate; un altro ancora andava verso Lomagna, Casatenovo, Lesmo, Camparada e così via; un altro a Lecco.



LE CALDARROSTE E I “FILUN”

Il prodotto autunnale per eccellenza erano le castagne, che i Ponzoni vendevano sotto forma di caldarroste, su cui non è necessario dilungarsi, o di “filùn”.

Filùn”, in Brianza; “fizzoni” nel lodigiano; “firun” è il nome che ho trovato in internet; “sfilzoni”, è un altro nome usato da Peppino: erano le “collane”, formate da castagne infilate su fili di cotone. Ce n’erano a tre, a quattro e anche a sei fili. In queste ultime, sui quattro fili esterni, quelli in vista, si mettevano le castagne più belle e più grandi; sui due interni, Peppino ammette, ridacchiando, “gh’eren quéi piscinin”.

Nel pieno della stagione almeno una quindicina di donne di Verderio, per guadagnare qualche soldo, andavano nel cortile dei Ponzoni a preparare i “filùn”.
Non era un lavoro semplice, perché, se non fatto correttamente, le castagne diventavano nere e prendevano il sapore del filo.
Per avere un buon risultato bisognava lasciare le castagne a macero nell’acqua tiepida per 24 ore, in modo che il guscio si staccasse bene dal frutto. L’abilità di chi le infilava consisteva nell’inserire il filo, dalla punta “dove c’è il baffettino”, bucando solo il guscio e lasciando intatto il frutto.




I "filùn" - immagine tratta dal web
Peppino, che è molto orgoglioso della qualità di quel che vendeva, racconta che a Monza, alla festa della Madonna delle Grazie le donne dicevano – “i dón disevén” – “Ghem de ‘nda de Pepino, l’urtulón, quel sé ch’el gha i castegn ch’ in tutt san. Perché i em cumprà a Lodi e i eren tutt marsc”.




***


L'attività dolciaria vera e propria della famiglia Ponzoni ha inizio quando, verso la metà degli anni cinquanta, si comincia a percepire che, con la diffusione dei frigoriferi elettrici, la vendita del ghiaccio si sarebbe esaurita.




Pentole in rame del laboratorio di Peppino Ponzoni


DALLO ZUCCHERO COTTO  LA TIRACCA, IL CROCCANTE E IL MADRIGALE




La tiracca è stato il primo dolce che hanno prodotto direttamente, lo faceva già Mario.

Interviene Tarcisio: “A fa la tirlacca: na cicada sui man e via…”.Si è sempre detto infatti, e l'ho sentito anch'io, che per lavorare la “tiracca” si sputasse sulle mani e poi le si desse la forma. Ma Peppino nega: era solo un modo di dire e quelli che lo facevano, lo facevano per finta

La tiracca è uno zucchero che va fatto cuocere in una pentola di acciaio, a fuoco molto basso e tenendolo mescolato, per far sì che non attacchi e che non sappia di bruciato.

Quando bolle, e lo zucchero fa la schiuma, si immerge la punta di un coltello, gli si lascia prendere la temperatura del prodotto. Poi lo si toglie e si spalma lo zucchero rimasto attaccato al coltello sul tavolo di marmo, bagnato in precedenza con olio caldo. Le strisce di zucchero ancora calde, se no si spezzano, vengono lavorate a mano per formare delle trecce.

Sembra facile ma, come dice Peppino “Ghe vór la tennica”
.

Anche la tiracca ha diversi nomi: nel lodigiano e nel milanese si chiama “manna” e in altri paesi ancora è conosciuta come “tiramolla”.



 

***

Peppino, per imparare a fare il croccante si rivolge alla pasticceria Viscardi di Cernusco Lombardone, perché il suo prodotto essere “DOC”: “mi, quand che vedi ‘na bancarela cun su ‘sti crucant, ‘ste noccioline, ‘ste arachidi, ‘ste mandorle, negher ... Ma cazo, me se fa a dac a la gent che la roba le, capisen  mia che ruvinen anca i alter?”.





Il procedimento per il croccante è simile a quello per la tiracca. Bisogna sciogliere lo zucchero, curandolo attentamente. Quando è cotto si abbassa il fuoco e continuando a mescolare con una mano, con l'altra , una manciata per volta, si buttano le mandorle, o le nocciole.
Poi lo si lavora, sul marmo unto di olio tiepido. Quando ha raggiunto la temperatura del marmo, gli si da la forma con il mattarello finché risulta bello lucido e magro.


***

Il madrigale è un altro tipo di zucchero cotto, che si vende a quadretti. La sua particolarità è quella di avere un sapore dolce/amaro, dovuto alla presenza del rabarbaro.


LE FRITTELLE
Sulle frittelle, la mia domanda  è stata diretta: “Come si fanno le frittelle?”.
La risposta diplomatica, molto diplomatica: “Bisogna avere un po’ di concentrazione, far le cose per benino … Se l’olio non è pronto devi aspettare; se è pronto l’olio ma la lievitazione della pasta è indietro devi aspettare”.
Insomma, niente ricetta. E poi divaga: “A me mi fa venire una rabbia che adesso hanno dato la possibilità ai giostrai di fare le bancarelle piccoline e di fare le frittelle. Io gli metterei dentro il naso per vedere che effetto fa quando la tiro fuori. Non si può lavorare così”!.



Le frittelle








Allora ci concentriamo sui fornelli per cuocerle, che Peppino progetta e poi si fa costruire. Per i bruciatori si rivolge a una ditta di Torino, la Providus, secondo lui la migliore in Italia. Perché i bruciatori, mi dice, devono avere la caratteristica di emettere la fiamma azzurra che, a differenza di quella gialla, non sporca le pentole.




 ***

Finiamo la chiacchierata con il ricordo delle fiere di paese alle quali partecipava e dove, quando duravano più giorni, in qualsiasi stagione dormiva sotto il banchetto, per non smontarlo ogni sera e rimontarlo ogni mattina.



Peppino Ponzoni e la moglie al banchetto di dolci


LA SETTIMA GENERAZIONE
 
La tradizione di vendita ambulante dei dolci ,della famiglia Ponzoni non si è fermata con Peppino: la continuano i suoi figli, Ruggero e Mario, autonomamente uno dall'altro. Ma di loro parleremo un'altra volta.

Note
(1)  Immagine tratta dal libro di Mario Ferrario "Palazzi e ville a Cernusco Lombardone"
(2)  Immagine tratta dal libro di Giulio Oggioni "Quand sérum bagaj"














"BUMBUNAT" - IL VENDITORE DI DOLCI di Anselmo Brambilla

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Venditore di dolciumi bumbön, alla domenica specialmente il personaggio metteva il banchetto di vendita davanti alle Chiese ma a volte passava anche per le case con un largo e lungo cesto pieno di leccornie, almeno per quei tempi, crucont croccanti di nocciole e zucchero esabesi specie di dolce gommosa liquerizia, castagnaccio e magiuster fragole di zucchero e altro.




I bambini accorrevano al richiamo di tutti questi dolciumi era una festa quando arrivava ul bumbunat cun la sgorba, famosi nella nostra zona ul Rucheta de Calc e ul Pona de l’Albarea, questi personaggi erano presenti a tutte le feste patronali.

D’inverno i bumbunat vendevano oltre ai dolciumi anche le castagne, i filon castagne cotte infilate nello spago in un modo tale da formare una specie di appetitosa collana. 




Anselmo Brambilla

* Disegno di Sara Bartesaghi

FRANCESCO GNECCHI RUSCONE: IL PIACERE DI PROGETTARE di Anna Chiara Cimoli

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Quando nel 2002 l'architetto Francesco Gnecchi Ruscone ha donato il suo archivio professionale al C.A.S.V.A. (Centro di Alti Studi sulle Arti Visive) del comune di Milano, alla dottoressa Anna Chiara Cimoli è stato affidato l'incarico di redarne l'inventario.
Da questo lavoro è scaturito un volume, intitolato “L'ARCHIVIO DELL'ARCHITETTO GNECCHI – RUSCONE PRESSO IL C.A.S.V.A.”, una copia del quale è disponibile presso la biblioteca di Verderio.
Introduce il volume un saggio intitolato “Il piacere di progettare. L'attività di Francesco Gnecchi – Ruscone fra radici milanesi e respiro internazionale”.
Di questo testo viene qui riprodotto il primo paragrafo.


Al termine del brano  vengono presentate alcune fotografie relative a due edifici progettati dall'architetto Gnecchi Ruscone, che si trovano nelle vicinanze di Verderio, a Vimercate e Merate. M.B.









Da "IL PIACERE DI PROGETTARE. L'ATTIVITÀ DI FRANCESCO GNECCHI RUSCONE FRA RADICI MILANESI E RESPIRO INTERNAZIONALE" di Anna Chiara Cimoli
 
UNA FORMAZIONE COSMOPOLITA, UN APPRENDISTATO NELLA RESISTENZA

Nato nel 1924 in via Filodrammatici, a due passi dal teatro alla Scala, Francesco Gnecchi Ruscone appartiene a una generazione di milanesi che parlano ancora il dialetto, senza snobismo né ostentazione, come si parla una lingua imparata da bambino. A fianco a questo primo imprinting vi è quello, parallelo e complementare di una componente internazionale destinata a lasciare tracce durature. Un nonno laureato all'Università di Lipsia; la madre, Antonia Caccia Dominioni, studentessa al Sacré Coeur in Francia; la frequentazione della “Revue des Deux Mondes” e dell'Illustrated London News” cui erano abbonati i genitori; la presenza costante di Miss Jessie Mason, governante della famiglia: l'insieme di questi fattori produce da un lato un apprendimento delle lingue naturale e precoce; dall'altro un respiro intellettuale fin da subito interessato al mondo e alla diversità.
Francesco Gnecchi Ruscone si iscrive nel 1942 alla facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, dove è allievo di Portaluppi, Cassi Ramelli, Dodo, Annoni, Ponti, e compagno, fra gli altri, di Alberto Mazzoni, Gustavo Latis e Giovanna Pericoli.
Gli eventi bellici interrompono presto gli studi: Gnecchi partecipa alla Resistenza come partigiano combattente a partire dal marzo 1944, facendo parte della Missione Nemo. Imprigionato e torturato, si distingue per il coraggio  e l'intraprendenza, ottenendo la Medaglia di Bronzo al Valor Militare.
Questa esperienza sarà estremamente formativa: il senso della responsabilità, dell'appartenenza e della lealtà rimangono linee–guida fondamentali, nel privato e nel pubblico. Di ritorno a Milano, Gnecchi prosegue gli studi, partecipando attivamente alla vita associativa studentesca – fa parte del Consiglio Studentesco di facoltà e della Associazione Libera Studenti di Architettura – e organizzando quelle che definisce delle “forme di ribellione civile”, quale il ciclo di contro-lezioni organizzato all'Angelicum come forma di protesta verso il preside Mancini, cui vengono invitati, fra gli altri, Ernesto N. Rogers e Max Bill.
Terminati gli studi nel 1949, Gnecchi è subito coinvolto in uno dei momenti fondanti della riflessione architettonica postbellica: grazie alla conoscenza delle lingue straniere viene invitato da Rogers a partecipare, in qualità di segretario della sessione sull'industrializzazione dell'architettura, al VII congresso CIAM di Bergamo. Lo stesso anno partecipa alla CIAM Summer School di Londra, presentando il progetto di un edificio commerciale nel quartiere di Knightsbridge. Il soggiorno londinese si protrae per due anni: Gnecchi Ruscone diventa assistente presso presso l'Architectural Association School of Architecture e collabora con la Architects' Cooperative Parternship, partecipando alla progettazione di padiglioni per il Festival of Britain del 1951.
Gli anni all' Architectural Association sono per Gnecchi un punto di partenza importante.


Autoritratto di Francesco Gnecchi Ruscone, tratto dal suo ultimo libro "Storie di architettura".

Ne nascono una duratura amicizia con Robert Furneaux Jordan, “principal” della scuola, e, per tutti gli anni in cui l'architetto resterà membro dell'associazione (cioè fino al 1985), una fitta serie di scambi, che vede un momento particolarmente  importante nel rapporto di collaborazione con la “Architectural Rewiew”.
Da queste prime esperienze giovanili in avanti, il contatto con il mondo anglosassone sarà costante e punteggiato di collaborazioni, scambi, viaggi fisici e intellettuali, in una rete di rapporti fra professionale e personale che costituisce un capitolo importante della vita e della carriera dell'architetto.
Di ritorno in Italia, si offre a Gnecchi un'occasione prestigiosa: viene chiamato a curare l'allestimento della Mostra sulla Proporzione alla IX Triennale. L'idea di partenza è di Le Corbusier; la curatela di Carla Marzoli con la collaborazione di Eva Tea. Giovanissimo,  l'architetto realizza qui  un allestimento rimasto una pietra miliare nella storia della museografia italiana del dopoguerra […].
La tramatura dell'allestimento, realizzato con maglie di tubi di ferro, è impostata sulla sezione aurea. Non si tratta di un virtuosismo, ma di un modo di progettare attento all'armonia, inscritto in una linea, spesso frequentata da Gnecchi, che dall'antico porta proprio a Le Corbusier, punto di riferimento, per affinità o altre volte per contrasto, di quei primi anni di apprendistato. Così ricorda l'architetto: “Col maturare delle esperienze, Le Corbusier cominciava ad apparire un po' meno un mito di quanto non fosse solo pochi anni prima, ma rivestiva comunque un posto di primo piano nella cultura architettonica europea, e in quell'occasione , responsabilizzato dell'allestimento della mostra, non potevo esimermi dal sentirmi, in una certa misura, lecorbusiano”.


Mostra degli Studi sulle Proporzioni, dal libro "Storie di architettura"

Il ricorso a moduli rigorosamente proporzionali, la realizzazione di un allestimento significativo rispetto ai contenuti della mostra ma visivamente “leggero” e non invasivo, l'uguale attenzione agli aspetti tecnici da un lato e a quelli poetici dall'altro sono tutte caratteristiche che si ritrovano spesso  nel metodo progettuale di Gnecchi Ruscone. […]
Nei primi anni cinquanta, Gnecchi Ruscone viene invitato a tenere dei corsi alla North Carolina University, a Berkeley e alla Tulane University (le ultime due su suggerimento di Kidder Smith ai presidi delle facoltà). Non è questo, però, il momento di partire: su indicazione di Lodovico Barbiano di Belgioioso, nel 1951 l'architetto viene infatti chiamato da Adriano Olivetti a Roma, dove per quattro anni ricopre il ruolo di responsabile della Segreteria Tecnica della U:N:R:R:A:-C:A:S:A:S.


Anna Chiara Cimoli


EDIFICIO RESIDENZIALE VIA DUCA DEGLI ABRUZZI , VIMERCATE - 1973 - 1977




 













SEDE DELLA BANCA BRIANTEA (oggi BPM, Banca Popolare di Milano), MERATE, 1965 - 1966











SCULTURA-FONTANA REALIZZATA SU DISEGNO DI FRANCESCO GNECCHI RUSCONE, BANCA BRIANTEA,  MERATE, 1965 - 1966








Fotografie di Marco Bartesaghi

Article 1

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BIBLIOTECA DI VERDERIO 
CONFERENZE SCIENTIFICHE 2015




GENESI E MUTAGENESI DEI SUPEREROI
(i supereroi nati da mutazioni genetiche servono a introdurre
il tema della mutazione indotta e spontanea e della biodiversità)
Roberto PILU
Dipartimento di Scienze Agrarie e Ambientali
Università degli Studi di Milano

Venerdì 20 Febbraio
ore 21,00
Sala Civica di Villa Gallavresi
Viale dei Municipi
Verderio

QUESTO IL PROGRAMMA COMPLETO DELLE CONFERENZE:


 VENERDI' 27 FEBBRAIO

PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI FRANCESCO GNECCHI RUSCONE

STORIE DI ARCHITETTURA





LUCE E MELODIA

MOSTRA DI PITTURA - SCULTURA
di
RAFFAELLA DRUSIAN




4 FEBBRAIO 2015: VERDERIO HA COMPIUTO UN ANNO

DUE LETTERE DI ANTONIO DEAMBROGI, CLASSE 1897, DRAGONE DEL REGGIMENTO "NIZZA CAVALLERIA" - 4° SQUADRONE a cura di Carla Deambrogi Carta

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Nel 1968, cinquanta anni dopo la fine della Grande Guerra, il Dragone Antonio Deambrogi, del 1° Reggimento "Nizza Cavalleria", scrive a due suoi ufficiali, il tenente Alessandro Levesi, poi divenuto Generale, e il tenente Guido Reyneri, congedato con il grado di Colonnello, per ricordare loro gli episodi della guerra che insieme avevano condiviso. Le due lettere, con le rispettive risposte, vengono qui presentate dalla figlia di Antonio, Carla, che le ha conservate insieme alla "mappa", redatta a mano dal padre, e ad alcune fotografie. Della signora Carla, assidua collaboratrice di questo blog, ricordo la presentazione da lei fatta nel novembre scorso di alcuni documenti di guerra appartenenti a suo suocero, il Capitano Virgilio Carta. Li potete trovare sotto l'etichetta Carla Deambrogi Carta. M.B.


DUE LETTERE DI ANTONIO DEAMBROGI, CLASSE 1897, DRAGONE DEL REGGIMENTO "NIZZA CAVALLERIA" - 4° SQUADRONE


Il Dragone Antonio Deambrogi



Antonio è stato chiamato alla visita di leva a fine settembre del 1916 e assegnato all’arma di Cavalleria.
A fine ottobre ha raggiunto il reggimento a Savigliano (Cuneo) ed è stato inquadrato nel 1° plotone del 4° squadrone, comandato dal Capitano Mario Leitenitz.
Terminato il periodo di istruzione (forse a fine settembre o inizio ottobre del 1917) il Reggimento lascia Savigliano per il fronte.
Arrivati al confine della Lombardia con il Veneto, incontrano i primi carri carichi di profughi in fuga dalle loro case, dopo lo sfondamento di Caporetto. E più avanti non incontrano solo civili ma anche migliaia e migliaia di soldati in ritirata: a piedi, suoi carri o sdraiati sul ciglio della strada.
Sui ponti, alti ufficiali, con le pistole in pugno cercavano di fermare quella massa di sbandati in fuga.
Antonio ricordava la sensazione di sgomento provata alla vista di quel desolante spettacolo e raccontava che di fronte a quello sfacelo aveva pensato con amarezza che tutto fosse ormai perduto.
E loro, giovani e inesperti soldati, mentre cercavano di aprirsi un  varco in quel caos totale venivano spesso dileggiati, con parole e atti, da quei militari in ritirata.
Il fronte alla fine fu raggiunto.
Antonio raccontava dei lunghi e continui spostamenti per la perlustrazione del terreno o per segnalare la posizione del nemico. In questi casi si dovevano superare le nostre linee, scavalcando trincee e reticolati. Poi c’erano i tentativi di scavalcare i fiumi, spesso in piena, sotto il fuoco degli austriaci. In alcuni casi combattevano appiedati.
Tra le varie azioni di guerra Antonio ne ricordava due: una del giugno 1918 e l’altra svoltasi tra il 27 ottobre e il 3 novembre 1918.
 

IL CAPITANO LEITENITZ
 
Antonio è stato attendente del Capitano Leitenitz, un ufficiale esigente, ma molto umano nei rapporti coi soldati. Il capitano gli aveva confessato che l'aveva scelto come attendente, perché aveva gli stivali sempre perfettamente lucidi.
Nel 1919 Antonio ha seguito a Parigi il suo capitano che era stato scelto come “attaché” militare alla conferenza della Pace.
Ufficiale e attendente si erano molto affezionati e, finita la guerra, hanno sempre mantenuto una regolare corrispondenza. Alla fine del 1945, il Capitano Leitenitz, congedato col grado di colonnello, si era trasferito a Milano, dove anche Antonio abitava. Colpito da infarto, l'ex Capitano Leitenitz è stato assistito nelle ultime ore della sua vita dal suo ex attendente.
La morte del suo capitano è stata per Antonio un grande dolore: era come se avesse perduto un fratello.

Carla Deambrogi Carta





CERNUSCO LOMBARDONE, 18 OTTOBRE 1968. LETTERA DI ANTONIO DEAMBROGI ALL'EX TENENTE ALESSANDRO LEVESI

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Trascrizione della lettera

Cernusco Lombardone, 18 ottobre 1968
Egregio Signor Tenente, ora Generale ,
a cinquant’anni di distanza desidero ricordarLe alcuni episodi della nostra guerra e in particolare la nostra gloriosa avanzata.
Ricordo il suo arrivo al Reggimento nei tristi giorni seguiti alla ritirata di Caporetto: aveva un visetto da adolescente e il grado di aspirante – sottotenente. L’allora Capitano Mario Leitenitz, comandante lo Squadrone, Le affida il comando del 4° plotone e Le assegna il cavallo Quaia.
Ai primi di dicembre, il 2° gruppo si accantona a bassano Bresciano; il Comando del Reggimento è a Verolanuova .
Il 29 maggio lasciamo Bassano Bresciano. A tappe raggiungiamo Piove di Sacco (Padova).
Il pomeriggio del 21 giugno giunge improvviso l’ordine di partire. Dopo mezz’ora di trotto, si scatena un violento temporale. Arriviamo a Paese (Treviso) verso mezzanotte, bagnati fradici.
Il pomeriggio del 23 giugno lasciamo Paese per destinazione ignota. Arriviamo a Povegliano a sera inoltrata.
 


 
LA MAPPA CON LA DESCRIZIONE DELL'AVANZATA E SUCCESSIVA RITIRATA (Piove di Sacco - Spresiano - Bertipaglia) E LA SUCCESSIVA AVANZATA FINO A BONZICCO (Bertipaglia - Badoere - Spresiano - Pordenone - Bonzicco)



Dopo aver fatta l’abbevarata ai cavalli e averli governati e consumato il miserissimo rancio, noi del 1° plotone ci corichiamo in un piccolo fienile col Ten. Reyneri (non so dove fosse accantonato il 4° plotone da Lei comandato). Dopo neanche un ora sentiamo la voce del capitano Leitenitz “Reyneri, alzati, che col tuo plotone devi andare di pattuglia, per occupare la Cascina del Pescatore, oltre il Piave”.
Siccome l’organico del 1° plotone non è completo, viene chiamato un soldato del 4° plotone. Non ricordo il nome di quel soldato: ricordo che era siciliano e montava la cavalla Aversa. Rimaniamo sul Piave fino a mezzogiorno, ma non riusciamo nell’impresa.
Nella notte fra il 24 e il 25 giugno ritorniamo a Paese.
Il 29 giugno, nel pomeriggio, siamo comandati a rendere gli onori militari al funerale di Francesco Baracca, a Quinto di Treviso.
Nella notte del 1° luglio lasciamo Paese e arriviamo a Maserà (Padova). Il 4° Squadrone viene destinato alla frazione Bertipaglia. Lei aveva la stanza in quella piccola casa col tetto di paglia: è vero?
A Bertipaglia restiamo fino al 23 ottobre.
Partiti da Bertipaglia, raggiungiamo Badoere.
Il 27 ottobre, alle 7 di mattina, tutto il reggimento è schierato in quella piccola piazza rotonda di stile veneziano, circondata da portici e con due porte di accesso: sembrava una fortezza. Ecco uno squillo di tromba. Da una delle porte che immettono nella piazza entra il Colonnello Tosti di Valminuta, comandante il Reggimento: Lei, a cavallo della piccola cavalla Quaia, è a fianco del Colonnello come alfiere, essendo l’ufficiale più giovane del reggimento, con lo stendardo lacero. Il Colonnello fa un breve discorso  e subito dopo iniziamo la galoppata verso il Piave, immersi nella nebbia.
A tarda sera arriviamo nel punto preciso in cui, a giugno avevamo tentato di attraversare  il fiume. Facciamo una breve sosta e, verso mezzanotte, iniziamo la traversata. Prima passano i bersaglieri ciclisti con le loro mitraglie e poi tocca a noi.
Raggiungiamo l’altra sponda con molta difficoltà, sia per la forte corrente sia per il violento fuoco degli Austriaci.
Alle 7 di mattina del giorno 28 il Reggimento conquista Gaiarine: qui ci fermiamo fino al giorno 30, impegnati in azioni di pattuglia e di esplorazione del terreno.
Nel tardo pomeriggio  del giorno 30 ottobre riprendiamo la marcia. Raggiungiamo Oderzo  e qui iniziamo il difficoltoso passaggio del Monticano e ci prendiamo le ultime furiose sventagliate delle mitragliatrici e le ultime fucilate.
 

 
30 ottobre 1918. Il 4° squadrone del "Nizza Cavalleria" attraversa il Monticano presso Oderzo.



A notte inoltrata occupiamo Motta di Livenza e subito dopo attraversiamo il Livenza senza difficoltà.
A mezzanotte del 31 ottobre riprendiamo la marcia in direzione di Pordenone . All'alba del 1° novembre siamo in vista della città che avevamo lasciato un anno prima siamo stati i primi a rioccupare dopo la ritirata del 1917.
Occupata Pordenone, il 2 novembre riprendiamo la marcia.
Oltrepassiamo con semplicità il Meduna. Non è così per il carriaggio che sprofonda con le ruote nel fango, restando impantanato.
È ormai sera quando arriviamo a S. Giorgio della Richinvelda, completamente avvolti nella nebbia: fa freddo la riserva dei viveri è finita, non c'è speranza per il carriaggio dei viveri. Siamo ormai rassegnati al digiuno, ma la popolazione ci offre della polenta, graditissima anche se ormai fredda.
Prepariamo un bivacco di fortuna per la notteall'alba del 3 novembre raggiungiamo la riva del Tagliamento. Il 4° squadrone viene appiedato per proteggere il 5° Squadrone nel passaggio del fiume, con il compito di occupare Bonzicco.
Il Ten. Turro col suo plotone tenta la traversata. Dalla piccola altura di Bonzicco le mitraglie austriache cominciano a sparare  furiosamente e il plotone è costretto a retrocedere. Il capitano Berchet incita il Tenente a ritentare. Il plotone ripete il tentativo e per una decina di minuti è ancora oggetto del fuoco delle mitraglie.
Ma all'improvviso le mitraglie tacciono e dall'altra sponda si sente uno squillo di tromba: è il segnale della resa e poco dopo sul campanile sventola la bandiera bianca.
E così, per noi, il mattino del 3 novembre finisce la guerra
Con affetto
Antonio Deambrogi



TORINO, 23 OTTOBRE 1968. LETTERA DEL GEN. ALESSANDRO LEVESI AD ANTONIO DEAMBROGI






Trascrizione della lettera

Torino, 23 ottobre 1968
Caro De Ambrogi,
Ho letto con molto interesse la tua lettera , e mi sono commosso al ricordo degli episodi di guerra  da te rievocati con tanta precisione ed abbondanza di particolari. - Come fai a ricordare così bene fatti, nomi e date a distanza di quasi cinquant'anni? Forse avevi tenuto un diario di quei giorni memorabili?
L'allora tenente Reyneri è sempre vivo e vegeto, nonostante i suoi 77 anni; risiede a Torino, ma non all'indirizzo che dici tu, bensì in via Montevecchi 22.- Ho spesso occasione di incontrarlo, e gli mostrerò la tua lettera .- Cisiamo visti ancora la settimana scorsa a Pinerolo, ove, come forse avrai saputo, ha avuto luogo un grande raduno di vecchi cavalieri (più di 3000 intervenuti, provenienti da ogni parte d'Italia) per l'inaugurazione del Museo della Cavalleria, una cosa bellissima, che, se ti capita di venire da queste parti, non devi mancare di visitare.-
L'allora capitano Leitenitz, invece, è morto a Milano alcuni anni fa.-
Non devi farti cattivo sangue per la croce di cavaliere. -Io penso che tu ne abbia pienamente diritto, e certamente te la daranno se avrai la pazienza e la buona volontà di seguire la lunga e noiosa trafila burocratica attraverso gli uffici municipali del tuo paese. Nel caso ti occorressero dei rapporti circa la tua effettiva partecipazione ai fatti d'arme del 1917/18, il Col. Reyneri, ed eventualmente io stesso, siamo senz'altro disposti a rilasciarteli.-
Scrivimi ancora, se credi a proposito, sarei curioso di sapere come hai fatto a procurarti il mio indirizzo!), ed io ti risponderò.
Lieto di aver ritrovato, dopo mezzo secolo di vita, un vecchio dragone del magnifico 4° Squadrone di “Nizza”, ti invio il mio più cordiale saluto
Aff.- Sandro Levesi


TORINO, 4 NOVEMBRE 1968. LETTERA DEL COLONNELLO GUIDO REYNERI AD ANTONIO DEAMBROGI


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Trascrizione della lettera

Torino 4 novembre ‘968
Caro De Ambrogi
Con il più vivo interesse ho letto la tua lettera che hai inviato al Gen.le Levesi e ti assicuro che mi sono commosso per il buon ricordo che serbi di me, e per i fatti, le località e le persone che con assoluta precisione hai elencato. Bravo, ammiro la tua memoria, e ti accerto che il ricordo di tanti avvenimenti lieti o tristi, difficili e pericolosi, trascorsi col mio plotone di Dragoni, del quale tu facevi parte, mi ha fatto non solo piacere, ma mi ha anche commosso! – E benché non abbia ben presente la tua figura, pur tuttavia ricordo benissimo che al mio plotone vi era il Dragone De Ambrogi, il Cap.le Maggiore […] e […] …
L’altra sera ho visto alla televisione i luoghi in cui abbiamo tentato di attraversare il Piave, la caduta dell’aeroplano del Magg.re Baracca, al quale, il 1° Plotone del 4° Squadr., l’unico della Cavalleria Italiana, ha reso gli onori alla sua sepoltura in un piccolo camposanto vicino al Piave, sotto il Montello!
 

 
IL TENENTE, POI COLONNELLO, GUIDO REYNERI DI LAGNASCO



Ti ricordi? C’era anche il conte di Torino con due o tre ufficiali. – E la nostra avanzata oltre il Piave, e l’entrata in Pordenone, ove il nostro Plotone è stato il primo a rioccupare dopo la ritirata di Caporetto! Ed il passaggio del Tagliamento, a Bonzicco, e la cattura di centinaia di prigionieri che poi abbiamo condotto nelle retrovie - … - e finita la guerra la nostra trasferta a Teramo, in Abruzzo per servizio di ordine pubblico e la nostra lunga marcia a cavallo, durata oltre due mesi, da Teramo a [Sotigliano]. Il 1° giugno ‘940, pochi giorni prima della dichiarazione di guerra, fui inviato in Libia, con un gruppo appiedato di 5 squadroni ed un gruppo d’Artigl. da Campagna, un bel comando di responsabilità, e ti assicuro che i miei soldati erano i migliori, ed in tutti i fatti d’arme avvenuti al confine con l’Egitto, il mio gruppo ha meritato medaglie al valore ed elogi; purtroppo in dicembre a Sidi el Barrani, in Egitto, attaccati da forti reparti corrazzati inglesi, bombardati dal mare, siamo stati schiacciati e fatti prigionieri, trasportati a Suez e poi in India, dove ci tennero prigionieri in campi di concentramento fino all’aprile del ‘946.
Rientrato in Patria sono stato colpito dai limiti d’età e messo in congedo.
L’unica mia consolazione è di aver fatto il mio dovere sempre e dovunque  e di aver goduto la fiducia dei miei inferiori e dei miei superiori –
 

 
MUSEO DELLA CAVALLERIA DI PINEROLO

 
L’altro giorno sono stato a Pinerolo all’inaugurazione del Museo della Cavalleria, vi erano le rappresentanze di tutti i Reggimenti, e tra tanti cavalieri due anziani come me sono venuti a salutarmi, dicendomi i loro nomi e che erano stati Dragoni di Nizza, al mio plotone, a Savigliano, nel 1914; cinquantaquattro anni fa!
Come già saprai, dopo la guerra ho continuato la vita militare, rimanendo per quanto mi è stato possibile tenente al 4° Squad.ne di Nizza, a Torino, col capitano Leitenitz, poi sono stato istruttore alla scuola di Cavalleria a Pinerolo, promosso Capitano in Vittorio Emanuele a Bologna, ove ho comandato il gruppo e fui Uff.le d’ordinanza di S. Ecc. il G.le Com.te  del Corpo d’Armata.
Ed ora caro De Ambrogi ti saluto, lieto di aver fatto una lunga chiacchierata con il mio vecchio Dragone. Una cordiale stretta di mano e tanti auguri tuo aff. mo Coll. Guido Reyneri



CERNUSCO LOMBARDONE, 10 NOVEMBRE 1968. LETTERA DI ANTONIO DEAMBROGI AL TENENTE GUIDO REYNERI


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Trascrizione della lettera

Cernusco Lombardone, 10 novembre 1968
Egregio Signor Tenente Reyneri, ora Colonnello
La ringrazio della Sua affettuosa lettera, ricca di particolari. Ora che ho avuto il Suo indirizzo dal Generale Levesi, desidero ricordarle l'azione per la quale Lei è stato decorato con la medaglia di bronzo.
Nel pomeriggio del 23 giugno lasciamo Paese (dove eravamo arrivati 36 ore prima, da Piove di Sacco, sotto una pioggia dirotta, con rovesci di grandine e vento) per destinazione ignota.
Arriviamo a Povegliano a sera inoltrata, sotto un altro temporale. Facciamo l'abbeverata ai cavalli, li governiamo e sistemiamo le bardature in una piccola stalla. Dopo aver consumato il rancio (una galletta e mezza scatoletta di carne) noi del primo plotone saliamo su quel piccolo fienile che certamente anche lei ricorderà, per passarvi la notte.
Ma dopo neanche un ora, ecco la voce del Capitano Leitenitz “Reyneri, alzati, che col tuo plotone devi andare di pattuglia per occupare la Cascina del Pescatore, al di là del Piave”.
Subito, nel buio del fienile, c'è un po' di brusio e di trambusto. Mi sembra ancora di sentirla, mentre, scendendo dalla scala a pioli, pronuncia quella frase che non ho dimenticato”Signor Capitano, io mi fido dei miei soldati!”
In poco tempo il plotone è pronto: è circa l'1,30.
Cavalli alla mano, ci dirigiamo al Comando di Divisione: già ci sono alcuni plotoni, altri stanno arrivando.
 

 
ANTONIO DEAMBROGI



Dopo un breve discorso del Gen Barattieri, comandante la Divisione, una voce nell'oscurità grida “A cavallo!”: comando che viene ripetuto dai Comandanti dei singoli plotoni.
In quel momento il Capitano Leitenitz si avvicina a Lei, l'abbraccia e la bacia.
Partiamo subito a trotto allungato: arriviamo a Spresiano, mentre l'artiglieria del Montello tuona.
Giriamo a destra, in una piccola strada di campagna.
Saltiamo le trincee del 111-112 fanteria: poveri ragazzi immersi nel fango fino quasi al collo!
A circa 200 metri dalle trincee, vicino ai reticolati, c'è un avamposto, rannicchiato in una buca di granata.
Saltiamo i reticolati ed eccoci nell'acqua del Piave.
Tentiamo la traversata, Lei in testa: la corrente è molto forte e travolge i cavalli.
Ripetiamo i tentativi per una buona mezz'ora, ma vista l'impossibilità di attraversare il fiume, Lei decide di rinunciare, così ritorniamo verso le trincee.
L'avamposto (di cui mi ha colpito il pastrano lungo fino ai piedi, e che non era un soldato, come io avevo pensato, ma il Maggior Generale De Marchi, comandante della Brigata) Le fa cenno di fermarsi e le dice “Signor Tenente, sull'altra sponda gli Austriaci non ci sono più. Voi gli avete fatto da bersaglio: se ci fossero stati vi avrebbero ucciso tutti. Io le do un consiglio: il grosso vada a nascondersi dietro le trincee e due uomini con cavalli robusti tentino un'altra volta, insieme a Lei.”
 

 
28 OTTOBRE 1918. IL 4° SQUADRONE DEL "NIZZA CAVALLERIA" ATTRAVERSA IL PIAVE


Lei sceglie il caporale Barlassina con il cavallo Abuso e Massari con il cavallo Rubicone; ma siccome non era possibile staccare Rubicone dal gruppo, allora la scelta cade su Venafro, che montavo io.
Dopo parecchi tentativi riusciamo a iniziare la traversata, a fatica, raggiungiamo un isolotto in mezzo al fiume, senza che ci sia alcuna reazione da parte degli Austriaci. Poiché sembra proprio  che sull'altra riva non ci sia nessuno, il resto del plotone entra nel fiume. Quando (ed è ormai spuntata l'alba). Dopo molti tentativi una parte del plotone sta per raggiungere l'isolotto, le mitraglie austriache cominciano a sparare.
Dall'isolotto rispondiamo al fuoco; resistiamo fin verso  mezzogiorno, quando Lei dà l'ordine di ritirarsi e di riguadagnare la riva.
Il fuoco degli Austriaci si fa più intenso e la corrente del Piave più forte, e per Lei e Barlassina diventa troppo pericoloso tornare a riva.
Ricorderà certamente il fortunoso recupero (suo e di Barlassina), nella notte, da parte del genio, col Piave in piena. Barlassina è stato premiato con la Croce di Guerra: ricordo che spesso si lamentava con Lei, perché avrebbe voluto pure lui la medaglia.
Ora desidero ricordarle il nome di alcuni dragoni del 1° plotone e dei loro cavalli.
Non ricordo il nome del suo trombettiere: ricordo solo che era della classe del 1891 e montava la cavalla Vizzola.

Tenente                Reyneri                              cavallo Visto
Maresciallo           Bertazzoni                                     Pavese
Cap. Magg.          Gagna                                           Azzone
                             Barlassina                                     Abuso
                             Gori                                               Cia
Zappatore             Stucchi                                          Quataro
                             Arienti                                            Quintino
Soldato                 Borani                                            Ulano
                             Monti                                             Zapponcello
                             Peroni                                            Neofito
                             Magnani                                        Alano
                             Massari                                          Rubicone
                             Deambrogi                                     Venafro
                             Pedrini                                           Zeolite
                             Biagioni                                          Massimo
                             Vannucchi                                      Zulao
                             Pieraccini                                       Zaino
                             Straniero                                        Stresa
                             Artoni                                             Urak
                             Ciceri                                             Ungheria
                             Zaccheo                                         Stif
                             Carbonnier                                     Arca
                             Romeo                                            ?

Con affetto
Antonio Deambrogi






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CERNUSCO LOMBARDONE, 18 OTTOBRE 1968. LETTERA DI ANTONIO DEAMBROGI ALL'EX TENENTE ALESSANDRO LEVESI












TORINO, 4 NOVEMBRE 1968. LETTERA DEL COLONNELLO GUIDO REYNERI AD ANTONIO DEAMBROGI











CERNUSCO LOMBARDONE, 10 NOVEMBRE 1968. LETTERA DI ANTONIO DEAMBROGI AL TENENTE GUIDO REYNERI







Carla Deambrogi Carta





UN CANTIERE NAVALE IN MANSARDA di Marco Bartesaghi

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“Stai attento: il disordine ci deve essere, se no l’è minga bel … perché chi ama troppo l'ordine è un pazzo. Invece, più casino c’è più ci si sente meglio. - sperando che mia moglie di sotto non ascolti quel che dico”.








“Questo è l’incrociatore Bolzano: è tutto di rame. È una nave del 1942 della Regia Marina Italiana”

In primo piano l'incrociatore pesante Bolzano

“Quello che sto facendo adesso invece è il sottomarino Fratelli Bandiera, classe 600, anno 1942, 2a guerra mondiale, con pitturazione mimetica. È una sezione: dall’ordinata 50 all’ordinata 75 rispetto ai disegni dei cantieri Orlando, o Monfalcone, non mi ricordo”


Sezione del sommergibile Fratelli Bandiera

Per farmi capire meglio cerca i disegni, su cui mi indica il locale comando,  la “falsa torre”, di cui mi fa veder il modello che ha costruito e su cui mi indica l’entrata per il personale
“In effetti la “sezione” che ho costruito va dall’ordinata 50 alla 75/80, perché non potevo tagliare i letti (che non ho ancora fatto) a metà”. 



L'ordinata 50 del sommergibile Fratelli Bandiera

L'ordinata 75/80

Gli chiedo dove ha trovato i disegni. Mi dice che  arrivano direttamente dai cantieri e che l’Associazione Modellisti Bolognesi, è in grado di procurare tutti i disegni che vuoi.
Gli chiedo se tutte le sue costruzioni sono in scala e se usa sempre la stessa scala.

“Sì, sono tutte in scala, ma non con la stessa scala: il Bolzano è scala 1:150, la Vittorio Veneto è 1:200”

Suona il telefono.
“Oh mama, in de l’è? Ho sentito suonare. Chi ‘n de l’è ….”
Dopo aver risposto riprende a parlare ma ha cambiato discorso
“Ho anche una collezione di binocoli. Ho due Zeiss, un binocolo italiano delle Officine San Giorgio,, il migliore. Poi c’ho lì un russo, che mi ha dato un amico. Inoltre colleziono strumenti di misura: micrometri, amperometri, tester, ...”
 ...e cambia ancora discorso.
“toh, vuoi fotografare quella là?” - mi porta nell'altro locale della mansarda “è la Dana, una nave olandese di piccolo cabotaggio” 




"Dana", nave olandese

Mi mostra il “tornietto nuovo” con cui fa le canne dei cannoni e, ad esempio, i pistoni dei motori.
“Perché costruisco anche modelli di motori. Devo fare un modello di motore Isotta Fraschini 18 cilindri, che usavano sui MAS”

 

Il tornietto per lavorare il ferro
 
Funzionante?
“Ma no, scherzi? Gli metto i pistoni e tutto, però non sarà fatto per funzionare. Ho provato a farne uno funzionante, per un aereo, ma è durato poco”.
“Questae mi indica ancora l’incrociatore Bolzanoè una signora nave. Le mancano ancora tutti i cannoni antiaerei, poi va dipinta. Devo fargli la mimetizzazione del 1941, perché era in squadra con la Vittorio Veneto, La Bolzano è stata silurata a Genova da italiani, per non farla cadere in mano dei tedeschi. La Vittorio Veneto invece è stata colpita da diversi siluri”



La mansarda/cantiere navale, perlinata in legno scuro, è così accogliente, con  il suo disordine voluto, esibito, ma anche organizzato -  tant’è che lui ci sguazza benissimo -  e il mio ospite è così entusiasta che siamo entrati subito in argomento e mi sono dimenticato di presentarvelo : Enrico Colombo, classe 1947, nato a Verderio (Inferiore), in via  Tre Re, nel cortile dei “Maréna, dei Colnaghi dei Masirö, dove c'è la panetteria Nava. Il papà, Adamo Marco, detto “Marchin”, era operaio alla Pirelli. Durante il fascismo, però, non essendo iscritto al partito, faceva il “carbunat”:  consegnava il carbone alle case dei milanesi. La mamma, Cecilia Villa, era di Cascina Alba.



 
“Da piccolo, fino a quattro anni, sono stato a balia a Verderio Superiore, nella corte dei Colnaghi, dalla zia Ginetta. Dai dieci ai diciotto anni sono stato in collegio, dagli Artigianelli di Monza”



In collegio ha imparato il mestiere di elettricista, che poi ha svolto presso la ditta “Elettrocondutture”, realizzando quadri elettrici per navi civili. Al modellismo navale ha cominciato a dedicarsi all'età di diciotto anni.

Mentre parliamo e risponde alle domande, continua a lavorare alla “sezione” del sottomarino Fratelli Bandiera, mi spiega le operazioni che sta facendo, commenta come ci sta riuscendo e, in più, mi fa lui stesso delle domande. Il registratore, come un grande pentolone, accoglie tutto quello che diciamo e lo mischia. Il risultato è quello che state leggendo. D'altronde l'ha detto fin dall'inizio
“senza un po' di disordine l'è minga bel”.



“Adesso dobbiamo dividere l’opera viva – cioè la parte immersa dello scafo, detta anche carena – da l’opera morta – la parte emersa”. Prende un nastro adesivo nero, lucido, di circa tre millimetri – si lamenta di quanto costa, anche  se, quello che usa, mi dice, non è materiale da modellismo ma da carrozzeria – e lo stende con precisione sul modello.



Enrico impegnato nei ritocchi. La riga nera sullo scafo divide l'opera viva (verde) da l'opera morta.


“Adesso, dato che qui ci sono degli errori, devo provvedere.  Queste “schifezze”, cioè queste ammaccature vanno lasciate, perché i sottomarini sono così. Non ce n’è neanche uno bello liscio …”

Hai lavorato anche per i sottomarini?
“No, a Elettrocondutture facevamo solo navi civili. Sono salito su un sottomarino solo una volta, ma non su uno di questi … C’è da ritoccare qua, con questo colore” 
Facevate solo navi nuove?
“No, ho lavorato anche su una vecchia nave norvegese. Pensa te che aveva i quadri elettrici di comando  con ancora i vecchi regolatori di corrente della Brown Boveri, Te li ricordi?”
 

Io!? Figurati.
“Avevano ancora tutti i collegamenti con i cavi rigidi, squadrati, o ma che roba …”
 

Cosa intendi per vecchia?
“1950. Adesso si usano invece le canaline antifiamma, con i cavi isolati in gomma butilica; le sbarre collettrici devono essere tutte argentate, perché il rame tende a prendere il verde rame e poi si scaglia”.
 

Invece l’argento non si ossida?
“Sì, si ossida ma poi rimane lì, non si stacca”

Racconta e intanto continua con i ritocchi di vernice sul sottomarino.
“Va che manina, va, va , va” - si compiace - “Oplà. Questo rosso non mi piace” e via con un ritocco.








Lavoravi nei porti?
“No, nei cantieri”.
 

E hai mai navigato?
“Qualche giro quando si dovevano fare le prove e basta …”
Come scegli i modelli da realizzare?
“Sono appassionato di storia della navigazione. Poi a me è sempre piaciuto ascoltare i racconti di chi ha vissuto sul mare. In Elettrocondutture c’era un ingegnere che era stato imbarcato su un sommergibile: mi diceva che la vita lì era una cosa pazzesca …Ho un amico di Oggiono che era silurista su un sommergibile: la branda su cui dormiva era proprio sopra i siluri”




Parlami di qualche nave che hai fatto
“Negli anni settanta avevo fatto la Vittorio Veneto; prima  un brigantino; poi l’incrociatore Indomito, che ho regalato a uno che lavorava con me;


La corrazzata Vittorio Veneto. Nella foto sotto un suo particolare




ho fatto due cacciatorpediniere, poi ho fatto il Cutti Sark, una nave a vela inglese. Però le navi della seconda guerra mondiale sono la mia passione: gh’è chi va a pescà, chi a giugà ai bocc …” 


In primo piano il cacciatorpediniere Grecale; in seocndo piano il sommergibile Sciré

“Il Fratelli Bandiera è un sommergibile sulle 600 tonnellate di dislocamento”
 

Sarebbe a dire?
“Il “dislocamento” è il peso presunto di una nave che corrisponde al peso dell’acqua che viene spostata dalla nave stessa. Non si deve confondere con la stazza, che invece è la volumetria coperta   ecco, adess el m’è scapa de man …” - si riferisce al nastro adesivo che sta applicando.

Vedo dei trenini e chiedo se si tratta di un’altra passione.
“Mi piacciono, sono diventato un bambino, ti dico la verità: è inutile diventar grandi per diventar pirla … restiamo bambini!
Così quando scriverai la tua biografia dirai che hai conosciuto un artista della navi”.

 

Gli dico che la chiacchierata che stiamo facendo è destinato al blog
“Cos’è ‘sto blog? Io sento dire del blog qua, del blog là, ma non so neanche cosa sia. Non ho neanche un computer”.

Cerco di spiegargli ma mi distraggo  perché sopra il tavolo dove lavora è appeso un “regolo calcolatore” lungo almeno mezzo metro. Per chi non lo sapesse il “regolo” è uno strumento che serviva, fino all’avvento delle moderne calcolatrici, per fare calcoli, anche complessi: non sono mai stato capace di usarlo.
 

 
Il regolo calcolatore


“Oh, impossibile”
È sempre così: quando una persona sa fare bene , molto bene, una cosa pensa sia impossibile che altri invece non la sappiano fare.



“Ho visto un peccato, devo fare un ritocco”

Intanto gli spiego cos’è un blog, in particolare il mio
“Ma lo guarda qualcuno?”

Quanto costa fare un modello come questo – mi riferisco al Fratelli Bandiera.
“Tanto” - risponde, senza fare cifre, e mi invita a sollevarlo. Non mi rendevo conto che pesasse così tanto, ed è tutto lamierino di rame.
 

“Sono passioni che costano, perché un minimo di attrezzatura la devi avere”
Ma quella, quando ce l’hai ce l’hai.
“Sì, sì, questo è vero”.

Prima della sezione del Fratelli Bandiera, a cui sta lavorando, aveva già costruito un modello, quella volta intero, di sottomarino italiano, lo Sciré, che fu affondato nell’agosto del 1942.

“Adesso ti faccio veder come si fa la listellatura. Con queste listelle di legno devo rivestire tutto il pavimento della torre”


Particolare della "falsa torre" con listellatura in legno
Un lavoro da certosino: il pavimento ha forma più o meno ovale e, non essendo libero, ma occupato da diversi oggetti, ogni listella deve essere sagomata con un cutter.
“La prima listella ha il compito di fare da guida per le altre: la taglio; controllo che sia fatta bene; la incollo, urco can quanta colla m’è andata giù … ”


Sega a nastro
 Quali attrezzature usi? Mi mostra una sega da banco, per tagliare il legno, una fresatrice e un tornio per il metallo.
“La fresatrice serve soprattutto per costruire i modelli di motori”.

 
Fresatrice


 
Alcuni strumenti "utilissimi"



Ti piace di più lavorare il legno o il metallo?
“Non ho una preferenza: quando la nave richiede il legno uso il legno, quando richiede il metallo, come nelle navi da guerra, uso il metallo, cioè il lamierino.”


Due modelli in legno: il Cutti Sark, veliero inglese e, sotto ...

... un battello del Mississippi
Cosa te ne fai delle navi che costruisci?
“Di solito le tengo. Solo che, adesso, l’associazione dove va la mia bambina, la Silvia, è un po’ in crisi, allora se riesco ne vendo qualcuna.”

Che associazione è?
“L'A.G.A.P.H. di Barzanò, che gestisce un centro diurno per disabili: gli hanno tagliato i finanziamenti, perché quando non sanno più dove attaccarsi si attaccano ai poveracci”  

 


Enrico Colombo e Fabrizio Oggioni
 
Quindi se ti capita di venderle le vendi per aiutare l'associazione.
”Ad esempio quel motoscafo che c’è là sotto il tavolo del tornio, che è un signor motoscafo, è in vendita”
Ci ripromettiamo, su questo argomento, di tornare in un'altra occasione.
 

Hai mai fatto mostre? 
“Sì, una a Brivio e una a Bellano e hanno avuto anche abbastanza successo. Le navi sono tornate un po’ danneggiate, però sono stato contento”

Faresti una mostra a Verderio?
“Adesso mi sto impegnando per farne una a Merate, probabilmente all'inizio di giugno. Se qualcuno mi chiedesse di farne una anche qua la farei volentieri. Però bisogna vedere se alla gente può interessare una cosa simile”
Tutti i giorni lavori alle navi?
“No, dipende dagli altri lavori che ho da fare: la precedenza è riservata a quelli di casa”





Si accorge di “un errore gravissimo” - secondo lui - nella listellatura e quindi si concentra sul lavoro.

Come mai sulla superficie esterna di un sommergibile c'è una pavimentazione in legno?

“Per rendere il pavimento meno scivoloso; almeno da asciutto, perché quando è bagnato è bagnato e si scivola comunque”
Ma non si rovina stando sott'acqua?
“Cosa importa, quando è scassato si cambia. Se no come fa la gente a vivere? Bisogna dare da lavorare. Vedi che adesso prende forma. Poi ovviamente bisogna ritoccare tutto, togliere le sbavature”

Ma è ora di smettere, perché torna Silvia, la sua bambina ...




La "Caracca" Santa Maria, di Cristoforo Colombo. Una cosa pensavo di sapere: che Cristoforo Colombo fosse andato in America con le Caravelle. Sbagliato, si trattava di "Caracche"



Article 2

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SCUOLA D'ARTE

di

Elena Mutinelli

Scultrice


www.elenamutinelli.eu



LABORATORI INTENSIVI DI SCULTURA, PITTURA E DISEGNO

Iscrizioni sempre aperte



Info: http://www.elenamutinelli.eu/index_file/Page980.htm

mutinelli77@gmail.com


L'arte come mezzo espressivo e la tecnica come contributo a chi desidera arricchire e stimolare le proprie intuizioni e inclinazioni creative.

La scuola, dal profilo altamente professionale, fornirà la sperimantazione approfondita di tutte le tecniche fondamentali del disegno, della pittura e della scultura.

I laboratori si svolgeranno presso lo studio di scultura di Elena Mutinelli:
Via dei Platani, 4
Verderio Superiore, 23878 (LC)

 
 

CHI È ELENA MUTINELLI?

Dopo aver conseguito la laurea di Scultura all’Accademia di Belle Arti di Brera nell’anno Accademico 1989/90 con i docenti  A. Cavaliere, Cascella, L. Silvestri, nel 1990/91, si  trasferisce a Pietrasanta per apprendere la tecnica del marmo.

Successivamente tra il 1992 e il 1995  lavora tra  Milano  e Pietrasanta.

Si stabilisce definitivamente nel 1995 a Milano, città che le da l’opportunità di collaborare con Gallerie d’Arte storiche e di prestigio quali la Compagnia del Disegno, la Galleria d’Arte Marieschi, la Galleria d’Arte Gabriele Cappelletti Arte Contemporanea  ed altre Gallerie di ultima generazione quali la Galleria d’Arte Entroterra.

Dopo soggiorno a Pietrasanta, la sua scultura inizia ad assumere un taglio personale, inizialmente drammatico ed inquietante, in seguito delinea chiaramente i tratti di un’umanità solcata per suo stesso nascere, in levare, manifesta nell’intensa espressività dei particolari - mani vigorose -  rendendoli protagonisti efficaci del linguaggio del corpo.

Nel 1998 G. Segato decide di riunire un decennio di sculture e disegni curando un’ importante mostra personale pubblica, Le mani sul corpo, in concomitanza ai Concerti Wagneriani all’Alba, con il Patrocinio dell’Università agli Studi di Salerno presso il Chiostro di Villa Rufolo, Comune di  Ravello, Salerno.

Negli anni successivi E. Mutinelli matura una propria forza espressiva con cui traccia i forti profili  del suo orientamento; il luogo del corpo è un ambito che offre ancora molto da dire, esso è vivo, pulsa, va oltre il conflittuale rapporto dialettico tra tradizione e modernità. E’ proprio questa sua particolare fisionomia plastica, quasi virile che ha attirato l’attenzione delle Gallerie d’Arte che tutt’ora trattano la sua opera.

 

Nel l998 al 2004 decide di aprire un nuovo studio dove le è possibile dedicarsi totalmente alla scultura e all’opera del Duomo di Milano, in questi anni infatti si propone definitivamente come collaboratrice esterna alla Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano, tale rapporto professionale già sussisteva dal 1992 ma in modo frammentario.

La collaborazione con la Veneranda Fabbrica Del Duomo di Milano la vede coinvolta nella riproduzione di opere in marmo originali con opere in marmo in copia lavorate presso il proprio studio.

Dal 2003 al 2005 riceve l’incarico dalla Veneranda Fabbrica del Duomo Di Milano di dirigere il cantiere degli scalpellini presso la Casa di Reclusione di Opera (MI), insegnando loro a riprodurre fedelmente dal modello originale le sculture e gli ornati del Duomo di Milano.

Attualmente E. Mutinelli ha come Gallerie di riferimento la Galleria d’Arte Marini, Milano, la Galleria d’arte MAG Marsiglione Arts Gallery, Como, Kyoto, la Galleria d’Arte S. Eufemia, Venezia, la Galleria d’Arte Compagnia del Disegno, Milano.

Nel 2012 apre un nuovo studio in Brianza dedicandosi unicamente alla scultura.


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